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Christopher FRY - La signora non è da bruciare

Corriere Lombardo, 17 marzo 1952

La guerricciola combattutasi sabato sera sul vellutato campo di battaglia del teatro di via Manzoni, intorno alla allegorica fiaba esuberantemente incoronata di lirici filosofemi ed eroicomici melismi, del poeta inglese di turno Christopher Fry, dal titolo – e non soltano il titolo – vagamente elisabettiano: La signora non è da bruciare (The Lady’s not for burning) rappresentata dalla compagnia del Teatro Nazionale – il quale, viceversa, si fa un puntiglioso scrupolo di non rappresentare che teatro straniero – dimostra, se non altro, una verità che sta al fondo del novanta per cento delle guerre: e cioè che tutti hanno avuto ragione e tutti hanno avuto torto ad un tempo. Sia la platea che, difendendo le ragioni del buon senso, ha cominciato a rumoreggiare fin dalla metà del primo atto; sia l’autore che, rivendicando i diritti della propria originalità, avrebbe meritato di essere ascoltato con attenzione e giudicato poi per quello che aveva scritto e non per quello che si sarebbe voluto che avesse scritto; sia gli attori che non meritavano di venir avviliti e distratti durante il loro non facile lavoro; e sia persino Guido Salvini, ingenuo per troppa furberia, come qualche volta capita, il quale, difendendo più che legittimamente il coraggio e il merito di aver introdotto in Italia un’opera ardua, nebbiosa e discutibile fin che si vuole ma poeticamente e idealmente insolita e degna di rispetto, si è presentato alla ribalta – e il suo torto è stato quello di venir fuori soltanto al principio del terz’atto, non per orientare gli spettatori sul significato della commedia, ma ormai soltanto per tappare la falla – e con ogni migliore intenzione di farla da mentore cortese, ha tentato un grazioso ricatto lasciando cadere dall’alto il nome della poesia, una parola, come è noto, che fa sempre impressione per il complesso di inferiorità che induce; ed ha finito con l’aver tutta l’aria di distribuire una gratuita quanto ingiusta patente di ignoranza e insensibilità a quel pubblico, che sarà quel che sarà, ma che tuttavia è il medesimo che apprezzò e decretò tanto successo a un copione non certo meno astruso e letterariamnete bizantino di Thomas S. Eliot, il poeta inglese di turno sulle nostre scene l’anno scorso e, fino a prova contraria, di gran lunga più importante.

Ed ora, poesia a parte, vediamo, se è possibile, mettere un po’ d’ordine nelle nostre idee. Il che è meno facile di quanto si può credere. A scanso di equivoci è meglio avvertire subito che nemmeno al pubblico e alla critica inglese la faccenda di Christopher Fry e dei suoi copioni così eruditamente inglese risulta ancora chiara. Fin dal suo esordire, nel 1947 sulla ribaltina londinese d’avanguardia dell’Arts Theatre; e ad onta della successiva garanzia dei due Dioscuri della scena inglese, John Gielgud e sir Laurence Olivier, che fecero applaudire dal gran pubblico le sue opere successive – raggiungenti a tutt’oggi il numero di quattro – esaltatori e denigratori si sono affrontati, e si stanno ancora affrontando, ad armi pari; e sono solo d’accordo sull’oscurità, l’ambiguità, l’ermeticità, la fumistica concettosità e il filosofico dilettantismo del raffinato e decadente giovane professore d’Oxford; insomma, sono d’accordo sulla confusione.

Chi, di fornte a una commedia si ponga a giudicare dall’augusto punto di vista della verosimiglianza di una storia plausibile coerentemente narrata attraverso le prospettive di una psicologia corrente, ha pienamente diritto di dissentire; due e due fanno quattro e non c’è più niente da dire. Diversa è la situazione di chi invece riconosca legittimo un teatro che, trascurando o anche soltanto ricacciando in secondo piano, come mero sostegno, l’aneddoto “umano”, punti verso una verità trascendente l’occasionale, e affidata alle soprareali capacità di rivelazione di un linguaggio ispirato, capace di esprimere quello che si dice un messaggio autonomo attraverso una serie successiva di abbaglianti illuminazioni liriche svincolate da ogni logica costruttiva e cronistica.

Abbiate pazienza. Qui ci soccorre, fino a un certo punto, qualche dichiarazione dell’autore. “Accettiamo l’enigma della vita”, egli ci suggerisce: “Se noi cessassimo per un istante di fingere di credere che siamo nati completamente vestiti in un appartamento con doppi servizi per ricordarci, viceversa, che siamo nati nudi, in un turbine di fenomeni innaturali, riusciremmo a comprendere quanto siamo smarriti, sbalorditi e miracolosi. Questa realtà è il dominio della poesia”. Primo: la realtà dunque è totalmente diversa da come noi la vediamo. Secondo: la poesia è il suo linguaggio naturale. “La poesia è il linguaggio dell’uomo che esplora la propria meraviglia”.

I personaggi della commedia esplorano la propria meraviglia. Lasciamoli fare, e vediamo come. Molto semplicemente: con una fuga dal modulo medio comune dell’esistenza di tutti gli altri ridotta a una partita di contingenti interessi, materiali o morali che siano, e col risultato di soffocare la realtà vera nella banalità, nella mediocrità e nella meschinità quotidiane. Niente di nuovissimo. Ma proprio qui ci imbattiamo, a mio parere almeno, nel primo difetto dell’opera. Negata la realtà comune, l’autore non sa poi metterne in piedi un’altra capace di sostituirla. Batti e batti, questa avventura alla ricerca dell’ultrasensibile, questa guerra della realtà occulta contro una realtà superficiale, di una verità profonda contro una verità esteriore, della storia contro la cronaca, del mistero contro la logica, si esaurisce in un’evasione puramente verbale; e anche là dove sembra andare più a fondo, giunge a una generica negazione:”la vita non merita d’essere vissuta”. E pazienza ancora. Ma alla fine tutto si contraddice in un opinato e facile accomodamento vaudevilistico, con l’ottimistica accettazione dell’esistenza così com’è secondo la regola di tutti, mettendo d’accordo e mandando a dormire fra le medesime lenzuola, dopo tanto fantasticarsi addosso, i due verbigeranti eroi della parola.

Essi sono una fanciulla, Jennet, tutta un esaltato, vivido e cangiante viluppo d’istinti; e un giovanotto, Thomas, un avventuriero, un soldato di ventura - l’autore non si preoccupa di farcelo sapere con precisione – animato da una clamorosa e concitata nausea della vita, il quale esprime il proprio metafisico disgusto in un alto e immaginifico lirismo da barocca farsa tragica, tutta percorsa da una fosca necrofilia. Possiamo definirli due esseri che tentano di evadere dalla condizione del banale umano realizzandosi come personaggi. Forse non ve ne sarete accorti, ma esistenzialismo e pirandellismo ammiccano a distanza. E Priestley sta a guardare.

Siamo in un Quattrocento di comodo, ed è una volubile giornata d’aprile. I nostri mitomani capitano, l’uno dopo l’altro, nella casa del sindaco Tyson, il giorno stesso che si deve festeggiare il fidanzamento di un suo nipote con una giovinetta educata dalle monache. Il sindaco e la sua famiglia, tutti personaggi pittorescamente individuati nel loro umoristico realismo, rappresentano quella data realtà terra terra, oltre la quale tentano di spiccare il volo Jennet e Thomas.

Il primo viene puramente e semplicemente a chiedere d’essere impiccato per soddisfare la propria sete d’assoluto. A tale scopo si accusa di alcuni immaginari omicidi. La seconda ci viene trascinata per essere bruciata come strega sotto il sospetto di aver tramutato un uomo in cane. Si tratta dello stesso individuo che il giovanotto asserisce d’aver ammazzato; e questo giustificherà in seguito il sospetto che non si sia trattato che di una finta per salvare la ragazza. Parrà strano, ma né l’uno né l’altra sembrano impressionar troppo il sindaco e i suoi. E meno ancora li impressiona l’agitazione della gente del paese che va braccando la sortiera e si abbandona al terrore del giorno del giudizio; ciò che contribuisce ancor più alle 

slegature e alle oscurità sconcertanti della sconcertante commedia. Sia come sia, decidono di bruciare la presunta magalda e non prestar alcuna fede alle smargiassate del soldato in cerca di eroismo per tedio della vita. Siamo al punto che colui che anela – o dà ad intendere d’anelare – alla morte, non viene accontentato (ma non bastava gettarsi in un fiume o buttarsi da un quinto piano spontaneamente?); e colei che brama ad ogni costo di vivere, deve prepararsi all’idea del rogo, e ognuno cerca di persuadere l’altro rispettivamente della bellezza di morire e della gioia impagabile di vivere. Alla fine, salta fuori colui che dovrebbe essere stato assassinato o mutato in cane; più vivo e più bipede che mai. Jennet è salva, Thomas si accorge di amarla e tutto finisce in alcuni matrimoni.

E c’è poi dell’altro. Con tutto il rispetto, si direbbe che al coltissimo professor Fry abbiano dato alla testa Shakespeare e gli elisabettiani. Verrebbe voglia di trascurare tutti i simboli e le filosofanti allegorie, lasciar da parte la ricerca delle possibili chiavi ideologiche atte a spiegare la sua opera, e prenderla puramente e semplicemente come una “follia di un giorno di primavera”, ove in continui spessori e trasparenze e analogie, quasi vere e proprie citazioni, un poeta dall’aspirazione erudita intende rifare modernamente la commedia shakespeariana alternando ed esasperando con turgida magniloquenza le esaltazioni stupefacenti d’un panico melismo barocco con le crude e volgari notazioni realistiche e i doppi sensi salaci, senza trascurare la moralistica preoccupazione, secondo la poetica a montagne russe di quell’equivalente del nostro marinismo che fu l’eufuismo dell’epoca d’Elisabetta.

Non basta. Sia effetto di questa anacronistica posizione di sincera mistificazione letteraria, sia, molto più probabilmente, l’atteggiamento naturale dell’autore, la sua commedia si inserisce tutta, parola e situazione, in una fitta prospettiva ironica che, arricchendone la risonanza, complica ulteriormente le cose tirando in causa la irridente barba di George B. Shaw. E, sotto questo punto di vista, il partito più legittimo potrebbe essere quello di parlare di un’ambiziosa farsa metafisica. Ma dovendo giudicare da una traduzione necessariamente approssimativa e fatalmente degradante all’uniformità di una prosa disarmonica, la sottigliezza insinuante e carica di sfumature ovviamente presenti e intuibili nei versi dell’originale; e da un’esecuzione, ahimè, tutta tendente, comprese le scene e i costumi del Coltellacci, a un realismo teatralizzato che, nel migliore dei casi, sarebbe stato adatto al Beffardo di Nino Berrini, non è facile pronunciarsi.

Fatta questa riserva generale, tutti hanno poi recitato con impegno e intelligenza. E prima di ogni altro Elena Zareschi, l’unica preoccupata di uno stile controllato sul linguaggio della commedia. Roldano Lupi fece molto effetto per la stimolante ostentazione di un arioso sex-appeal e ci ricordò Annibale Ninchi, Renzo Ricci e Ruggero Ruggeri, tutti insieme e alternativamente; Edda Albertini fu casta e gentile come un’attrice giovane modello; assai bravi lo Sbragia, l’Albertazzi, il Sanipoli, la Orlandini, il Piazza, il Polacco, il Bonagura, il Gaipa. Gli spettatori si erano gentilmente spartito i compiti. A sipario alzato si sono agitati i dissidenti e a sipario chiuso si sono sfogati i consenzienti. Nelle due repliche di ieri, lo spettacolo è stato seguito con attenzione e applaudito senza contrasti.

Carlo Terron

Ultima modifica il Martedì, 09 Dicembre 2014 18:49
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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