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INTERVISTA A DIMITRIS PAPAIOANNOU - di Lula Abicca

Dimitris Papaioannou. Foto Julian Mommert Dimitris Papaioannou. Foto Julian Mommert

Creatore di un teatro potente che si nutre di corpo e pensiero, Dimitris Papaioannou, classe 1964, è tra i grandi protagonisti della scena contemporanea internazionale, richiesto da festival e teatri prestigiosi, sempre gremiti ad ogni suo spettacolo o apparizione. Ateniese, Papaioannou ha un intenso passato di studi e successi: allievo di Yannis Tsarouchis e studente all’Accademia delle Belle Arti, ha raggiunto presto la notorietà come pittore e fumettista prima di dedicarsi alle arti performative, emergendo per il suo eclettico genio di regista, coreografo e interprete, oltre che autore di set, costumi e luci. Risale al 1986 la fondazione del suo Edafos Dance Theater, primo veicolo per produzioni originali, che già mescolavano teatro fisico, danza sperimentale e performing art. Ma è nel 2004 che il suo nome esplode a livello internazionale, in seguito al trionfo delle sue creazioni per le cerimonie d’apertura e chiusura delle Olimpiadi di Atene. Seguono numerosi successi, in Grecia e nel mondo, tra i quali Primal Matter (2012), che lo vede di nuovo in scena anche come interprete, Still Life (2014) che viaggia in Europa, Sud America, Asia e Australia, The Great Tamer (2017), coproduzione internazionale, Since She (2018) per il Tanztheater Wuppertal Pina Bausch, Transverse Orientation (2021) presentato alla Biennale de la Danse de Lyon. 
Recentemente, in questo inizio 2023, Dimitris Papaioannou è tornato in scena in Italia con il lavoro dal titolo Ink, nato nel 2020, in piena pandemia, su commissione e in coproduzione con Torinodanza e Festival Aperto di Reggio Emilia, oggi ripreso in una nuova versione con la coproduzione di Biennale de la Danse de Lyon, Sadler’s Wells London e Megaron - The Athens Concert Hall. Proprio in occasione del debutto al Teatro Argentina di Roma, alla vigilia di quattro serate sold out, Dimitris Papaioannou ha condiviso alcune riflessioni sul nuovo lavoro che lo vede tornare in scena, anche come interprete, accanto al performer Šuka Horn. Creazione immersa in un palcoscenico d’acqua, Ink è un universo di immagini e corpi, in cui l’artista greco finisce per confrontarsi con i temi del tempo e della paternità, del futuro e del divenire, tra archetipi e nuove visioni. Ecco cosa ha raccontato durante l’incontro in Sala Squarzina, al Teatro Argentina di Roma.  

I protagonisti di Ink hanno età differenti: c’è un giovane che si confronta con un uomo più adulto. Come si traduce in scena questa distanza?
La differenza di età tra i due protagonisti è esattamente ciò che determina la tensione di questo rapporto. Uno dei due, il meno giovane, sta finendo il suo percorso, sta uscendo dal mondo e dalla vita, l’altro, il giovane, vi sta entrando ed è pronto a conquistarla. C’è una tensione tra il nuovo che impara e tenta di “uccidere” il vecchio, e quest’ultimo che allena, forma e ispira il nuovo, sebbene stia cercando nello stesso tempo di “divorarlo”.

Qual è il significato dell’acqua che inonda il palcoscenico per tutta la durata dello spettacolo?
La presenza dell’acqua è in questo caso più reale che simbolica. Per quanto si tratti di un archetipo filosofico che ci ricollega all’origine dell’esistenza non è a questo che pensavo quando ho immaginato e realizzato Ink. Quello che ho potuto capire in seguito, a proposito del mio ampio utilizzo dell’acqua, è che essa si presenta qui come una forza vitale, in termini freudiani diremmo “libido”, che scorre come un fiume e che invano tentiamo di controllare e domare, guardandola poi straripare e mutare. In scena vediamo l’acqua in questa sua natura impetuosa, come visualizzazione della forza vitale e della sessualità.

Cosa cambia in questa nuova versione di Ink rispetto al debutto del 2020?
Questa nuova versione, che immagino sarà l’ultima (ma questa è una cosa che riesco a comprendere solo dopo aver rappresentato un lavoro tante volte e in diverse città), differisce dalla precedente principalmente in tre aspetti. Innanzitutto, è stata creata non per “cambiare” il lavoro, ma per completarlo, per definirlo. Certamente la novità più importante è la musica originale, che non era presente nella precedente versione: una musica creata in collaborazione col compositore Kornilios Selamsis, “plasmata” sullo spettacolo. Alla gioia di aver lavorato con Selamsis si è aggiunto poi l’onore d’aver ricevuto in dono dal direttore d’orchestra Teodor Currentzis la registrazione della colonna sonora. In questa nuova versione ho aggiunto una scena, già presente nella rappresentazione in Serbia, ma ancora inedita in Italia. E c’è infine un’ulteriore modifica che riguarda il finale: la scena, così com’era in origine, non mi aveva mai convinto del tutto e abbiamo dunque deciso di ricrearla.

Qual è il valore “contemporaneo” degli archetipi con cui si confronta nei suoi lavori?
Penso che gli archetipi non possano mai definirsi “antichi”: quando diciamo “archetipo” intendiamo dire “per sempre” perché è come se rappresentassero l’inizio della cristallizzazione di un’idea rilevante per l’esistenza umana. Quando creiamo uno spettacolo senza parole, costruiamo strumenti di contatto per comunicare quello che abbiamo in comune come esseri umani. Gli archetipi sono per l’appunto punti di comunicazione: quando si tenta di creare senza l’uso del linguaggio è come tornare indietro all’antichità, al tempo in cui furono inizialmente visualizzati per poi essere rivisualizzati tante volte. Capita che io stesso utilizzi questo strumento di comunicazione, anche per trovare un nuovo “accordo” con il pubblico. Ma non sono io a cercarli: quando lavoro, istintivamente, li scopro lungo il percorso e nel momento in cui trovo immagini per me utili, funzionali - che rimandano ad archetipi - decido se mantenerle. È come se me li trovassi di fronte.

Qual è il significato del titolo?
Ink non è in realtà un “mio” titolo: un mio amico geniale, Aggelos Mendis, viene di solito a vedere i miei lavori durante il processo di creazione e sono io stesso a chiedergli delle idee a proposito di quello che vede e che sto facendo. In questo caso ha tirato fuori questo meraviglioso titolo di tre lettere, Ink, un termine che rimanda al liquido nero che il polpo utilizza come arma di difesa, ma che qui si presta come interessante metafora, come una sorta di “sperma nero”, qualcosa che viene dal corpo ma che può diventare materia per dipingere o scrivere, legando carnale e spirituale. Quando poi adotto un titolo, accade che quest’ultimo finisca per controllare o “informare” il pezzo, guidando in un certo senso anche lo spettatore.

Che legame c’è tra quello che vediamo in scena e il suo amore per il cinema?
Emerge qui probabilmente il mio amore per il cinema horror fantascientifico, in particolare c’è qualche riferimento al primo Alien di Ridley Scott, che parla sostanzialmente di “nascita”. Accade come con gli archetipi: sono immagini che incontro durante il mio lavoro, come ad esempio il “fluire dell’acqua”, che si lega alla mia ossessione di ricreare immagini in bianco e nero. In questo caso c’è un rimando all’estetica di Scott e del primo Alien anche nella presenza del polpo, che io stesso sbatto sulla scena e che viene posato sul corpo del giovane: in qualche modo può ricordare la massa gelatinosa del film che tentava di “impiantarsi” nell’essere umano. Non sono però dettagli che tendo ad “intellettualizzare”, mi guida più un senso d’attrazione verso un’estetica. Quando qualcosa mi piace, cerco di mantenerla e osservo quel che accade. 

E con l’universo del regista Andrej Tarkovskij?
Avevo 19 anni quando vidi Andrej Rublëv, film del 1966 di Andrej Tarkovskij: non ne compresi quasi nulla, ma ebbi la certezza di trovarmi di fronte a qualcosa di molto importante. Ne sono stato ossessionato per anni. Ci sono forse atmosfere, nel mio lavoro, che possono ricordare quelle di Tarkovskij, ma non credo che l’ossessione per l’acqua venga da lì, in quanto abbiamo approcci differenti: la mia è più legata al piacere. 

Non nasconde la sua passione per il cinema italiano e per Federico Fellini.
Crescendo, nel mio personale pantheon, Fellini ha conquistato sempre più spazio. Sono cresciuto guardando il cinema italiano, da Michelangelo Antonioni a Pier Paolo Pasolini. Più divento maturo, più ammiro il lavoro di Fellini e riesco ad apprezzarne la profondità, i livelli di lettura, accanto al senso dell’umorismo e del ridicolo. Io stesso, crescendo, apprezzo sempre di più la leggerezza e l’opera di Fellini, in qualche modo, sfida la mente e attiva l’anima. Il cuore si apre e mi pone in uno stato di contentezza. E oltre a questo, trovo straordinaria la sua insistenza a guardare il mondo come un bambino, con quello stupore che è così difficile da mantenere in età adulta di fronte al mondo. 

Cosa ci racconta attraverso Ink?
Quello che cerco di “toccare” sono questioni legate alla paternità, alla successione, a quello che lasciamo, al rapporto tra un allievo e un maestro o tra due amanti. Mi muovo all’interno di questi universi: questo è il territorio che mi interessa e riguarda il mondo interiore e le sue lotte. Ma il conflitto e la distruzione mirano ad un sogno di unità. Il “campo di battaglia” che vediamo in Ink è quello dell’amore e del desiderio, mentre l’azione del conflitto è nell’inevitabilità della condizione umana. Forse anche per questo mi succede di comprendere quello che ho creato solo “dopo” averlo creato. 

Recensione di Ink a questo link -->

Lula Abicca

Ultima modifica il Domenica, 26 Febbraio 2023 23:52

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