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«A Santarcangelo ha vinto la curiosità di artisti e spettatori» Intervista al direttore Tomasz Kirenczuk. -di Nicola Arrigoni

Tomasz Kirenczuk Tomasz Kirenczuk

«Can you feel you own voice» ovvero «Puoi sentire la tua stessa voce» è stato lo slogan della 52esima edizione di Santarcangelo festival, la prima del neodirettore polacco Tomasz Kirenczuk, la prima senza restrizioni, dopo lo stop pandemico. A distanza di qualche mese si è voluto raccogliere il punto di vista della direzione artistica, in una sorta di bilancio a bocce ferme, una conversazione a cuore aperto che ci immette nel laboratorio del festival teatrale di ricerca e innovazione per eccellenza.

Tomasz Kirenczuk, che bilancio fa del suo primo Santarcangelo?
«Credo sia andata bene e non mi riferisco solo ai numeri: 22.000 le presenze agli spettacoli di cui 11.750 biglietti venduti in nove giornate per un totale di 180 appuntamenti di cui 52 gratuiti. Queste sono le cifre, rese note dallo staff della comunicazione del festival all’indomani della chiusura. Sono cifre più che positive, ma tutto non si può limitare a un mero calcolo numerico».

Che cosa, dal suo punto di vista, ha reso vincente la prima edizione del suo Santarcangelo festival?
«Il mio punto di vista è quello dell’esito del racconto, della narrazione. La programmazione di un festival è inizialmente un lavoro intimo, che cresce nella tua testa, pensando agli artisti che ami e hai seguito e che vorresti che anche altri vedessero, ma anche pensando a quello che vorresti dire con la scansione degli appuntamenti del festival. Tutto ciò si intreccia con il lavoro di team, con il confronto con gli artisti con cui io e i miei collaboratori abbiamo condiviso le prime intuizioni e i dubbi. Fatto tutto questo c’è poi il momento più emozionate per me».

E quale è?
«Ovviamente la messa in atto, il confronto col pubblico, come viene recepito ciò che hai deciso di programmare, se tutto funziona, se veramente sei riuscito a mettere in atto quello che avevi nella tua testa».

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Gabriela Carneiro da Cunha Altamira 2042. Foto pietrobertora Santarcangelo Festival

E lei ci è riuscito?
«Un festival è fatto di relazioni con gli artisti, ma anche con chi prepara i luoghi, con la scelta degli spazi che nella mia mente dovevano aiutare, supportare lo spettacolo. Il fatto di aver messo un artista come Gabriela Carnero da Cunha nello stesso giorno di Igor Shugaleev per me aveva un senso, i due artisti dialogavano alla distanza. Le persone che hanno avuto la bontà e la voglia di farmi avere i loro pareri – spettatori come organizzatori e professionisti dello spettacolo – mi hanno detto che hanno colto in questo festival un racconto politico preciso, una volontà di dire e affrontare tematiche della nostra quotidianità. È piaciuta l’attenzione alla vulnerabilità nei suoi diversi aspetti: dalla questione di genere a quelle dei diritti civili, alla tutela dell’ecosistema. Sono riuscito a portare artisti sconosciuti in Italia e il pubblico ha raccolto la sfida, si è fatto guidare dalla curiosità. Anche laddove le performance non sono piaciute in molti hanno messo in evidenza la coerenza della scelta. Questo è un aspetto che mi fa, ovviamente, molto piacere».

Ed è proprio l’aspetto dell’internazionalità delle proposte che è balzato all’occhio in questa edizione. Una scelta voluta?
«La risposta può essere duplice. Credo che un festival e una manifestazione come Santarcangelo in maniera particolare, abbia il compito di aprire finestre sul mondo delle arti e guardare a mondi diversi. Questo per via di principio. Poi, concretamente, devo dire che per me è stato giocoforza affidarmi alla mia esperienza, cercare artisti e realtà estetiche che frequento e ho frequentato nei miei ruoli curatoriali in Polonia. Io mi sono stabilito in Italia e a Santarcangelo nell’agosto 2021, ho dovuto consegnare il programma nel febbraio di quest’anno, mi era impossibile conoscere a fondo la realtà italiana e operare scelte oculate e convinte, come invece ho cercato di fare con i gruppi e gli artisti non italiani, programmati al festival. E tornando al pubblico mi era anche difficile immaginare la reazione del pubblico italiano. Mi sono fidato del mio intuito e del confronto messo in atto con lo staff di direzione del festival».

Ma allora che cosa vuol dire costruire un festival?
«Fare un festival non vuol dire solo e necessariamente portare gli spettacoli migliori del mondo, se ci si riesce tanto meglio, ma programmare lavori che costruiscano un discorso. Credo che in Santarcangelo 2022 ci sia stata una bella coerenza tematica e di messaggio, declinata con esperienze e linguaggi diversi e da artisti provenienti da ogni parte del mondo. Fare un festival per me vuol dire trovare anche gli spazi giusti per creare un confronto, per fare incontrare gli artisti e dialogare col pubblico. Dopo due anni di pandemia, fare una manifestazione senza restrizioni ha voluto dire anche questo: individuare i luoghi giusti dove poter permettere questo incontro. Le persone hanno risposto, l’atmosfera che si respirava era quella di grande armonia, le persone erano a loro agio. È questo un aspetto che non sottovaluterei, dopo quello che l’intero mondo ha passato col Covid. Tutto questo è stato rilevato anche dagli artisti che, magari venendo per la prima volta in Italia, si sono sentiti accolti, curati, hanno percepito che il festival si occupava di loro, ben oltre i tempi della messinscena della loro performance».

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Igor Shugaleev The body you are calling is currently not available. Foto pietrobertora Santarcangelo Festival

L’aspetto tematico legato a vulnerabilità e problematiche di genere non ha rischiato di rendere monotematico il festival?
«Non credo, anzi sono convinto dell’esatto contrario. Io non ho selezionato o chiesto agli artisti di trattare alcuni temi. Come dicevo prima, ho scelto spettacoli e performer con cui mi sento in sintonia, che piaceva far conoscere al pubblico di Santarcangelo. La narrazione del festival è emersa nella costruzione del programma, facendo dialogare gli spettacoli e gli artisti, cercando di capire in che sequenza e con che ordine proporli al pubblico. È stato anche bello vedere il modo con cui gli artisti si sono confrontati su tematiche simili. Immaginandomi Santarcangelo ‘22 non mi sono detto: voglio fare un festival su tematiche di genere o green, la narrazione è venuta da sé. Prima ho deciso gli artisti poi i lavori e solo successivamente ho cominciato individuare i filoni tematici. Non incastro artisti nelle tematiche, credo che la narrazione green e legata ai temi dell’identità sia emersa nel corso del festival, perché gli artisti che ho chiamato hanno affrontato, indipendentemente l’uno dall’altro, questa tipologia di tematica».

Un esempio concreto quale può essere di questa comune tematica declinata con linguaggi differenti?
«L’utilizzo del corpo come mezzo nelle battaglie politiche. Mi riferisco ad esempio a due performer distanti geograficamente e per contesti sociopolitici in cui operano: Igor Shugaleev, bielorusso e Gabriela Carnero de Cunha, brasiliana. Per entrambi il corpo, il proprio corpo è stato veicolo di testimonianza politica e di condivisione di una battaglia civile a favore dei diritti umani negati dal regime bielorusso in un caso e nell’altro a sostegno della battaglia degli indigeni contro la costruzione della diga a Belo Monte a tutela della foresta amazzonica. Per entrambi i performer il loro corpo diventava il medium per far entrare in contatto il pubblico con la loro battaglia politica, per testimoniare le violenze perpetrate dalla polizia bielorussa sui dissidenti, per raccontare la battaglia degli indigeni a tutela dei loro villaggi e del loro territorio. La realtà viene mediata dal corpo dell’artista, offerto al pubblico come testimonianza di violazione di diritti, di violenza perpetrata contro l’ecosistema. Carnero de Cunha nel raccogliere le testimonianze degli indigeni e nell’offrirle al pubblico ha messo di mezzo il suo corpo per instaurare un contatto fisico».

L’internazionalità del suo festival ha guardato con determinazione oltre oceano. Perché?
«Perché il teatro non è solo una questione europea, per spostare il baricentro della nostra attenzione. Sono contento di aver portato artisti dal Sudamerica, ma anche di aver dato la possibilità a performer di farsi conoscere al di fuori del loro paese e poi ottenere visibilità in patria. Ad esempio è stato questo il caso di Maria Madgalena Kozlowska di cui abbiamo presentato Commune, si tratta di un artista non molto programmata in Polonia e che dopo Santarcangelo è stata chiamata per partecipare a uno dei festival più prestigiosi del mio Paese. Tutto ciò mi fa un grande piacere».

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Anna Karasinska New Creation. Foto pietrobertora Santarcangelo Festival

Che pubblico crede abbia intercettato il suo festival?
«Il pubblico si è preso il rischio della curiosità, è stato al gioco ed è venuto a vedere artisti di cui non conosceva nulla. Questa cosa può accadere solo a Santarcangelo, credo. Poi c’è stato l’aspetto legato ai laboratori sul territorio e all’enorme consenso raccolto dal lavoro di Anna Karasniska, New creation, nato da un laboratorio che ha coinvolto il quartiere San Michele con testimonianze di chi lavorò nel cementificio Unicipem, e alcune comunità e associazioni di immigrati sul comune tema dell’appartenenza a un territorio. Ma i santarcangiolesi in generale hanno risposto con interesse a molte delle proposte messe in campo. C’è poi tutta la parte dedicata alla musica e ai deejay set che ha richiamato all’Imbosco ragazzi un po’ da ogni dove. Anche questo è festiva che mixa i linguaggi e le occasioni di incontro».

Molti dei lavori visti erano lavori solipsistici, solitari con il performer come unico attore in scena. Non c’è via di scampo al solipsismo della performance?
«Sono tante le vie d’uscita e l’una non esclude l’altra. Nei lavori che ho portato a Santarcangelo la presenza solitaria del performer per me aveva una forza incredibile, forza espressiva che non riesco a trovare in spettacoli più strutturati con scene, personaggi che dialogano. La messinscena non la trovo interessante. Credo che la strada performativa sia una strada bella da percorrere, non facile, ma interessante e capace di dire del nostro tempo con incredibile incisività, di coniugare ricerca estetica e attivismo politico. È questo che mi interessa».

E il prossimo anno cosa ci attende?
«Si riparte da zero. Non è che se quest’anno abbiamo affrontato tematiche legate ai diritti civili e politici l’anno prossimo faremo lo stesso. Gli artisti che sono piaciuti quest’anno non è detto ritornino il prossimo. Ogni edizione fa a sé e se possibile parto sempre da zero nelle mie curatele. Sulla parete davanti alla mia scrivania ho post-it con nomi di trenta-quaranta artisti, con titoli di spettacoli da vedere o che ho visto. Si inizia così. Cercherò di selezionare una rosa di lavori e artisti che mi interessano e credo possano fare al caso di Santarcangelo poi vedrò che narrazione ne esce, come legarli e se legarli. Il percorso è ancora lungo».

Ultima modifica il Sabato, 17 Settembre 2022 10:37

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