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Pablo NERUDA - Splendore e morte di Joaquin Murieta

Il Tempo, 25 aprile 1970

Il palcoscenico raffigura una povera chiesa sconsacrata, squallida e deserta e, tuttavia, evidentemente ancora in grado di accogliere un rito quale che sia. Entra una turba spettrale di guitti famelici e spauriti, dalle maschere grottesche: un presente coi segni logori e sordidi di un passato fossile. Al cospetto di un gruppo di operai che li ha seguiti, diffidenti ma non di malanimo, codesti relitti allucinanti di un’arte consunta e degradata, sotto la guida di un non meglio specificato “poeta”, intraprendono a recitare, a celebrare a modo loro, inevitabilmente umiliandola a uno sgangherato musical, l’avventura di Joaquin Murieta, brigante cileno ai tempi della corsa all’oro. Per un frequente processo di mitizzazione popolare, egli è divenuto, nella leggenda, un guerrigliero difensore dei deboli e raddrizzatore di torti e come tale appare nel lungo poema, di un lirismo infuocato, dedicatogli, come dovrebbe esser noto, da Pablo Neruda, sotto il titolo: Splendore e morte di Joaquin Murieta.

Così, però, come risulta, utilizzato per le esibizioni di quegli squallidi comici, agli spettatori proletari, esso non è più il loro eroe: ha perduto il significato giustizialista, rivendicatorio, marxista, là, che deve avere. E, allora, che accade? Accade che la posizione si capovolge: gli spettatori diventano attori e gli attori spettatori: teatro nel teatro a ripetizione. Al cospetto di quella guittalemma narcisistica e spaventata, quei popolani veri condurranno a termine la rappresentazione, incanalandola nel senso giusto, giusto per loro.

Detto telegraficamente, questo è lo spettacolo che, per il Piccolo Teatro di Milano, ha allestito il giovane regista francese, allarmante ma pieno di talento fin sopra i capelli, Patrice Chereau, intervenendo massicciamente sul testo di Neruda, vuoi come “adattatore”, vuoi come vero e proprio coautore, iperpoliticizzando ciò che è, salvi i diritti della poesia, già abbastanza politicizzato nell’originale “canto popolare” del grande poeta cileno, tra parentesi candidato del Partito comunista alle elezioni presidenziali del suo Paese proprio quest’anno. Come al solito, gratta il regista e ci trovi sotto un autore in agguato. Comprensibilmente questa intrusione indiscriminata non è che non provochi squilibri, scarti e cali di stile nel discorso della rappresentazione, specie verso la fine. Quando Neruda, ormai, c’entra e non c’entra più. E tuttavia, una volta rassegnati al principio del regista demiurgo è giusto proclamare a chiare lettere che, accantonando la fin troppo palese faziosità politica che con l’arte non ha niente da spartire, si assiste finalmente a uno spettacolo il quale, per coerenza, rigore, unità stilistica, chiarezza ed efficacia teatrale, si dimostra degno del Piccolo Teatro dell’epoca migliore.

Insieme a un gruppo di travestiti resi ottimi recitanti, partecipa alla rappresentazione un rilevante numero di attori tutti eccellenti – cosa vuol dire la mano di un regista autentico! – che non ho lo spazio per citare. Facciamo che almeno si sappia che le pertinenti musiche, che hanno non poca parte, sono di Fiorenzo Carpi. Quanto, poi, lo spettacolo debba alla lezione pirandelliana credo sia risultato implicitamente più che palese.

Carlo Terron

Ultima modifica il Mercoledì, 17 Dicembre 2014 11:59
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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