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Emilio DE MARCHI - El testament

Corriere Lombardo, 19 febbraio 1963

Nella letteratura milanese di fine secolo, in fondo facilona, travasatasi dalle lenzuola della Scapigliatura portandosi dietro l’odor romantico che le impregnava, in quelle del naturalismo alla francese, intinto, per suo conto, d’odor sociale, la posizione di Emilio De Marchi (1851-1901) rappresenta un caso particolare. Primo perché di quella brava gente fu e rimane -- ad onta di un movimento di rivalutazione in atto – il più ingiustamente misconosciuto; secondo per la fedeltà costante, il carattere quasi di clan dei suoi pochi ma ferventi estimatori: “i fedeli di Demetrio Pianelli” come li chiamava il povero Alfredo Panzini. Ciò deriva, mi sa, da due ordini di ragioni. Per un verso, col suo cristianesimo angosciato, con la sua solidale partecipazione umana, con l’addentrarsi nell’indagine della sensazione e del subcosciente, tratti verso climi di problematica responsabilità morale in chiave intimistica, egli anticipa temi contenutistici e strumenti espressivi che diverranno abituali alla narrativa a lui immediatamente successiva; valga uno per tutti il ricorrente motivo dell’essere o del non essere, del sentirsi e del parere che esploderanno trionfalmente in Pirandello. Per l’altro, tutta questa indubbia originalità e ricchezza rimane timida e frammentaria, difettosa di coerenza unitaria e priva di autentico vigor poetico: una vasta visione senza ali, costretta nella prospettiva provinciale di quei “ritratti e costumi della vita milanese” come egli stesso chiamò il ciclo dei suoi romanzi.

Dei quali Arabella, seguito, non altrettanto riuscito, in un certo senso al Demetrio Pianelli, ha fatto le spese dell’accurato e applaudito spettacolo, allestito ieri sera al Gerolamo, dalla Compagnia del Teatro milanese. Limitandosi opportunamente a un episodio, il predominante, del racconto e, ponendovi il massimo della fedeltà consentita, alla trasposizione scenica ha provveduto, con scrupoloso amore, Ciro Fontana non nuovo a esercizi del genere, dei quali il più impegnativo rimane un incontro col Marchionn di gamb avert del Porta, rappresentato alcuni anni fa.

Come nel romanzo, così nella commedia – presentata col titolo El testament – più che la mite, dolce, buona e dolente Arabella Pianelli che, come figlia del suicida Cesarino e nipote del sacrificato Demetrio, porta il marchio di un destino di vittima predestinata, in un ambiente di volgari interessi e di sordidi egoismi, il vero protagonista è il suocero, Tognino Maccagno, ritratto complesso, contraddittorio e così modernamente vivo di un uomo immerso nella propria miseria di rapace senza scrupoli, che non indietreggia nemmeno davanti al crimine di far scomparire, a proprio vantaggio, il testamento di una parente o di mandare in galera un complice incolpevole; mentre, nello tesso tempo, è tormentato dal complesso di colpa che gliene deriva e che tenta di superare con l’adorazione per la giovane nuora nella quale cerca disperatamente il riscatto di un barlume di stima e di un po’ di affetto.

Intorno a codesti due poli contrari, due mondi incomunicabili: lei una spenta malinconia crepuscolare, pericolosamente incline al patetismo lacrimoso; lui un’accesa prepotenza realistica, altrettanto pericolosamente oscillante, con sfumature intermedie più intuibili e presupposte che espresse, fra la rabbia violenta e il rimorso mendicante, formicola tutto un mondo meschino, piccolo borghese e plebeo, afflitto ed immeschinito dalle proprie miserie morali e materiali; quadro in minore e con qualche indulgenza macchiettistica di una realtà sociale dove le aspirazioni, le ambizioni, gli egoismi, i bisogni sono in anticipo su un processo di rivolgimento economico in via di formazione.

È, questo, anche il lato più felicemente riuscito al riduttore, e che dal dialogo vernacolo, trae una schietta e colorita verità che alterna, con naturalezza, il comico al serio. È stata anche la parte dello spettacolo meglio compresa e più apprezzata dal pubblico, prodigatosi in applausi alla fine di ogni atto e anche a sipario aperto.

Scene, regia, recitazione di primissimo ordine, da lodare incondizionatamente. Alle prime ha provveduto addirittura Nicola Benois che, trascurando, una volta tanto, l’oceano del palcoscenico della Scala per occuparsi del catino di quello del Gerolamo, ha creato degli ambienti fine Ottocento di gusto pittorico squisito, offrendo alla regia, precisa e sensibile, di Filippo Crivelli, l’inserimento nell’ atmosfera più adatta. Gli attori mi scusino. Tutti, indistintamente, e son molti, meriterebbero una definizione particolare, perché tutti hanno recitato in modo esemplare, senza eccezione alcuna: da Adriana Asti, come divorata dall’intensità di una vulnerabile sensibilità morale, a Piero Mazzarella, così ammirevolmente sobrio in una parte seria di quella responsabilità: dal mirabile Allegranza alla pittoresca Borgo, dalla frenetica Pogliani all’umoristico Rovati, finissimi entrambi nell’originalità dell’invenzione comica; dalla deliziosa Rainer alla insolente Celani, dallo schietto Andreani al neghittoso Silveri, dal tortuoso Biraghi alla semplice Priori, dalla sincera Minelli al monumentale Borghi e tutti gli altri.

Carlo Terron

Ultima modifica il Martedì, 16 Dicembre 2014 11:29
La Redazione

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