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Luigi PIRANDELLO - Liola'

Corriere Lombardo, 14 dicembre 1961

Ieri sera, all’Odeon celebrazione del venticinquesimo anniversario della morte del nostro maggior commediografo. E’ di scena Liolà, la meno pirandelliana delle commedie di Pirandello, capolavoro unico e irripetibile. Recensendo, nel 1917, la prima torinese di questa opera, insolita e inaspettata nel repertorio dello scrittore e che, Verga a parte, è la più bella e la più profondamnete isolana e paganamente classica delle commedie siciliane, Antonio Gramsci parlò di parentela coi drammi satireschi dell’antica Grecia e di equivalenza scenica della pittura vascolare ellenistica. Era una geniale intuizione critica la quale non solamente individuava il nucleo ispiratore del copione preso in esame, ma suggeriva un’apertura chiarificatrice su uno degli aspetti caratteristici e meno puntualizzati dell’arte pirandelliana: la vena segreta che corre e pulsa nello spessore di tante altre sue opere – Lazzaro, per esempio, o La nuova colonia, o La sagra del signore della nave per non nominare che le più scoperte in questo senso – una pagana elementarità preintellettuale, rimasta in ombra e finita sopraffatta dal prevalere – vuoi nell’attività dello scrittore, vuoi nella collocazione critica compiutane dagli esegeti – degli interessi di carattere filosofico, nella dialettica “forma e vita”; il secondo termine della quale, senza quel presupposto, rimarrebbe, quanto meno, incomprensibile o  comunque arido  e freddo.

In realtà, soltanto i casi e gli accidenti esteriori della vicenda che danza intorno al personaggio ebbro ed alato di Liolà, vera espressione mitica dell’energia fecondatrice della Natura, possono aver consigliato a qualcuno di fare i nomi del Boccaccio, del Machiavelli e dell’Aretino. Direi che qui ci troviamo agli antipodi, in regioni primitive, alogiche e irrazionali e, una volta tanto, nemmeno disposte in quella particolare prospettiva umoristica tesa fra la pietà e la crudeltà, che è sempre ed ovunque una delle chiavi del discorso pirandelliano. Qui la pietà è totalmente assente e, con essa, anche la più lontana proposta patetica – ad onta di tanto disperarsi di femmine – a favore, semmai, di un livido ed acre sarcasmo. Per conto mio non conosco niente di più sostanzialmente serio di questa farsa carnalmente ridente, dove non si può parlare né di immoralità e nemmeno di amoralità ma soltanto, caso mai, di premoralità, manifestata con lieta e serena crudeltà di intonazione classica, oserei dire precristiana.

Proprio come per la terra che si risveglia a primavera sotto l’urgere e il deflagrare di occulte energie fecondatrici, siamo sulle soglie di un panico universo governato unicamente dal suo slancio vitale, che celebra il proprio mistero divino in un canto ordinato dalla siringa di Pan. E Liolà, vagabondo, ubriaco di canto e di salute, che rende madre ogni donna che abbia la felice sventura di passargli accanto, e trascorre nella sua eleusina esaltazione traendosi dietro, come Dioniso i satiretti del suo seguito, tutta la sua figliolanza, confidando nella generosità della terra capace di nutrire sempre, in ogni modo le proprie creature, resta puro e innocente come un angelo o come un giovane animale garantito dalla saggezza elementare della Natura di cui è espressione.

Che poi la beffa da lui giocata al balordo Zì Simone intestardito di avere un erede, col fecondargli la moglie che egli voleva ripudiare come sterile, e mandando all’aria le manovre di un’altra ragazza che stava per accalappiare il vecchio affibbiandogli un figlio, anch’esso generato con l’intervento infallibile di Liolà, suggerisca toni e sviluppi da pochade come qualcuno ha creduto, questa è la maggior bestialità che si possa dire. Nell’empito di quello che non saprei diversamente classificare che come la trionfale esaltazione del suo “genitalismo lirico” Liolà, impudicamente puro, non fa che celebrare l’eterno rito bacchico, della generazione, in una terra dove gli antichi Dei erano di casa e sulla quale l’occhio e l’orecchio del poeta sanno ancora sorprendere le orme dei loro passi augusti e gli echi del loro canto arcano.

Serata importante e applauditissima in virtù della ricomparsa del grande assente del nostro teattro: Vittorio De Sica che firmava la regia. Lo spettacolo è molto bello, di una armonia, d’una precisione, di un’unità, d’una coralità esemplari; ricco di particolari deliziosi e d’invenzioni geniali, con un gusto raro della composizione e del quadro, facilitati dalle stupende scene di Ezio Frigerio d’un biancore accecante, immerso, ora nel nitido azzurro del mattino, ora nel caldo fuoco del tramonto, ora nella liquida trasparenza della notte lunare. Una concertazione magistrale, anche se fondata su due compromessi, a rigor di critica piuttosto equivoci: un linguaggio e, di conseguenza, una recitazione in cui si son fatte coesistere, non senza qualche inevitabile stridore, le due versioni della commedia: quella in vernacolo siciliano e quella in lingua; e una puntualizzazione realistica che non perde mai d’occhio e si compromette un po’ con la verità del palcoscenico, sia pure a livello superiore. Ma l’interesse principale della rappresentazione consiste nel deliberato e coerente spostamento, operato dal regista, verso una tonalità e un significato decisamente drammatici non privi di sottolineature crudeli, che conferiscono alla commedia una dilatazione e un’importanza insospettate estranee alla impostazione tradizionale, prevalentemente, per non dire esclusivamente, allegra e ridanciana tramandata del primo famoso interprete, Angelo Musco.

Ammirevole lo sforzo ed ottimi i risultati di Achille Millo al quale si sarebbe forse potuto chiedere un po’ più di ebrietà vitalistica, ma non maggior intelligenza di penetrazione e rigore di disciplina. Stupendo, la verità fatta teatro, e non viceversa, Umberto Spadaro, siciliano vero e verissimo zio Simone. Altra siciliana vera, d’un fuoco e di un’impetuosità eccezionali, Silvia Monelli; ed egualmente intensa Serena Michelotti. Le quattro vecchie erano quattro caratteriste d’eccezione: Cesarina Gheraldi, Adriana Innocenti, Italia Marchesini e Giusi Raspani Dandolo, una più brava dell’altra. Né vanno dimenticate la Lucchiari, la Cappellini, la Morandi, coro di liete pollastre, intorno all’inesausto gallo del pollaio.

Carlo Terron 

Ultima modifica il Venerdì, 12 Dicembre 2014 12:38
La Redazione

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