Fra poco Elena Arvigo sarà al Politeama di Marostica (Vicenza) con uno dei suoi cavalli di battaglia, “I monologhi dell’atomica”, da lei scritto e interpretato e situato all’interno di un proprio percorso di teatro indipendente e intenso che l’attrice percorre ormai da anni, sostenendolo con grande convinzione. Diplomata al Piccolo Teatro di Milano, esperienze all’estero (anche in un film con Julia Roberts) e molto teatro d’autore, a fianco di Albertazzi, Glauco Mauri, Mattia Sbragia, Valerio Binasco, l’attrice genovese è considerata una delle più vigorose interpreti della sua generazione, che dedica grande attenzione ai testi che sceglie. Da poco ha terminato le repliche di “Sogno di una notte di mezza estate” dove ha lavorato al fianco della Compagnia Giovani del Teatro Stabile del Veneto, uno spettacolo di grande successo.
Quando scegli cosa cerchi in un testo?
Non so se sono io che cerco un testo o il testo che trova me. Non cerco mai niente però sono in ascolto. E sicuramente in ogni spettacolo ci sono già un po’ i semi di quello che lo seguirà. Posso dire che spesso nelle scritture femminili mi sono più riconosciuta e ritrovata e che fino ad ora non ho mai scritto nulla e in questo senso mi sento interprete e non autrice. Mi piace innamorarmi delle storie degli altri, non potrei mai mettere in scena la mia storia perché sarebbe benzina e fiammiferi che non riuscirei a gestire. I motivi per cui scelgo quelle storie e non altre apparentemente sono casuali ma forse non lo sono.
Dedichi molta attenzione ai conflitti, all’essere femminile e alla sua condizione…
Sicuramente il discorso sulle donne e la guerra, le parole delle donne sulla guerra è sempre stato un tema molto centrale in molti miei spettacoli. Il progetto testimone scomodo parte con Elena di Sparta, una riflessione sulla guerra di Troia partendo da Elena di Ritsos e Omero e continua poi con altri progetti come quello su Anna Politovskaja da cui poi è partito il progetto dei Monologhi dell’Atomica su “Preghiera per Cernobyl" di Svetlana Aleksievich e "Nagasaki" di Kyoko Hayashi. E’ poi proseguito con lo spettacolo tratto dai Diari della Guerra di Marguerite Duras, che è l'ultimo spettacolo, di questo filone che ho fatto. E poi c'era anche il lavoro su Etty Hillesum -che però non aveva trovato in qualche modo, quantomeno in quel periodo, una sua collocazione. Possiamo dire che più che spettacoli sono dei progetti in cui i vari spettacoli ne sono in qualche modo un’espressione di quell’urgenza. In mezzo c’è anche altro come “Maternity Blues”, il testo di Grazia Verasani, “L’imperatore della sconfitta” di Jan Fabre e “Una ragazza lasciata a meta’” di Eimear McBride.
Cosa hanno in comune?
Sicuramente una riflessione sulla fragilità, sulla sua forza e su come le cose non siano quasi mai come sembrano. In qualche modo sono i testi che mi risuonano, mi piace pensare che facciano parte di un percorso, di un'urgenza e che io ci casco un po’ dentro come Alice nella tana del coniglio. E’ bello cadere nelle tane dei conigli , nella vita e nell'arte, cascare dentro alle cose e vedere l’effetto che fa.
Hai appena lavorato con i giovani attori del Teatro Stabile del Veneto. Capitava di sentirsi maestra o c’era un rapporto di colleghi?
E’ vero che quella compagnia era composta da molti attori giovani ma sinceramente non mi sentivo maestra, non succede mai, né quando lavoro né, ad essere sincera, quando insegno nelle varie Scuole di recitazione e Accademie. Non credo che il Teatro si possa insegnare, ma che si possa stare accanto e trasmettere qualcosa di quel che si e’ appreso e del proprio percorso. È un mestiere molto artigianale e richiede tanta pratica e curiosità infinita, e vari talenti che non saprei definire. Credo e spero che sia stato interessante per gli attori più giovani della compagnia il fatto che quelli più navigati del gruppo, Luciano Roman, Valerio Mazzucato ed io abbiano avuto tre approcci molto differenti alla recitazione. Dunque penso che la cosa preziosa, che spero sia arrivata, è che l'unicità di ognuno debba sempre essere valorizzata e non condannata. Non c’è un modo unico di approcciarsi ai testi e di stare in scena, ognuno deve trovare il suo modo unico e straordinario. Grazie al regista del “Sogno” Giorgio Sangati questo e’ potuto avvenire. E’ stato un bellissimo viaggio perché mentre scoprivamo chi eravamo, in scena scoprivamo anche tante cose di noi, particolarità che senza indulgenza ma con tenerezza andavano accolte e custodite.
Qualche nota sul tuo ruolo di Titania?
Per quanto riguarda il mio ruolo di Titania, che dire ? Già scriverlo mette di buon umore, le parole stesse lo dicono: la Regina delle fate.
La bellezza del tuo lavoro?
Riflette il mondo, la vita. Ad esempio, tutto quello che so oggi lo so grazie al teatro. Siamo in un momento drammatico di grandi conflitti e non si sa dove si va a finire. Dalla notte dei tempi le persone sono state mandate in guerra in maniera ingannevole. Il teatro insegna anche questo. Ed è una pausa da me, mi consente di imparare, di andare oltre la mia quotidianità, e di non occuparmi della mia persona, entrando nei panni di qualcun altro. La bellezza è proprio questa, allontanarsi da sé stessi.
Prerogativa di chi recita?
Tutti lo possono fare, in maniera diversa. Se si riesce a prendere ciò che si fa non solo come diritto al lavoro ma come un’occasione per imparare il mondo, guardarlo con occhi diversi, ci sono della grandi opportunità. Il lavoro non è soltanto una carriera, è anche un percorso, sono viaggi.
Cosa ti lasciano dentro le donne che interpreti, che hai interpretato?
Devo citare Eleonora Duse, che diceva che erano delle amiche, lo diceva anche Marta Abba. Gli archetipi sono importantissimi, ma c’è una differenza coi personaggi reali. Personalmente ho avuto la fortuna di interpretare molte figure importanti, sono molto fortunata artisticamente. Penso che le mie protagoniste sono riflessioni, si parlano, Ofelia con Gertrude, Giocasta, Antigone, Anna Politkovskaja. A me in teatro non piace l’identificazione totale, il suo potere, la differenza col cinema, è l’evocazione. Il teatro è Re Mida. A seconda di come lo tocco, lo guardo, di quello che dico, tu vedi quello che dico io. Il teatro è forte quando è evocativo, poetico, la parola che risuona. Il cinema è diverso, è immagine.
A proposito di cinema, come lo vivi?
Il mio rapporto con il cinema e’ abbastanza bizzarro. Mi sembra di averlo a tratti “visitato “ ma mai davvero abitato.
Se guardo al mio curriculum ne ho fatte tante di esperienze davanti alla macchina da presa -e soprattutto all’inizio della mia carriera sia al cinema che in televisione, quando gli attori di teatro lavoravano meno di ora in audiovisivo e credo ci si aspettasse da me in quegli anni per la mia bellezza e per la mia ingombrante emotività’ una carriera piu’ cinematografica che teatrale. In realtà’ così’ non e’ stato, la vita e’ magnificamente sorprendente e mi sono ritrovata a percorrere soprattutto una strada da teatrante in senso stretto e a sentirmi a tratti esclusa dal "mondo del cinema ". Forse per il mio carattere schivo, forse semplicemente per quella casualità che tante volte cerchiamo di spiegare ripercorrendo e interpretando i vari bivi che abbiamo attraversato. Ho fatto parte di progetti internazionali quando ancora coinvolgevano raramente attori italiani : la serie americana “Mental” e il film “Mangia prega ama”, una serie per la ZDF e vari film stranieri , ma è altrettanto vero che l’incontro vero con il cinema sento non sia ancora avvenuto -o quando e’ avvenuto -non sempre e’ stato piacevole e mi ha allontanato con violenza e ancora di più’ mi sono rituffata nel teatro che invece mi ha sempre accolto. A volte prendo parte a progetti molto belli, come quello di Crialese l’estate scorsa, ma per ruoli che mi concedono di visitare il set per pochi giorni e così il respiro del film e’ diffilcile da sentire e sembra sempre di essere in visita. Penso che al cinema si diverta molto di più’ il regista dell’attore ,al contrario del Teatro dove l’attore e’ in qualche modo indipendente anche quando recita a servizio di grandi registi. Forse dovrò fare un mio film e allora riuscito ad abitare anche questo mondo che mi ha sempre tanto affascinato. O forse ci sara finalmente quell’occasione inaspettata che mi farà divertire e rinnamorare del cinema e sara’ un grande regalo.
Fare teatro ti rende una donna felice?
Mi rende viva, felice è una parola troppo grande. Diceva Totò che “la felicità sono attimi di dimenticanza”, certo quando sono sul palco sto bene. Sto lì anche perché sento che è l’unica cosa che so fare.
Esistono sempre le persone che all’attrice come mestiere non ci credono molto?
La gente vede quello che vuole vedere, e a un certo punto glielo lasci fare. Dopo quello che sta succedendo in questo periodo, che cancellano i corsi di Dostoevskij, cambiano i nomi ai cocktail perché russi… Stiamo assistendo alla demenzialità dell’Occidente, che essendo vicino al declino della propria civiltà, alla morte, è in quella fase come molte persone anziane.
Secondo te una risalita anche culturale ci potrà essere a breve?
Questo momento ci porta da un’altra parte che sarà completamente diverso e secondo me le cose vanno così veloci che è impossibile far delle previsioni. Ho sempre pensato che la pandemia stessa fosse un linguaggio di guerra, di costruzione dell’odio, semplicemente perché grandi pensatori lo dicevano già da molti anni, basta leggere Foucault. Eravamo 700 milioni nel Settecento, ora siamo 7 miliardi, e pensare che questo non abbia delle conseguenze…
Parliamo di Atlantide, un progetto inclusivo che hai creato quando i teatri erano chiusi.
Ci credevo tantissimo, lì ci poteva essere il teatro. Una domanda fatta ad amici e colleghi, per sapere dove stava il teatro in un momento storico complicato, con la pandemia. Sono stati fatti dei progetti poi c’è stata la riapertura delle sale con la corsa a cercare di ripartire, di lavorare. Atlantide in sostanza si è un po’ disgregata, c’era molta unità sul discorso della categoria degli artisti, ma era così difficile avere una posizione a dicembre, gennaio scorso. Diciamo che riprenderà vita quando avrò un po’ più di forze rispetto al progetto che dev’essere appunto inclusivo, di relazione perché il teatro così dev’essere. E’ un momento in cui bisogna stare attenti, anche nelle pieghe del teatro e delle sue iniziative come Atlantide. Rischi di scambiare una battaglia per una questione concreta, per un’unione di ideali.
Il tuo sguardo sul teatro di oggi che ti dice? I fasti di un tempo li rivedremo?
C’ è una bellissima frase di Peter Brook, che mi piace citare che dice: “Il teatro è l’ultima tribuna dove l’idealismo è ancora una questione aperta”. Sinceramente non lo so, non sono ottimista ma ho speranza, che è l‘ultima cosa che esce dal vaso di Pandora. Comunque dovrà passare un bel tempo. Il fatto è che il teatro era già perduto, il problema non è stata la pandemia, ma quello che c’era prima, stiamo soltanto vedendo dei nodi che vengono al pettine. Fare teatro non significa solo fare degli spettacoli. E non è che all’estero sia meglio che in Italia, però il nostro è un paese fatto di relazioni, familiarità, non è mai stato meritocratico in nessun campo.
Quindi dove sta andando il teatro secondo te?
Chissà. Sicuramente, inteso come provocazione, riflessione, pensiero critico, come creatore di contesto culturale, non sarà facile che riesca a salvare le penne. A noi sembrano tutte cose nuove ma anche nel ”Sogno di mezza estate” che interpretavo si trovano alcune tracce. E’ stato scritto durante la peste, il monologo di Titania racconta dell’uomo che sta distruggendo la natura, ed era il 1600. Certo, quello che spaventa oggi è la velocità con cui avvengono le cose. Prima c’era un tempo, adesso non riesci a fare una riflessione che sei già in un’altra dimensione. Dove saremo nei prossimi mesi, cosa sarà successo già? La tecnologia purtroppo ci sta doppiando, l’uomo è già antiquato.
Francesco Bettin