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INTERVISTA a MICHELA BARASCIUTTI - di Michele Olivieri

Michela Barasciutti. Foto Francesco Barasciutti Michela Barasciutti. Foto Francesco Barasciutti

Michela Barasciutti, ballerina e coreografa, direttrice di VeneziainDanza (con il supporto del Teatro La Fenice). A diciotto anni è stata Solista per il “Bussotti Opera Festival” nell’opera “Autotono” di Sylvano Bussotti. Per anni ha fatto parte della Compagnia di Balletto “L’Ensemble”, diretta da Misha Van Hoecke. Ha spesso lavorato in Enti Lirici, ed in particolar modo al Gran Teatro “La Fenice” sotto la direzione di coreografi e registi come A. Amodio, G. Cauley, G. Borni, Pier’Allì, S. Bussotti, Bolognini, De Ana, Loiodice e altri. Ha ricoperto il ruolo di Prima Ballerina in due enti lirici: Gran Teatro “La Fenice” e al “Carlo Felice” di Genova. Conosciuta e apprezzata dalla stampa specializzata italiana, ha raccolto positive recensioni da parte di alcuni tra i maggiori critici. Ha partecipato a numerose trasmissioni televisive. È direttrice artistica delle rassegne di danza “Danza Aperto” a Mestre, e a Venezia “Percorsi d’Autore – rassegna di nuovi autori” e della sezione “danza” di “Teatro in Campo”. Nel 1991 fonda la “Compagnia Tocnadanza”. A tutt’oggi vanta collaborazioni e co-produzioni con prestigiosi Enti e Festival. Crea, con proprie coreografie, lo spettacolo “Nuances”. Successivamente realizza il video “Progetto Kafka”, su soggetto di Silvano Rubino. Viene presentata a Mirandola l’opera teatrale “Strix”, di cui Michela Barasciutti (oltre a ricoprire il ruolo di prima ballerina) firma le coreografie in occasione del Convegno di Studi su Giovanni Pico della Mirandola. È invitata al “Premio Internazionale Astor Piazzolla” a Castelfidardo presentando un balletto su musica originale oltre alla “Balada para un loco”. Realizza insieme a Corrado Canulli lo spettacolo “Simboli opposti Miti”. Presenta “L’Ultima farfalla”, spettacolo di danza-poesia-musica. Presenta a Trieste lo spettacolo “Memorie Aggredite”, balletto basato sulle scenografie curate dall’architetto argentino Mateo Eiletz. Crea lo spettacolo “I Vicoli dell’Anima” che riporterà grande successo di critica e pubblico. Crea lo spettacolo “Voci” in co-produzione con il “Festival Internazionale Abano Danza” e “La Biennale di Venezia”. Un estratto dallo spettacolo “Il silenzio degli uomini” fa parte dell’esposizione permanente al “Vladimir Vysotsky’s Museum” a Koszalin, in Polonia. Presenta successivamente “Il volo interrotto” e “Sym-Ballein”. Realizza inoltre le seguenti produzioni: “Lighting Cue Number” e “Satna”. Produce e firma gli spettacoli di “Terra e di Altro”, “Made in Italy – I soliti ignoti” (dedicato a Mario Monicelli), “Looking Out”, “Vestita di Terra e di Mare”, “Fiore accanto, Untitled – Tribute to Peggy Guggenheim”, “Notturni d’acqua”. Per il 150° anniversario della nascita di Erik Satie, crea “Le stanze di Satie” in collaborazione con il “Conservatorio Musicale Benedetto Marcello” e “Archivio Carlo Montanaro”. Nel 2017 per il 25° anniversario della “Compagnia Tocnadanza” crea lo spettacolo “7 quadri + 1”. Nel 2021 è andata in scena, in occasione della XIII edizione di “VeneziainDanza”, la sua nuova coreografia “Io Maria, Lei Callas”. Come direttrice artistica ha realizzato a Venezia ben ventisei rassegne di danza ospitando compagnie nazionali, giovani autori e alcune delle più importanti istituzioni mondiali della danza, come il “Balletto dell’Opera di Hannover”, i primi ballerini del “Bayerische StaatsBallet”, quelli dell’“Opera di Vienna”, “Aterballetto” e molti altri.

Carissima Michela, com’è entrata la danza nella tua vita?
Fin da piccola cantavo e danzavo sempre. Avevo undici anni quando mio padre mi propose di frequentare una scuola di danza. Ne rimasi stupita e felice così iniziai a addentrarmi in questo mondo.

Quali sono state le maggiori difficoltà riscontrate durante il cammino formativo?
Incontrare la disciplina e il rigore nel periodo difficile dell’adolescenza fu impegnativo, ma allo stesso tempo nacque un grande amore e così scoprii la mia passione per la danza.

Cosa ricordi del tuo primo giorno in sala danza?
Entrai in sala per una lezione di prova indossando il mio kilt giallo e nero. L’insegnante mi mise alla sbarra e mi disse “prova a seguire”. Poi mi chiese stupita se avevo già frequentato dei corsi di danza e io risposi di no timidamente. Appresi molto velocemente e da lì conclusi l’anno con una frequenza di due giorni settimanali, per poi succesivamente passare allo studio quotidiano.

Chi ha inciso maggiormente nel tuo percorso artistico?
Prima di tutto la mia insegnante (Sig.ra Luciana De Fanti, donna preparata, forte e contemporanea) che oltre a darmi una grande e forte preparazione tecnica accademica, mi ha fatto scoprire cosa significa “stare in scena”, “perché si danza”, mi ha fatto capire che il corpo ha molte possibilità espressive e che la mente ha bisogno di cultura, che bisogna essere inseriti nel nostro tempo, nella società e che la danza può essere incisiva nel presente. Il gesto deve essere verità e devi essere vera quando danzi. Succesivamente, molti sono i coreografi che ho incontrato nel mio percorso lavorativo, tutti preziosi e unici. Ne cito però due che maggiormente sono scolpiti nel mio cuore: Geoffrey Cauley e Misha Van Hoecke. Geoffrey mi ha dato l’oppurtunità di ricoprire per due volte l’importante ruolo di “Prima Ballerina” in due Enti Lirici (Gran Teatro La Fenice di Venezia e il Teatro Carlo Felice di Genova) e Misha che mi ha accolto e accompagnato nel suo mondo artistico-creativo.

Com’è stato lavorare ed apprendere da Misha Van Hoecke?
Lavorare ed apprendere. Misha mi vide in uno spettacolo e subito mi propose di entrare nella sua compagnia “l’Ensemble”, la compagnia aveva sede a Bruxelles, l’aveva da poco fondata con danzatori che provenivano dalla scuola “Mudra” di Béjart che lui dirigeva. Eravamo solo 3/4 italiane (sedici elementi provienienti da tutto il mondo) è stato un progetto di vita e di arte, Misha abbracciava tutte le arti nel mettere in scena gli spettacoli, aveva una visione della danza molto personale in quel momento storico… era Misha! Ho imparato, quanto meno assorbito, le sue fasi creative, le sue inquietudini che allora non comprendevo a pieno, ma che ora mi sono sempre più limpide e condivisibili… le sue gioie e le sue spensieratezze, la sua ironia e le sue risate, la sua forza nel portare avanti un progetto faticoso e impegnativo come una Compagnia di danza. Ho capito e vissuto la Creazione come atto teatrale totale, drammaturgico, dove la danza è il linguaggio principe, ma non solo. Quest’anno la sua dipartita mi ha lasciato un grande vuoto e un grande dolore.

Qual è il tuo ricordo più bello legato alla carriera da esecutrice?
Non ce né uno solo ma molti, speciali e spirituali legati a persone e luoghi e ci vorrebbero molte pagine per poterli raccontare e penso anche che non riuscirei a parole a dare il vero significato per ogni ricordo, ma posso dire che in precisi momenti hanno avvicinato la mia anima e il mio corpo a dimensioni “altre”, direi spirituali, percependo vibrazioni che mi connettevano con l’universo tutto... e vivendo affinità speciali con persone che tutt’oggi porto nel cuore. Energia e magia.

Che cosa ti piace e che cosa non tolleri nel mondo della danza?
Io amo sicuramente la libertà di pensiero, mi piace molto la ricerca come evoluzione del linguaggio. Non amo la divisione che crea etichettature e le tante mode che si formano e poi svaniscono, ma che recano solo confusione. Nella scelta di questa forma d’arte, credo sia l’apertura mentale che ci dà la possibilita di evolverci e di metterci tutti in connessione e discussione.

Che cosa ti emoziona maggiormente nell’aver scelto la danza come professione?
La possibilità di avere un altro linguaggio per potermi esprimere, cosa preziosa. Da bambina ero timida, guardavo, ascoltavo molto e quando danzavo riuscivo veramente ad essere me stessa. Mi emoziona tantissimo avere avuto la possibilità, sin da giovane, di poter parlare tramite il mio corpo ed esplorare questa forma d’arte attivando in me, sia quando danzo sia quando coreografo, immagini dipinte con il corpo.

Che cos’è l’arte coreutica per te?
È creatività, matematica, visione e geometria.

L’esperienza televisiva come l’hai vissuta?
Sono state delle bellissime esperienze che mi hanno fatto scoprire che ci sono modi diversi per raggiungere il pubblico. Rimango affascinata da come questo strumento può entrare nel dettaglio e nella possibile costruzione di un percorso, ma la ritengo un’altra famiglia perché il teatro è ancora il mio luogo, dove sento il presente, il “qui ed ora” e dove l’incognita dell’emozione si attua nel preciso momento in cui avviene l’atto teatrale, un’alchimia speciale legata all’incognita temporale.

Ad un certo punto della tua carriera hai deciso di seguire un percorso autonomo coreografico. Da dove nasce quest’esigenza?
È accaduto naturalmente, sin da adolescente ne ero attratta ed affascinata allo stesso tempo. Nel pieno della mia carriera come danzatrice, a trent’anni, ho progettato un lavoro a serata intera “Nuances” con quattro danzatrici. Sinceramente non è stato facile, non avevo uno spazio, risorse, sostegni, lavoravamo anche di notte (visto che lo spazio trovato era libero solo negli orari notturni) incredibile se ci penso… non esistevano residenze in Italia mentre all’estero era la normalità... poi incontrai una persona che mi propose di poter rappresentare questo mio lavoro in una rassegna e che ne stava definendo il calendario; ecco, da lì iniziò tutto e fondai la “Compagnia Tocnadanza” a Venezia. Mi piace danzare, coreografare e amo molto pure insegnare. Ad un certo punto però mi sono dedicata quasi completamente al percorso coreografico come un fatto naturale, un flusso dove non è venuto a mancare nulla degli altri “ruoli” che non ho mai abbandonato sentendomi appieno arrichita dall’esperienza. Così facendo ho potuto, spinta dalla curiosità e lavorando in ricerca, dedicarmi alla coreografia.

Tra tutti i giovani coreografi della scena nazionale ed internazionale chi reputi maggiormente interessante?
C’è molta attenzione e sostegno per i giovani coreografi, moltissimi danzatori che si affacciano all’esperienza della coreografia e questo lo ritengo molto positivo, proprio per questo è importante seguire il loro percorso che però ne potremmo assaporare le loro ricerche e le evoluzioni creative come naturale crescita solo in divenire ora come ora c’è molta “carne al fuoco”.

Sei stata maitre de ballet per la Phoenix Dance Theatre di Londra durante la Biennale di Venezia. Cosa ti ha riservato a livello emozionale prestare servizio per due realtà così importanti?
Quell’esperienza è stata particolarmente appagante visto la stima e l’alto livello di qualità delle realtà, e anche molto emozionante per l’empatia ed il feeling reciproco che instaurai con i danzatori della “Phoenix Dance Theatre”. Sono stata felice che il mio lavoro e l’esperienza sia stata accolta con rispetto ed entusiasmo e messa al servizio delle loro neccessità.

Dove ricerchi la fonte d’ispirazione per le tue creazioni?
Bella domanda Michele, ma è difficile rispondere… non la cerco il più delle volte è lei che trova me. Nell’esperienza di questi trent’anni l’ispirazione ha avuto varie porte di entrata: ho trovato la fonte ponendomi domande, dubbi e riflessioni sulle problematiche della società che stiamo vivendo, ascoltando un brano musicale, avvicinandomi a personaggi del Novecento, a volte è lei che ha trovato me palesandosi improvvisamente attraverso un’idea, un’intuizione, una necessità, attraverso una commissione di un lavoro, una composizione musicale, una poesia Se guardo al passato a tutt’oggi per ogni creazione ho assai limpido il germe d’inizio e ne provo stupore. Forse l’ispirazione è la magia di un incontro dovuta a una necessità inconsapevole.

Come si svolgevano i corsi di “espressione motoria” dedicati ai cantanti lirici, tenuti presso il Conservatorio Musicale Benedetto?
Questo bellissimo progetto ed esperienza di “espressione corporea” era rivolto a trenta studenti-cantanti, per lo più asiatici, strutturato per una conoscenza del corpo come ulteriore prezioso strumento scenico-artistico, consapevole ed attivo. Ho lavorato principalmente (partendo con un training basico) sulla postura ed il peso del corpo, sul respiro e sul suo ritmo, sul volume del corpo nello spazio, sull’intenzione del gesto legato all’azione scenica (pensiero-sguardo-azione) e molto altro... tutto atto a permettere loro di “abitare” il corpo per una maggiore consapevolezza interpretativa ed artistica.

Così tramite la tua ispirazione riesci ad intrattenere attraverso la danza, sviluppando di volta in volta un nuovo pubblico?
A me piace quel pubblico descritto da Oscar Wilde: dopo che l’artista presenta la sua opera, tocca al pubblico che assiste divenire a sua volta “artista” e creare una propria immagine creativa. Credo che nessun artista debba cercare un pubblico, tutt’al più il contrario, ma credo che ogni artista debba essere rispettoso del pubblico ed essere onesto con questo, presentando lavori sinceri e “veri”.

Tra i tanti coreografi ed artisti del passato, c’è qualcuno in particolare che ha influito in maniera determinante sul tuo stile e perché?
Sono figlia del mio tempo. All’inizio della scoperta mi ha accompagnato Béjart, poi Pina Bausch, Mats Ek, Forsythe, Kyliàn, Neumeier, che ho avuto la fortuna di vedere tutti dal vivo e immagazzinare sensazioni, colori, atmosfere, poesia e umanità. Personalità così affascinanti ed incisive, così potenti e delicate da influire e far nascere una mia visione della danza e indirizzare una mia ricerca coreografica.

A proposito di stile, come definiresti il tuo?
Non mi definirei in uno stile, penso di avere un mio sguardo, una mia visione, una mia poetica.

Nelle tue creazioni la musica ha un ruolo fondamentale o predomina di più l’aspetto estetico?
La musica è parte fondamentale nella drammaturgia e regia del mio lavoro. Ha un ruolo principe, la sento necessaria, incisiva, uno stimolo continuo che mi accompagna, mi suggerisce, mi colora e rafforza atmosfere, si sposa con la mia scrittura ed il mio sentire. Per questo necessita una ricerca musicale che sia non solo estetica, ma che si fonda in modo funzionale ed emozionale con il fatto teatrale che sto sviluppando.

Cosa significa accostarsi al mito e trasformarlo in un linguaggio del corpo?
Un mito è sempre un involucro di una personalità complessa. Noi creiamo il mito, ma stiamo parlando di una persona che racchiude talento, umanità, arte, personalità, inquietudine. L’unica strada per me accessibile nell’avvicinarmi e nel trasformarlo in linguaggio del corpo è l’empatia. È una gestazione molto lunga, inquieta, ma amorevole quasi di protezione. È da questo percorso che nasce il movimento e la gestualità che mi avvicina sempre più ad un dialogo profondo, ma delicato instaurando un legame dove tutto nasce e si concretizza, nella “mise en scène”, come un fatto naturale.

Quando ti occupi delle audizioni per la ricerca di nuovi talenti da inserire in Compagnia, cosa ti colpisce in un candidato/a?
Fatto salvo la preparazione tecnica e la conoscenza del loro strumento, il corpo, cerco la loro verità, la luce nei loro occhi (anima) e la capacità di riprodurre una mia elaborazione coreografica per poterla assimilare e tradurre con il “tocco” della loro personalità, ma senza stravolgerla affinché io possa rivedere il mio gesto e contemporaneamente percepire e vedere il loro processo di trasformazione. Cerco l’unicità in ognuno dei miei danzatori/interpreti è questa la qualità, la forza e la luce che cerco.

Per “VeneziainDanza” al Teatro Malibran hai ospitato sia Compagnie nazionali, giovani autori ma anche alcune delle più importanti istituzioni internazionali, come il balletto dell’Opera di Hannover, i primi ballerini del Bayerische StaatsBallet, quelli dell’Opera di Vienna, Aterballetto. Da cosa ti lasci guidare per la composizione del programma?
Per questo festival ho sempre cercato di differenziare la proposta artistica, presentando spettacoli che abbracciassero una vasta panoramica della danza, dal classico al contemporaneo nelle loro molteplici espressioni. In questo modo cerco di dare al pubblico la possibilità di conoscere ed aprezzare la diversità creativa di questa forma d’arte.

Nel 2016 è, su tua proposta, che Alessio Carbone fa nascere il progetto “Les Italiens de l’Opéra de Paris”. Come è nata questa felice intuizione?
Direi quasi per caso, ho chiesto ad Alessio un gala per poterlo inserire nella programmazione del “Festival VeneziainDanza” al Teatro Malibran di cui ho la direzione artistica ed organizzativa assieme a Stefano Costantini. Ci siamo incontrati e, facendo notare che nel mio cartellone davo sempre molto spazio ai talenti italiani, da questo ne è nata l’idea alla quale poi Alessio ha fatto prendere forma con “Les Italiens de l’Opéra de Paris”. Abbiamo unito le forze affinché potesse debuttare in prima assoluta nel mio festival et voilà ha preso il volo questo importante progetto che sta girando il mondo di cui sono molto orgogliosa e felice di aver contribuito alla sua creazione e “postazione di decollo”.

Mi racconti la tua personale visione di cultura, ricerca e sperimentazione?
Parlare di “cultura” presenta un troppo vasto panorama di teorie e possibilità; potrei dire condensando che “cultura” è l’insieme di conoscenze, di esperienze e di analisi e sintesi di queste. Per quel che riguarda la ricerca e la sperimentazione, mi piace rifarmi al pensiero di Edgar Varese che definiva la musica “suono organizzato”: ecco, io definirei la danza “movimento organizzato”. Varese diceva che lui sperimentava solo nel suo studio e al pubblico offriva solo il risultato della sua sperimentazione, così anch’io ricerco molto, da sola prima e con i miei danzatori poi, e solo dopo offro al pubblico il risultato, che sarà lo spettacolo.

Come ti poni nel ruolo di docente, a cosa dai maggiore importanza?
Il ruolo di docente è un ruolo guida, di insegnamento, di suggerimento ed apertura verso l’altro quindi cerco sempre il contatto umano ed artistico ponendomi in una condizione di empatia e di ascolto per trovare la giusta strada per comunicare e trasmettere in modo diretto ed interscambiabile con ogni allievo o corsista. In questo ruolo do molta importanza, fatto salva la preparazione tecnica, alla disponibilità mentale, al talento ed alla possibilità di istaurare una connessione personale per poter intraprendere un percorso educativo e di valore.

Come ascoltare al meglio il proprio corpo in relazione alla mente e ai pensieri?
Danzando, il danzare è il pensare nell’atto del suo prodursi.

Come si acquisisce (se ciò avviene) la libertà fisica mediante il concetto di danza?
La conoscenza ci rende liberi. Devi acquisire consapevolezza del tuo strumento che è il corpo, lo devi lavorare, potenziare, scoprirne le infinite possibilità, praticare nel frattempo il tuo corpo memorizza, sviluppa, analizza le informazioni ne trova le soluzioni e nel contempo ti accorgi che il movimento fluisce e diventa altro da te così “abiti” la danza.

La parola moderno, oggi, esprime una forma particolarmente aperta di movimento. Può essere tra teatro concettuale o su storiche tecniche di stile modern, ma, oggi con il realismo e la libertà che i danzatori hanno, ognuno sviluppa un proprio linguaggio e movimento scenico. Secondo te ci sono dei limiti invalicabili o tutto è concesso?
Tutto è in evoluzione, contaminazione e trasformazione: l’importante è essere a conoscenza di questa evoluzione. Con questo però non darei limiti, ma solo attenzione a quell’equilibrio di cui si ha bisogno affidandosi a una guida per un cammino.

Quanto Venezia ha influito nella tua idea di bellezza?
Moltissimo! Venezia mi avvolge, mi abbraccia nella sua bellezza ed unicità da quando sono nata. Provo ancora stupore nel guardarla e nel viverla. Mi sento fortunata ed appagata ogni giorno. A Venezia la natura si fonde con l’arte e viceversa, cosa c’è di più meraviglioso nell’esserne cullata ed influenzata.

Proprio a Venezia è nato il tuo festival, con il supporto del Teatro La Fenice, qual è il bilancio ad oggi?
Il festival “VeneziaInDanza”, che si svolge al Teatro Malibran, è giunto quest’anno alla 13^ edizione, un bel traguardo! È stato, in questi anni, un percorso di grande lavoro per affezionare il pubblico a questo evento ed il bilancio a tutt’oggi è molto positivo. Dopo due anni (2019/2020) di sospensione dovuta prima alla grande e disastrosa alluvione che ha subìto la città e poi con la pandemia, ci siamo trovati quest’anno a ripartire con un pubblico numerosissimo che ci ha “abbracciati” (lo stato d’animo era di sorpresa, emozione e gratitudine) premiandoci con stima ed affetto per tutto il percorso fatto sino ad oggi e per le proposte presentate che hanno sempre incuriosito. Colgo l’occasione ancora per ringraziare il Teatro la Fenice con le sue maestranze ed il personale che con il loro supporto ci hanno sempre permesso di lavorare con enorme qualità, cosa fondamentale per la realizzazione degli allestimenti proposti e per la coordinazione del grande lavoro.

Ma anche a Genova hai lasciato una tua impronta?
Direi che è Genova e il suo principale Teatro ad aver lasciato un’impronta su di me. Una città bellissima, in ogni città “di porto” io mi sento a casa, ma sopratutto il suo Teatro il “Carlo Felice” dove ho avuto l’onore di danzare, ricoprendo il ruolo di prima ballerina, con un partner eccelso come Vladimir Derevianko.

Tra tutti i tuoi partner artistici, l’empatia maggiore con chi si è creata e perché?
Lavorare con un partner è come fare un viaggio, e in questo viaggio si condivide tutto, dall’esperienza alle incertezze, dalle intuizioni ai dubbi. Ogni partner mi ha lasciato qualcosa e, credo, anch’io forse ho lasciato qualcosa a lui. Avere empatia con un partner è il solo modo per poter lavorare, creare, e non saprei distinguerli in una classifica, semplicemente tutti mi hanno arricchito.

Quanta importanza dai, nel tuo lavoro, alla singola improvvisazione?
A volte uso l’improvvisazione come forma di ricerca creativa in equiibrio con un contesto registico-teatrale ben definito: potrei parlare di “improvvisazione guidata” affinché l’interprete abbia la possibilità di cercare una propria dimensione espressiva che permetta un arricchimento del percorso artistico.

Qual è il momento che più ti affascina nella creazione?
La creazione è un lungo cammino. La vivo come una gestazione, una nascita e una protezione. Tutte le fasi per me sono importanti ed affascinanti nella loro evoluzione: lo studio, il tempo per pensare, la drammaturgia, la ricerca coreografica e musicale, poi penso alla luce, ai costumi... il tutto in una, quasi, solitudine per poi passare alla condivisione con i miei danzatori dove il tutto si evolve e svela la scrittura ed il pensiero a lungo cullato con meraviglia. L’allestimento in teatro conclude, ma solo in parte il cammino, dico questo perché poi la protezione di cui parlavo prima si mette in atto nell’accompagnare lo spettacolo in diversi luoghi/teatri cercando di trovare sempre il giusto equilibrio di rappresentazione e crescita.

Passo dopo passo è nata la tua compagnia, Tocnadanza. Qual è il biglietto da visita di questa realtà e cosa rende speciale i tuoi danzatori?
Penso che il biglietto da visita di “Tocnadanza” venga definito da trent’anni di storia e si concretizza nel riconoscimento di fiducia, stima e collaborazioni con prestigiose istituzioni. I miei danzatori sono speciali in quanto non sono solo bravi esecutori, ma anche grandi interpreti... belle anime!

Quali sono i maggiori problemi riscontrati nelle vesti di Direttore di Compagnia?
Senza dubbio la responsabilità; bisogna essere in grado di risolvere qualunque problema per poter lavorare in serenità e condivisione. Essendo stata io stessa danzatrice, presto molta attenzione e cura ai miei danzatori perché penso di conoscere le loro necessità e le loro inquietudini artistiche.

Sottolineiamo quanto sia importante la conoscenza della tecnica della danza classica per tutto quello che poi verrà scelto nel percorso futuro dagli allievi?
È di primaria importanza la conoscenza della tecnica accademica nel percorso formativo, la definirei una radice da cui partire per far crescere tutto ciò che la danza può svelare.

L’assistente alle coreografie è colui che deve trasmettere al danzatore in modo più aderente possibile al coreografo, il suo stile ed il suo gusto. Come ti sei approcciata a questo ruolo, penso ad esempio al lavoro svolto con Robert North e Bob Cohan?
Con grande umiltà ed ascolto.

Come reputi l’attuale livello e metodo d’insegnamento nel nostro paese?
Direi abbastanza buono. Gli allievi oggi sono molto veloci nell’apprendere e riprodurre fisicamente, ma spesso il loro movimento è il fine principale. A mio avviso nel processo formativo si dovrebbe dare più attenzione al senso della Danza sin da piccoli, per farli crescere istillando quel germe prezioso che li trasporterà in maniera naturale e consapevole alla loro maturità artistica.

A tuo avviso, dopo tanti anni in palcoscenico e sala prove, oltre alle doti fisiche e tecniche, quali sono i presupposti fondamentali per diventare un artista e non solo un bravo esecutore?
Per me artista lo si è e non lo si diventa. Raymon Chandler diceva: “Tanto lavoro non potrà mai sostituire il talento”. Vero è che a volte non si conoscono le vere potenzialità ed è nell’incontro e nel percorso con questa forma d’arte, che ci si mette completamente "a nudo”, che si riesce a svelare la vera anima, la luce, l’essenza che fa la differenza tra un esecutore ed un artista. Tutto ciò è visibile e percepibile nella Danza.

Oltre la danza, quale altre passioni coltivi?
La vita mi ha regalato già una grande passione che è diventata pure la mia professione. Posso dirti Michele che essendo una persona curiosa sono continuamente attratta da tutto ciò che non conosco, soprattutto nell’arte in tutte le sue manifestazioni.

Cosa vuol dire poter lavorare con un gruppo stabile di ballerini?
Se per gruppo stabile intendi un team di danzatori che lavorano con me da anni, ti rispondo Michele che è molto importante condividere la conoscenza, l’intesa, la complicità e la fiducia per la fluidità nell’evoluzione dell’atto creativo.

In Italia esiste una autentica cultura della danza contemporanea?
A mio avviso l’Italia non ha una cultura autoctona della danza contemporanea, ma fa parte di quell’evoluzione culturale, principalmente europea, in continua contaminazione ed evoluzione.

Quanto reputi fondamentale o necessario lo studio teorico della storia della danza e del balletto?
Importantissimo e fondamentale! Bisogna conoscere la storia per vivere il presente e guardare al futuro.

Se ti capita di andare a teatro ad assistere ad uno spettacolo, cosa scegli?
Il teatro sin da piccola è un luogo che ho scelto perché mi fa star bene e mi fa sentire di appartenere a una comunità, non ho mai pregiudizi nella scelta del genere seguo il mio istinto: leggo, mi informo e vado.


Tra tutti i grandi balletti del repertorio classico accademico a quale sei più affezionata e perché?
Direi “Giselle” perché ho avuto la possibilità da giovane di assistere a tante prove e a tutte le rappresentazioni al Teatro la Fenice dove veniva rappresentata “Giselle” con Rudolf Nureyev ed Elisabetta Terabust... che meraviglia, ho ancora immagini e sensazioni molto presenti. Mi affascinò talmente tanto che mi è rimasto nel cuore.

Mentre sul versante contemporaneo?
Tanti e tutti così preziosi… ma se dovessi dare una risposta immediata e spontanea direi la “Giselle” di Mats Ek che in quel momento storico mi spalancò un mondo… c’è un’umanità nella lettura di “Giselle” che Mats ha rappresentato che mi commuove ancora. Ho sempre definito Mats Ek un coreografo umano che fa vibrare “corde” addormentate dentro di noi.

Un libro di danza che ti sta particolarmente a cuore?
Ce ne sono molti, ma vorrei citarti il primo che ho letto sulla danza: “Il balletto” di Arnold L. Haskell (ed. Ricordi).

In conclusione, Michela, quali sono i progetti futuri che ti attendono e gli eventuali sogni nel cassetto ancora da avverare?
Mi attende come sempre un lungo e duro lavoro, ma è anche, io credo, il lavoro più bello che io potessi scegliere: nuove creazioni, nuove collaborazioni e come sempre nuovi orizzonti creativi. Non ho sogni nel casseto, o forse ne ho troppi.

Michele Olivieri

Ultima modifica il Domenica, 06 Febbraio 2022 13:45

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