venerdì, 29 marzo, 2024
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INTERVISTA a MARCELLO MAGNI - di Beatrice Tavecchio

Marcello Magni Marcello Magni

Marcello Magni, lei ha iniziato la sua carriera alla Scuola di Lecoq, poi ha interpretato personaggi shakespeariani e ultimamente ha lavorato alle Buffes du Nord con tutt’altra esperienza. Questi gradini della sua carriera in che modo hanno contribuito alla sua personale crescita?
Ho un’immagine di me stesso a 17 anni davanti ad una chiesa di Bergamo che facevo uno spettacolo quasi improvvisato con un amico. Avevamo studiato alla scuola di Bergamo, alle Grazie, e avevo quest’idea che ero un clown. Erano gli anni “70 e c’era un grande movimento di ripristino del clown. Dopo uno stage fatto a Bologna con Pierre Billon, lui mi disse: “ Se vai a Parigi prendi il volo. Cerca la Scuola di Lecoq, ti libererà”. Ricercavo una fisicità come attore perché ero stato rifiutato per due volte al Piccolo nel ’78 e ‘79, e allora avevo chiesto una lettera di raccomandazione ad un attore della Scuola del Piccolo, Renzo Fabbri, che era un grande Arlecchino anche lui, non come Soleri, e mi disse: “No, prova ancora ed il prossimo anno ti prendiamo”. A quel punto mi son detto: “Non mi avete preso per due volte, sto qui a perder tempo”. Vado da Lecoq e l’istinto probabilmente mi ha fatto trovare un compagno, Simon McBurney, col quale abbiamo fondato assieme Complicité. In Complicité, ho trovato degli amici Jos Houbert, Kathryn Hunter, Toby Sedgwick che sono diventati una famiglia per 10 anni. In quel periodo non ho fatto un’audizione, non capivo neanche il sistema per entrare nel teatro inglese. E poi Kathryn mi ha detto ‘vieni, vieni” e mi ha spinto a fare degli altri lavori che erano dei Molière qua e là e siamo arrivati al Globe. Ho provato un piacere immenso in questo teatro. Quest’anno ritorniamo con un Re Lear, che avevamo fatto nel ’97, in cui Kathryn trentasettenne aveva interpretato Lear e io ero il fool (buffone). Ho scoperto il Globe, perché ero stato invitato a fare il Mercante di Venezia dove dovevo creare in tutti gli intervalli degli intrattenimenti comici con delle maschere della Commedia dell’Arte. Ho combinato dei pasticci, ho fatto dei disastri, ma la gente rideva. Ho fatto delle battaglie d’acqua, dei gelati che cadevano, dei pomodori che volavano, non miei, ma del pubblico ed il pubblico era strabiliato da questo gioco della maschera. E poi ho continuato con La Commedia degli errori, con la regia di Kathryn Hunter, e lì, ho sentito di poter fare il testo, che è stato sempre il mio limite, perché l’inglese non è la mia lingua e non mi sento così libero. Per imparare le battute mi ci vogliono degli anni. È come se imparassi uno spartito musicale a memoria. Non ci sono le stesse referenze, per esempio: “Ta-ta, now” è un modo di salutare o “Tit for tat”. Ci sono delle referenze nel linguaggio che non apprezzo subito perché non sono parte della mia crescita, dell’aver ascoltato negli anni in cui apprendi, in cui assorbi gli accenti... tanto che mi sento più sicuro nel fare un accento napoletano ( e lo fa) o toscano, che uno qualsiasi in Inghilterra e son qua dall’ ’83. Dopo questa esperienza c’è stato Peter Brook. Nel 2006 Marie Hélène Estienne e Peter Brook mi hanno chiamato perché Marie Hélène era venuta a vedere uno stage nel 1990 fatto da Monica Pagneux, una fantastica maestra di movimento, e in quel seminario Marie Hélène se n’è uscita dicendo: “Questo ragazzo è incredibile nel movimento. È chiarissimo”. E mi hanno chiesto se volevo fare la coreografia, o aiutare nel movimento. La coreografia con Peter non esiste. C’è un bellissimo passaggio dove dice in uno spettacolo che abbiamo fatto Why? (Buffes du Nord, Parigi, 2019): “Je voudrais fare une mise-en-scene sans mise-en-scene” (Desidero fare una messinscena senza messinscena). Quindi voleva che aiutassi gli attori che erano cantanti a fare il Don Giovanni. Gli ho suggerito di chiedere a Monica Pagneux, e così hanno fatto con Monica che ha accettato. Quindi non ho lavorato con lui in quell’occasione, ma Peter (Brook) è venuto a vedere degli spettacoli: The Visit (La Visita, Complicité,1989) dove c’era Kathryn (Hunter). È rimasto veramente ammirato da Kathryn. Poi è venuto a vedere A Minute Too Late (Un minuto troppo tardi, Complicité, 2005) al National Theatre dove io e Jos (Houbert) avevamo fatto un lavoro di purezza nel nostro sguardo, regard, diretto verso Simon (McBurney), e Peter è rimasto stupito che potessimo essere così semplici in scena, senza recitare, con quella qualità di emptiness (svuotamento). Quindi ci ha portato a fare Fragments (da Beckett, al Bouffes du Nord, Parigi, 2007) in francese, lingua che non sapevo parlare. Avevo fatto la Scuola di Lecoq, ma nessun spettacolo in francese. Mi ha lasciato andare in scena col vestito delle prove e mi son sentito completamente nudo davanti al pubblico. È stata una lezione enorme, perché tutto il suo processo era di semplificare l’attore per poi trovar qualcosa d’altro che è Marcello.
Quindi sono partito dal clown, per poi andare al teatro creativo, fisico, costruttivo, mayerholdiano di Simon McBurney, che è molto ricco, a cui è seguito il periodo del Globe che mi ha spinto a trovare una dimensione più nel testo, nella ricchezza, nella muscolosità del testo, per poi ritrovare una semplicità con Peter e alla fine sono ritornato qui (The Chairs, Almeida Th., London, 2022 ) al clown umano.

Mi è sembrato che nello spettacolo lei avesse raggiunto un’unione di comicità e tragicità. Il passaggio dalla chiave comica a quella tragica è molto difficile, ma mi è sembrato che Marcello Magni fosse diventato un attore tragico. Ha mai interpretato ruoli che avesser questo risvolto?
Una volta sola, Roderigo, nell’Otello, e forse Mangiacavallo nel Rose Tattoo, ma ero giovane. Invece con Peter la doppia dimensione di semplicità e al tempo stesso la naturale tendenza - adoravo Benigni, Buster Keaton, Chaplin, Laurel and Hardy e Tati- alla tristezza che penso sia in me, e con Jos Houbert abbiamo fatto Marcel (Bouffes du Nord, Parigi, 2016) che aveva un pò delle due dimensioni. Era un personaggio che alla fine della sua vita cerca di ottenere un permesso, in un ambiente dove ci vuole un patentino per tutto, e Marcel lo vuole per la comicità perché altrimenti non può più recitare. Come può fare per averlo? Deve fare dei test, degli esami che doveva fare su una passerella a spirale in scena, ascendente e discendente, che simboleggiava uno scalare verso il raggiungimento del successo, ma Marcel continuava a cadere, a tornare giù. Peter è la persona che mi ha fatto crescere perché ha un’enorme intuizione di quello che è rilevante, importante, di cosa tocca, commuove il pubblico. Alla fine, se il pubblico è stato toccato da una cosa anche minima, questo costituisce il nostro successo.

Nel vostro spettacolo The Chairs, si nota il comando che avete sul pubblico, cioè voi date il passo, il ritmo, e il pubblico che ne è inebriato, lo portate con voi. Peter Brook parla di semplificare l’attore. Ma, in questo spettacolo si vedono i lazzi, la `Commedia dell’Arte, il circense che prendono il pubblico per mano. Si parla molto di ricezione del pubblico e di come il pubblico può essere portato ad essere parte del teatro. Nella sua esperienza, che cosa funziona o non funziona; sino a che punto si può portare il pubblico... Ci sono dei pericoli nel portare il pubblico in scena?
Certo, perché può sviare lo spettacolo. Tornando a Ionesco. Siamo stati fortunati io e mia moglie (Kathryn Hunter) a trovare Le sedie a quest’età perché lavoriamo con una gioia immensa ad essere in scena insieme. È letteralmente un regalo, stiamo vivendo delle cose fuori di scena che ci hanno portato a vivere Oh les beaux jours di Beckett a Parigi con la regia di Peter Brook lo scorso ottobre (2021). Questa esperienza di essere noi due in scena è l’apoteosi della nostra vita assieme. Kathryn è una regista di talento. Ha fatto un superbo Lear. Ha capacità di controllo e abbiamo due personalità che si conoscono e Omar (Elerian, il regista di The Chairs) è stato bravo nel portare in scena due persone che si conoscono. Peter Brook cerca sempre di portare nel suo cast delle persone che si conoscono nella vita perché c’è qualcosa d’altro che succede. C’è un’altra energia. Non sono due professionisti, sono due esseri umani che s’incontrano in scena e qualcosa nasce. Io e Kathryn sappiamo anche che qui bisogna andare più veloci, qui bisogna staccare, qua bisogna lavorare assieme al ritmo... perché abbiamo vissuto trent’anni assieme in teatro, con The Rose Tattoo, Lear, The Visit, venti, venticinque spettacoli assieme.
E Toby (Sedgwick) è un amico della pelle dal 1990. Per cui c’è una fiducia, una capacità di scambiarsi dopo lo spettacolo dei commenti, di chiedere cose senza mai una traccia di fastidio. Siamo aperti l’uno con l’altro e queste sono lezioni che vengono da Complicité, da Peter Brook. Alla fine di ogni spettacolo con Peter, ci si ritrova, ci si sente assieme. per un buon cinque minuti si sta in una stanza e si scambiano commenti, e Peter chiede che questo avvenga anche quando lui non c’è e gli attori lo fanno invece di struccarsi, andare via e bersi una birra. No, siamo una compagnia. Oggi per esempio alle tre e mezza ci rimettiamo insieme io e Kathryn, arriva Toby ed è una lezione di vita, chiaro.

E il pubblico? (Kathryn Hunter invita due spettatori in scena)
Il pubblico è sempre un pericolo. Ritorno ad Ionesco. È un autore che lavora sull’esistenza...io non trovo che sia assurdo, per me è talmente umano. La vita umana non è assurda, è strana, non si capisce perché. Ma, assurdo per me è una parola che vorrebbe quasi dire che non ha senso. No, no, la vita ha un senso, che è che ha un ‘non-senso’. Ionesco ha costruito qualcosa dove lui chiede di fare un numero con delle persone invisibili. Stava giocando col teatro, e giocando col fatto che alla fine lo Speaker (l’Oratore) non parla. Gioca a dare delle contraddizioni su cos’è la verità. Ci fa fare titters and tatters che è un numero quasi clownesco e poi dopo il numero con le sedie, vendere programmi e fare una cosa mentre l’altro ne fa un’altra, in contraddizione. Si deve rivaleggiare in bravura nel momento in cui la moglie fa sesso mentre il marito è romantico. Sono dei giochi teatrali, giochi sulle convenzioni del teatro. Per cui ci siamo detti che aprire al pubblico fa parte di queste. E Kathryn con l’aiuto del regista l’ha fatto a un certo punto. Cosį lo spettacolo diventa quasi imprevedibile al punto tale che il pubblico è così attratto che si chiede dove si andrà a finire, scenderà un trapezio? dove ci si fermerà.

Ma con la Commedia dell’Arte ed il clownesco su un testo tragico, non avevate paura di sfasarlo un po’ troppo, dall’esser troppo presi dal gioco comico?
A leggere Ionesco, le sue note, i tipi di gioco suggeriti, lui usa la parola clownesco, grottesco. Il regista Oscar Elerian ci ha portato delle letture, dei saggi in cui Ionesco usa queste parole. Abbiamo fatto Beckett con Peter Brook e secondo tutti Beckett era pessimista. Ma Peter diceva di aver conosciuto Samuel Beckett e che non era assolutamente così, gli è stata appiccicata questa etichetta. Ionesco per me ha avuto lo stesso trattamento, che è diventato uno stereotipo. Come anche un certo modo di recitare Shakespeare quasi cantilenato. Mentre bisogna essere veri e trovare il verso, ma non fare solo il verso, cioè cadere nella lirica e non trovare la verità. Per me Ionesco ha vissuto un periodo in cui l’hanno gettato in un esistenzialismo di pena, mentre ha insite due energie, la vita e la tragedia. Ho letto che ha affermato che la vita è meravigliosa, quindi non può averla negata. Ha sentito la morte molto presto nella sua vita, ma deve aver sentito anche la vita e questo contrasto fa sì che le due persone in The Chairs vogliano avere un rituale, quasi un’apoteosi che vuol farli rivivere ancora una volta, un po’ come in La Grande Bouffe, bisogna vivere prima di dire Au revoir.

Nonostante il suicidio finale.
Certo. Ma perché andare con le lacrime. Abbiamo voluto anche il momento tragico, ma contrapporlo con dei momenti di gioia.

In che senso il pubblico può essere un pericolo?
Può far cambiare il tono dello spettacolo. A me è successo al Young Vic Theatre in uno spettacolo di Peter in cui la persona che ho invitato in scena mi ha messo nel panico. Non ha ascoltato quello che stavo dicendo, era una bomba a orologeria. Per cui non sai cosa porti in scena, ma è un piacere immenso giocare con il pubblico. Peter me l’ha fatto fare in due spettacoli di interagire con il pubblico. Questa apertura fa sì che non ci sia distanza. La distanza della ‘quarta parete’ è un peccato, perché sentiamo che il teatro è una cosa da vedere. Bisogna avere il coraggio di partecipare. All’origine il teatro aveva questa libertà, poi son nati i biglietti, il buio, il proscenio, la convenzione che ha portato il teatro ad essere staccato.Il teatro della Commedia dell’Arte era su un carrozzone, e gli spettatori erano tutt’attorno e la commedia dell’arte è un continuo interagire che io adoro.

E per Peter Brook?
Io ho visto The Suit (2013), uno spettacolo molto drammatico ed a un certo momento ha fatto portare dagli attori in scena degli spettatori per creare una scena di gruppo, perché questo cambia registro. Cambiando registro il pubblico è più preparato ad accettare la tragedia. Shakespeare lo faceva. Se tutto lo spettacolo è solo in tragedia, il pubblico non è pronto a piangere. Se tu ridi hai liberato qualcosa nella tensione. Se sei solo su una nota, è molto più difficile.

Lei sta diventando un creatore di movimento. Avrà una sua scuola?
No. La difficoltà sarebbe dove, come trovare uno spazio e l’abbiamo cercato cinque, dieci anni fa, di una sala venti per quindici, una sala grande, ma non sono riuscito a trovare niente.

A Parigi?
No, a Londra. Mi piace insegnare. Dalla Toscana, da Roma mi hanno chiamato tre o quattro volte. ma col Covid non ci si può spostare. Mi piacerebbe. Ma non voglio partire con la responsabilità di dover comprare uno spazio.

Quali sono i prossimi passi allora?
Il prossimo progetto è Lear a giugno/luglio, al Globe, con Kathryn nel ruolo di Lear. Io sarò Kent, mentre il fool sarà Michelle Terry che reciterà anche Cordelia. Avevo visto Tino Carraro con Ottavia Piccolo che avevano fatto il doppio. Fantastico.

Beatrice Tavecchio

Ultima modifica il Martedì, 01 Marzo 2022 23:46

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