mercoledì, 19 marzo, 2025
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INTERVISTA A FEDERICA DI MARTINO - di Francesco Bettin

Federica Di Martino. Foto Fabio Lovino Federica Di Martino. Foto Fabio Lovino

Attrice dalla professionalità energica, proteiforme, Federica Di Martino si diploma all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma e inizia presto a recitare diretta da registi di considerevole caratura come Giuseppe Patroni Griffi, Luca Ronconi, Pierpaolo Sepe, Piero Maccarinelli, Luca Barbareschi. Interprete scrupolosa, vince diversi premi (Flaiano, Mariangela Melato e altri) che di fatto la consolidano come un’attrice rispettosa del teatro, dalla sicura personalità. Il suo sodalizio, professionale e personale, con Gabriele Lavia, la porta a compiere un percorso parallelo al proprio, interpretando personaggi classici e contemporanei sempre con dedizione e accortezza. Dopo gli ultimi spettacoli Un curioso accidente di Goldoni e Re Lear di Shakespeare, entrambi con la regia di Lavia, sta provando in questo periodo Lungo viaggio verso la notte di Eugene O’Neill, con debutto a Spoleto il 18 febbraio, sempre diretta da Gabriele Lavia.

Iniziamo con una tua definizione della parola teatro…
Il teatro per me è lo specchio della vita, il luogo dove ogni uomo va per ritrovare parte di sé, per confrontarsi con delle storie che lo riguardano, che lo fanno riflettere sulla sua vita. 

Un percorso determinante per una formazione giovanile, dell’individuo?
Per i ragazzi il teatro comunque potrebbe essere una scoperta, soprattutto in un mondo come questo dove tutto è tecnologia e dove si passa tantissimo tempo davanti a uno schermo illuminato di un cellulare. Quindi confrontarsi con delle persone in carne e ossa, vere, che in qualche modo ti rappresentano, e ti raccontano una storia, sarà una cosa anche antichissima ma che in questa nostra epoca diventa, ed è, innovativa.

SI parla tanto di teatro in crisi, da anni ormai, di alti e bassi, marette varie, periodo più o meno favorevoli. Il tuo pensiero su questo, da donna di teatro, da attrice?
Secondo me non è vero che è in crisi, se guardo bene è da quando ho cominciato a fare questo mestiere che lo sento dire. Piuttosto diciamo che è sempre in crisi, dopo l’antica Grecia (ride). Riguardo a tutto ciò penso che il Covid, e quel periodo lì, ci hanno dato una grande lezione in merito, nel senso che anche quando c’era il contingentamento e le massime capienze, di mille persone nei teatri all’aperto e di un terzo di capienza per quanto riguarda i teatri al chiuso, le sale sono comunque sempre state piene, malgrado le varie paure, soprattutto quella del contagio. Questo ci conferma che il teatro era e rimane una necessità del nostro tempo. 

Un periodo, quello, che ha segnato, sicuramente. E poi la ripresa, infatti, che tutti ricordiamo bene, è stata salutata con molto piacere, anche perché c’erano dei dubbi su come e in che modo si sarebbe potuto riprendere, con quali risultati. Il teatro è oggi comunque rimasto vivo nei cuori di chi lo frequentava prima?
Sicuramente, se pensi che gli spettatori hanno risposto bene proprio quando il contatto umano era la cosa più pericolosa. E malgrado questo, nei teatri, dove c’era l’umanità che rappresentava e quella che guardava, cioè gli spettatori, la risposta è stata molto positiva, e questo appunto, come detto, ci conferma anche oggi una cosa, molto chiara: che c’era, e c’è, ancora una volta una necessità d’incontro nonostante tutto.

Nel frattempo, visto che questo tempo corre velocissimo, sono avanzate nuove tecnologie, che talvolta si vedono anche nelle messe in scena. Ma queste innovazioni stanno cominciando a condizionare, a minare lo svolgimento più o meno naturale del fare teatro, del rappresentare su di un palco, con un pubblico davanti? O sono dei valori aggiunti queste multimedialità degli anni Duemila?
Penso che da questo punto di vista non siano valori aggiunti, no, piuttosto che lo siano invece nella misura in cui ci fanno comprendere il valore dei corpi vivi, per cui credo che tutto ciò che è tecnologia pura quando è applicata al teatro in qualche maniera sia un impoverimento. Ma questo è naturalmente il mio punto di vista. Ad esempio, se vogliamo parlare dei microfoni, che tanto vediamo sulle scene e sugli attori stessi, non credo che siano una cosa che fa risparmiare fatica a chi recita, piuttosto ritengo che la grandezza dell’arte, del saper fare teatro risieda anche nella capacità di farsi sentire fino all’ultima fila.

Anche quello dei microfoni infatti è un segnale dei nostri giorni tecnologici…
Quelli della mia generazione certamente si sono trovati a cavallo di questa invenzione, se vogliamo chiamarla così, mentre quelli della generazione successiva sono nati già facendo un ampio utilizzo del microfono, tanto per rimanere su questo esempio. C’è chi pensa che se non si hanno i microfoni non c’è il moderno, ma secondo me la modernità consiste invece nel tornare all’attore, l’attore puro. Ma pure questo è sempre il mio punto di vista, eh.

Veniamo un po’ al discorso precariato, nel caso di chi fa teatro o cinema. Leggendo qui e là si trova la notizia che sono state ridotte le giornate lavorative, che la media si sia abbassata e quindi si lavori meno, attori, tecnici, maestranze varie. Che le tournée si sono accorciate per quanto riguarda il teatro e questa cosa ovviamente non è ben accettata. Del resto vediamo tanti spettacoli che rimangono in scena solo per pochi giorni, certe volte. Come vedi la situazione tu?
Eh si’, è vero, e questo è dovuto a un cambio di rotta che a un certo punto si è voluto dare cercando di europeizzare anche il teatro italiano, facendo produzioni che magari stanno soltanto in una città. Questo però non si è realizzato perché, secondo me, l’Italia, per tradizione, struttura, essendo un Paese pieno di magnifici teatri, rimane comunque un teatro di giro, e non ha dunque funzionato l’idea di attuare una riforma in questo senso. Se non nella misura in cui le tournèe si sono in qualche modo accorciate, questo sì. 

Alcune compagnie, alcuni spettacoli poi non arrivano ovunque, e certi luoghi trovo che ne soffrano, di questa cosa. Che ne pensi?
Che è un discorso molto articolato, diviso almeno in due. In un certo senso però questa cosa c’è sempre stata. Ci sono delle cittadine che a causa delle dimensioni ridotte di palcoscenici non riescono a ospitare certi spettacoli. Faccio un esempio: Io sono di Ortona, è lì c’è un teatro molto bello ma piuttosto piccolino, come dimensioni di palcoscenico, di profondità, e uno spettacolo di Luca Ronconi non sarebbe mai potuto andare in quello spazio perché proprio non ci sarebbe entrato. E questo è un tipo di discorso. Un altro discorso è quello della circuitazione che è legato un po’ a quello che accennavo prima, che si è puntato ultimamente sulle teniture nelle grandi città, per certi spettacoli, differenziando un pochino proprio le circuitazioni. Dunque un certo tipo di spettacolo fa un certo tipo di circuito e invece altre proposte restano soltanto in una città e muoiono lì. Ma secondo me il teatro in Italia funziona sicuramente di più come teatro di giro, come ho detto. Noi stessi, come compagnia, proviamo ad andare un po’ ovunque con i nostri spettacoli ma certe volte non è proprio possibile per questione di spazi.

Le istituzioni aiutano il teatro, la cultura? Questa cosa si percepisce, si vive dal di dentro? In sintesi, la politica soprattutto quella specifica sulla cultura, sa comprendere l’arte?
Credo che la politica fa quel che può, alcune cose bene, altre meno bene. Diciamo che il nostro Paese potrebbe, da parte istituzionale, in qualche modo, puntare di più sul teatro anche perché abbiamo una fortissima tradizione radicata, storica. Ma il teatro non è, in fondo, molto frequentato dalla politica, e questo forse è un peccato.

I giovanissimi hanno cominciato a frequentare i teatri? Tu li vedi nelle sale, appassionarsi, seguire gli spettacoli, le stagioni?
Ti dico la verità: questo aspetto dal punto di vista della frequentazione, della passione mancante da parte giovanile non l’ho mai sentito. Faccio degli esempi: a Siracusa, in estate, ma anche adesso al teatro Argentina, col Re Lear, abbiamo avuto tantissime scuole che son venute, e questi giovani sono comunque educati, attenti, sono molto più presenti di quanto si creda. Ne vedo tanti. Sì, ci sono insomma.

La pandemia da qualche parte poteva suggerire un nuovo modo di ripensare il teatro, la messa in scena, i testi, non sapendo cosa sarebbe successo davvero. Questo almeno era il credo di alcuni teatranti. E’ successa questa cosa secondo te? Il teatro ha una nuova veste, magari anche minima, ma nuova?
Non te lo so dire, esattamente. Però, e di questo sono sicura, credo che quella situazione ci abbia dato sicuramente una conferma del fatto che il teatro non è morto, ed è sempre lì, presente. C’è stata comunque una risposta, sempre positiva a riguardo, e dunque in qualche modo il teatro si è rafforzato.

Volendo dare qualche consiglio a chi volesse cominciare a fare l’attrice cosa diresti? 
Ognuno deve cercarsi un suo percorso, però per fare teatro direi che lo studio è proprio necessario, in questo senso dunque una scuola teatrale è molto utile perché innanzitutto insegna la disciplina e tutti i comportamenti base da tenere sul palcoscenico, e molto altro. Direi che lo studio è fondamentale, sì.

Sacrifici e rinunce di vita personali, ma è sempre una vita così quella di chi vuol fare questo mestiere?
Si’, ci sono entrambi, ma non solo, ad esempio c’è la grande fortuna di riuscire a fare della propria grande passione la propria fatica, e questo è decisamente impagabile.

Dal 18 febbraio sarete in scena a Spoleto con Lungo viaggio verso la notte, di Eugene O’ Neill, vuoi parlarci un po’ di questo spettacolo?
E’ un testo molto bello sulla disgregazione della famiglia, autobiografico, che O’Neill scrisse negli anni Quaranta e che non volle fosse pubblicato finchè non fosse avvenuta la sua morte. Questo proprio perché era molto intimo, appunto, un’autobiografia. Un testo che parla anche del nostro presente e di certe dinamiche familiari, che qui sono esasperate ma che in qualche modo ci riguardano. Dopo il debutto di Spoleto andremo a Pesaro, Milano, Torino, Firenze Imola, Udine e Pavia, e lo riprenderemo l’anno prossimo, andando anche a Roma e in altre città. 

Un’ultima domanda, Federica: hai un testo o un personaggio che non hai mai affrontato, e che ami molto quindi che potrebbe rientrare nei tuoi progetti futuri?
Io amo molto Ibsen, mi sarebbe molto piaciuto portare in scena Hedda Gabler ma purtroppo credo di essere fuori dall’ età della protagonista. La vita dell’attore, e dell’attrice in fondo però è questa, a un certo momento certi ruoli se non li hai già fatti, non li puoi più interpretare. Ma puoi farne tanti altri, però! Siamo sempre pronti per nuove sfide.

Francesco Bettin

Ultima modifica il Domenica, 09 Febbraio 2025 16:17

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