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Georges FEYDEAU - L'Albergo del libero scambio, regia Pier Antonio Barbieri

La Notte, 24 gennaio 1974

Visto e considerato che, sulle scene milanesi, quest'anno la parola d'ordine è "o riprese o morte", pazienza ancora anche stamattina. Ci risiamo. Con Georges Feydeau, stavolta. Tutto considerato, benvenuto. Che scherzi il tempo, però, cristiani! I suoi peccaminosi copioni, aldiquà delle Alpi spregiativamente chiamati pochades; aggrovigliati come un gomitolo di filo, accidentati come un labirinto, puntuali come un cronometro e precisi come un'equazione, rimanevano confinati alle serate cosiddette nere "non adatte per signorine"; ad esclusivo uso e consumo dei libertini patentati, schedati e bollati; ora vengono rappresentati alla Comédie Française alla presenza delle scolaresche distintesi per la buona condotta. La loro comicità a valanga, giudicata meccanica, volgare, disordinata: una plateale derivazione sporcacciona dei cattivi costumi s'è vista promossa a limpida, favolosa, surreale: un puro gioco cerebrale, frutto di raffinato erotismo di testa, dissessualizzato e sterilizzato da un disincantato e spregiudicato moralista suo malgrado, e scusate se è poco. Chi gliel'avesse predetto tre quarti di secolo fa! Nessun recensore d'una certa autorità si sarebbe degradato ad assistere a una sua "prima", ritenendo più che sufficiente comandare di servizio il Vice; vale a dire, in pratica, il sicario. Salta fuori Marcel Achard, con una sacrilega prefazione-bomba, dove ha il topé di asserire che i copioni di Feydeau ci restituiscono, unici, dopo tre secoli, la grande eredità di Molière, ed eccoci qui, per poco a non giurare che si tratta di vere e proprie commedie di costume; come, a dire il vero, e nonostante le contrarie apparenze, sono gli otto decimi della tradizione comica francese, anche quando ostenta un esplicito cinismo. Ma, già, gratta il cinico e scopri il moralista, è una vecchia storia.

Paradosso? Fino a un certo punto. Ragione e torto non sono, al solito, uno di qua e uno di là, inseparabili. Talché, con una certa dose di buona volontà e altrettanta di sfacciataggine, senza troppo offendere la verità, uno potrebbe azzardarsi ad asserire che, garantite, naturalmente, le debite distanze, Feydeau non mancherebbe, poi, dei titoli per venir considerato la faccia opposta, ilare e parodistica, di Marcel Proust, si fa per dire. Specchio di un mondo, anche lui, a suo modo. Vero è comunque, che, al limite dell'iperbole, in fatto di testimonianza dei costumi di una certa società, l'ingiustamente oltraggiata Belle époque, i sottovalutati copioni di Feydeau ce la contano più lunga assai dei sofisticati e pretenziosi romanzi di Paul Bourget, nonché di tanto repertorio serioso e falsoproblematico congegnato da Bataille e da Bernstein per limitarci a due soli nomi dei grandi dinosauri della ribalta di ieri, quest'è poco ma sicuro.

Prima che commedia, sono delle rigorose strutture chiuse, governate da leggi inflessibili. Si arricci il naso fin che si vuole, esse obbediscono, senza sgarrare mai, a una poetica specifica propria, inequivocabile e ferrea. Quando se ne è conosciuta una, si può dire di conoscerle tutte. Sono, senza eccezione, un delirante esercizio virtuosistico – coerente e ossessivo come la paranoia, che travolse la mente del commediografo – di variazioni concatenate, sempre diverse, su due o tre situazioni di base, sempre uguali: il massimo dell'imprevisto ricavato dal massimo del previsto. E, crepi l'avarizia fino in fondo, è in tal caso che, volendolo, si può chiamar in causa il teatro classico.

Ma basta, là, altrimenti, di questo passo, tra il serio e il faceto, arriviamo a mandare Feydeau a braccetto di Plauto e Machiavelli, il che, per tornare ad informare del venerando Albergo del libero scambio (1894), comunque la si pensi, sarebbe un'esagerazione. Anche qui, le puntualizzazioni di costume emergono per assurdo, marginalmente, dalla deformazione parodistica esasperata di un ambiente, dai tipi astratti, mezze maschere; e dai veri e propri lazzi connaturati alla situazione (equivoci, accidenti, incidenti, agnizioni, misconoscimenti, incontri e scontri avvenuti o evitati per un pelo) proliferanti dalla vicenda incrociata di due coppie coniugali malcombinate in folle compagnia di tipi e macchiette paradossali, dal non meno paradossale comportamento apparentemente normalissimo, intenzionate e presunte intenzionate a cornificarsi reciprocamente.

Lo scoglio di codeste riesumazioni di già scandalosi e oggi innocentissimi copioni, consiste nell'essersi interrotta e perduta la tradizione interpretativa, definita dall'aggettivo canonico "spumeggiante", che, da noi, ha circonfuso di leggenda Dina Galli e Antonio Gandusio; quando le attrici serie, la grande e lunatica Irma Gramatica, per nominarne una, minacciavano di rompere la scrittura e toglievano il saluto all'imprudente impresario che ardisse propor loro di disonorarsi recitando una pochade. E non parliamo, poi, della Duse: Sardou fino all'indigestione, la divina; ma Feydeau piuttosto la morte. E, del resto, cinquant'anni prima, la superba Adelaide Ristori, contessa del Grillo, non s'era rifiutata, indignata, di interpretare una donna plebea di malaffare come La signora delle camelie? Le avessero detto che si sarebbe arrivati agli ultimi tanghi!

Asserire che il tempo non abbia lasciato tracce sulla commedia sarebbe una bugia. Lo strano è che, a risentirne maggiormente, sia stato il secondo atto, quello famoso per l'irresistibile comicità. A ciò può aver contribuito, in parte, la pesante accentuazione farsesca conferitagli dal regista Pier Antonio Barbieri, che, più opportunamente, nel primo e nel terzo, s'è attenuto a una lepida naturalezza, in sintonia anche con la sciolta traduzione di Umberto Ciappetti.

Lo spirito, il tempismo, la perentorietà d'un umorismo senza sbavature hanno contraddistinto la recitazione a tutto tondo di Aroldo Tieri e Giuliana Lojodice, affiancati dalla bravura caricaturale di Gianni Musy e Marina Bonfigli. All'insieme, affiatato e precipitoso, con diverse, colorite caratterizzazioni, hanno provveduto la De Simone, il Bisazza, il Carrara, il Gori, il Belletti, il Pescara, il De Valle, la Brengola e altrettanti altri.

Il teatro Nuovo era zeppo, risate e applausi non si son contati. Giustizia vuole che si ricordi anche colui che fu collaboratore di Feydeau nella stesura della commedia: Maurice Desvallières, nome totalmente travolto dall'oblio.

Carlo Terron

 

Ultima modifica il Lunedì, 08 Dicembre 2014 15:13
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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