mercoledì, 04 dicembre, 2024
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«Il teatro è la raccolta... e poi l'improvviso svanire» - Conversazione di Nicola Arrigoni con Eimuntas Nekrosius

Eimuntas Nekrosius Eimuntas Nekrosius

C'è una coerenza interna al teatro di Eimuntas Nekrosius che offre a chi lo frequenta con appassionata ostinazione e continuità di legare uno spettacolo all'altro, di trovare in ogni nuovo allestimento delle invarianti che sono il rafforzamento di un segno estetico e al tempo stesso il proseguimento di un pensiero/dialogo che il regista mette in atto col suo magistero teatrale. Questo accade nella Vita di Galileo di Brecht in cui l'interrogarsi sul mondo, sulle regole che lo governano, sulla possibilità che queste regole possano preannunciare lo sfratto di Dio sono un tutt'uno. E allora anche il workshop tenuto dal regista lituano a Vicenza in qualità di direttore e artista residente del Ciclo di spettacoli classici al Teatro Olimpico e dedicato a giovani attori in formazione è un'occasione per il regista lituano per proseguire la ricerca sul rapporto col sacro, sul ruolo dell'uomo come discriminante dell'universo, iniziato col Cantico dei Cantici, proseguito con la messinscena della Divina Commedia e ovviamente con l'elegiaco Libro di Giobbe. C'è un chiedere senso, c'è un voler andare al cuore del creato con l'analisi, meglio col simbolo che tutto contiene e non tutto svela, che è sintesi e al tempo dilatazione del senso, immersione nel sema per coltivare la curiosità dell'uomo.

Costante della ricerca di Eimuntas Nekrosius è il confronto a volte duro, conflittuale, ellittico e senza fronzoli con alcuni dei testi fondanti l'identità e perché no l'etica dell'Occidente. Una scelta che si immagina non casuale se si pensa ai suoi Shakespeare, alla Divina Commedia, ma anche al Cantico dei Cantici, Il libro di Giobbe e ai russi Cechov e Dostoevskij solo per citar alcuni dei suoi spettacoli visti in Italia.
«Prima di tutto, prima di iniziare un lavoro mi chiedo sempre, se ci siano il desiderio e l'urgenza di lavorare. La cosa più importante è il desiderio di operare teatralmente ovvero come è il tuo stato interiore rispetto ad un agire e creare teatrali. Successivamente mi chiedo, su che cosa voglio lavorare, e lentamente, passo dopo passo, il materiale letterario appare, viene allo scoperto. Nel caso del Libro di Giobbe molti anni fa uno scrittore lituano Romualdas Granauskas mi disse che avrei dovuto fare uno spettacolo su quel libro, ad un certo punto quel suggerimento ha trovato la sua via, ha trovato il suo compimento. Ma ripeto il materiale letterario, il punto di vista testuale è veramente un motivo secondario, il desiderio di lavorare è sicuramente molto più importante. Se non c'e', se il tuo stato è 'dormiente', nessun materiale letterario lo potrà deliziare al punto da ridestarlo»

Da Shakespeare a Dante e a Camus e Brecht: che caratteristica deve avere un testo per catturare la fantasia di Nekrosius?
«Prima di tutto il testo e l'autore devono appartenere a una letteratura seria, ampia, letterariamente arieggiata. Non mi interessano i testi pieni di parole vuote, ma opere che accuratamente descrivono e osservano il mondo, lo spirito umano, la vita. In una sola frase: mi interessa una letteratura spaziosa in cui ci sia dentro tanto, in cui ci sia l'uomo innanzitutto e il suo rapporto col mondo e la realtà».

Lei non si limita a nuove produzioni ma mantiene in vita anche spettacoli che hanno contribuito a rendere il suo nome celebre a livello internazionale. Potrebbe descrivere la sua impressione nel revisionare il suo Hamletas quindici anni dopo? E' una sorta di corpo unico di simboli?
«Sì la definizione può essere quella che ha dato lei: Hamletas è ormai un corpo unico, con la doppia valenza che si può dare alla parola 'unico', ovvero irripetibile, ma anche così coeso e unito da essere quasi autonomo rispetto al regista che l'ha assemblato e ideato e forse anche rispetto agli attori che sera dopo sera lo mettono in scena, lo fanno vivere, per questo Hamletas è unico».

Perché nel rapporto di collaborazione produttiva con Ert prima e poi con il Teatro Olimpico di Vicenza ha deciso di affrontare la Divina Commedia, nel paese di Dante Alighieri?
«Semplicemente per la curiosità umana. Quando ho preso in considerazione il percorso attraverso cui è passato Dante nella Divina Commedia, ho cominciato interrogarmi e a creare da solo una sorta di tema, con una domanda come argomento principale: 'Questo percorso dove ci sta portando?'. Questo interrogativo mi ha seguito e sostenuto nel lavoro con gli attori, nelle decisioni sceniche. Con tutti gli errori, gli sbagli e le situazioni irrisolvibili del caso. A dire il vero, sono rimasto fino a oggi sulla strada, sul sentiero di Dante. E non so ancora se ce l'ho fatta anche a messinscena finita, a progetto concluso»..

Sembrerebbe che la sua immaginazione e creatività siano state favorite dall'astrazione del Paradiso, più che dalla concretezza narrativa dell'Inferno e Purgatorio uniti in un unico allestimento. E' solo un impressione?
«L'inferno è molto più comprensibile per noi, noi ci stiamo passando, nella nostra vita terrena, chi più, chi meno. Dal paradiso nessuno ha ricevuto messaggi, non c'è nessuna conoscenza. Quindi questa astrazione della fantasia è giustificata nel Paradiso. Noi nasciamo, viviamo, moriamo, ma effettivamente senza nessun senso del paradiso. Se capita che qualcuno abbia questa sensazione, questa dura solo pochissimo tempo: una luce in un occhio».

Pensando al suo Cantico dei Cantici, sembrerebbe che le sue immagini arrivino prima delle parole...
«Non è una questione di prima o dopo, di anticipare o seguire. In ogni modo la poesia, le parole devono avere qualcosa su cui fare affidamento, volenti o nolenti. Questa connessione è assolutamente necessaria. La stessa immagine è già codificata in ogni persona. Una volta alzàti dal letto, tutti guardano il cielo: questa è una immagine, e vale come una domanda: 'Che tempo fa oggi? Piove o c'è il sole?'. Non importa cosa viene prima. Se dicessi che la parola viene prima delle immagini... cosa cambierebbe? Nel teatro non si escludono l'un l'altra: né la parola, né l'immagine».

Quando un lavoro è buono per Nekrosius? E quando è completo?
«Posso rispondere solo con un po' di humor, se la questione riguarda gli spettacoli di altri. Se guardando una messa in scena creata da un regista la sensazione di invidia inizia a far capolino, è abbastanza. Ma la mia non è mai rabbiosa gelosia»

Che cosa vuole da un attore?
«Ogni volta spero e mi aspetto che l'attore si indetifichi con la letteratura, con l'autore. E' sempre importante e bello quando un attore va oltre il regista e fa di più di quello che ci si aspetti da lui, aggiungendo la sua interpretazione, arricchendo, quando offre idee durante le prove. Tutto questo è sempre tangibile quando si è sul palco. La paternità è visibile quando l'attore scappa, va oltre le righe create durante le prove ed estende quello che è stato creato dal regista, lo sorpassa. Occhi esperti noteranno sempre questo».

L'immagine del suo teatro spesso affonda nel mito e nell'arcaico. Perché?
«Quel tempo lontano ci permette di interpretare in modo altro il tempo che viviamo perché così non c'è diretta responsabilità come quando ci occupiamo di tempi a noi non troppo lontani. Credo che il riferirsi all'arcaico, a ciò che è lontano da noi ma fondante il nostro noi abbia un senso anche dal punto di vista cognitivo. Registi e attori riescono a conoscere tempi lontani e la letteratura in modo migliore, perché separati da parole, situazioni, atmosfere non quotidiane, antiche, simboliche, arcaiche e universali al tempo stesso. Il pubblico ha l'opportunità di entrare in contatto con una percezione assolutamente diversa: la tensione della tragedia, il livello della saturazione e della concentrazione della letteratura. Nell'antichità c'erano differenti legami e rapporti fra la dimensione umana e il cielo, il mare, gli dei, i personaggi mitici. Ora per noi tutto ciò potrebbe non significare niente, ma la gente ha creduto negli dei, nella visione di un universo magico e misterioso, col teatro questo senso del misterioso, del sacro viene recuperato. questo almeno cerco di fare».

Quale è il valore del teatro?
«L'intero valore del teatro è che tutto quello che è stato creato scompare immediatamente. E' come la nebbia cresce, cresce e poi improvvisamente svanisce. Questo è il valore: la raccolta e poi l'improvviso svanire».

Dopo la Divina Commedia, Il libro di Giobbe, c'è un legame tra i due lavori?
«Io non lo posso spiegare in maniera razionale, ma probabilmente quella connessione esiste, ma non so dirla. Faccio riferimento a quanto dicevo prima da un lato al bisogno di lavorare e dall'altro a quel recupero del mistero nell'uomo e nella realtà di cui gli antichi potevano godere».

Pensa che lo spazio del Teatro Olimpico abbia in qualche maniera influenzato la scelta del testo. Lo spazio è un limite o una risorsa?
«Certamente influenza. Mi piace molto questo spazio, il palco, la cornice dei posti a sedere. Qui, non importa se tu lo vuoi oppure no, l'atmosfera spinge attori, regista così come il pubblico a concentrarsi, a focalizzarsi. In qualche modo l'ottica degli attori e la vista del pubblico si intersecano molto bene. In generale, chi fa il suo ingresso sul palco del Teatro Olimpico per uno spettacolo, inconsciamente prova rispetto per quei secoli precedenti e per coloro che calcarono questo palcoscenico ,lessero, e impararono. Stando qui si finisce ricoperti da un senso di temporalità netto: non sei il primo, non sarai l'ultimo. Dovresti solo essere grato per il tempo, per il momento durante il quale ti trovi su questo palco e durante il quale ti è concesso dire le tue parole, esprimere i tuoi sentimenti, i tuoi pensieri. Comprendendo ciò, aumenta il senso di rispetto sia nei confronti degli attori che del regista».

Giobbe è un uomo paziente, la sua relazione con Dio non viene messa in discussione, ma ciò che chiede è il senso di tanto dolore. Quale è la sua relazione con Dio, e la dimensione divina in generale?
«C'è ragione di maledire Dio? Questo non cambierà nulla. Se tu dovessi maledire te stesso, c'è la speranza che qualcosa possa cambiare in te o nelle circostanze attorno a te. Mi piace il comandamento 'Non nominare il nome di Dio invano'. Per quanto poco tu possa chiedere l'aiuto di Dio, forse chiedi troppo la sua attenzione su di te. Forse uno che non chiede assistenza sarà rispettato nel Paradiso e anche da Dio».

Nella scena finale del Libro di Giobbe nello spezzare la mela e nel ridistribuire i talenti e i beni donati da Dio al vecchio Giobbe si avverte un senso di profonda e condivisa speranza. E' una speranza laica o religiosa?
«Direi che sono entrambe una speranza vitale e umana. Avidità di mangiare, inghiottendo la vita, forse afferma che nessuno da nessuna parte sparisce all'improvviso senza una ragione, niente passa senza un significato. Ogni cosa in questa vita ha un significato».

Ultima modifica il Martedì, 31 Dicembre 2013 12:29

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