Stampa questa pagina

INTERVISTA a CESARE LIEVI - di Federica Fanizza

Cesare Lievi Cesare Lievi

Attivo principalmente nei teatri lirici di Germania e Austria, Cesare Lievi, regista e drammaturgo sia nell'ambito della lirica che di prosa, a settembre riprenderà l'allestimento dell’opera Linda di Chamounix di Gaetano Donizetti al Teatro del Maggio Musical Fiorentino, in questa ripresa di stagione 2021- 2022. Il titolo era programmato ancora nel dicembre 2020, poi per le vicende sanitarie, rimandato e allestito a febbraio di quest'anno con trasmessione in streaming dal Teatro. E' un segno di una ripresa di attività, anche se con molte incognite, che porterà il regista anche ad un nuovo allestimento in prima esecuzione a Firenze, Lo sposo di tre o il marito di nessuna, di Luigi Cherubini, nella primavera prossina 2022, titolo previsto per l'inaugurazione del festival del Maggio Musicale 2020.
Originario del Lago di Garda (Villa di Gargnano prov. di Brescia) Cesare Lievi fondò nei primi anni ottanta il "Teatro dell'Acqua", nella città natale. Tra le messe in scena di quel periodo, particolare successo ebbe lo spettacolo tratto dal Barbablù di Georg Trakl, che nel 1984 fu presentato alla Biennale di Venezia. A cui seguirono negli anni successivi diverse regie in Austria e Germania tra cui Käthchen von Heilbronn di Heinrich von Kleist (1988), Enrico IV di Luigi Pirandello (1989), Il tempo e la stanza di Botho Strauß (1990), Il principe costante di Calderón de la Barca (2001), Erano tutti miei figli di Arthur Miller (2002). Nel 1996 è diventato direttore artistico del Teatro Stabile di Brescia e e successivamente dal 2010 al 2011 del teatro di Udine.
Nel campo operistico si deve ricordare la regia de "La clemenza di Tito" di W. A. Mozart (Francoforte 1989), "Parsifal" di R. Wagner (spettacolo inaugurale della stagione scaligera 1991-92 con la direzione di Riccardo Muti), "La Cenerentola" di G. Rossini (Zurigo 1992), "Ariadne auf Naxos" di R. Strauss (Zurigo 1993), "Gesualdo" di A. Schnittke (Vienna 1995), "Siegfried" di R. Wagner (Teatro Bellini, Catania 2002), "i due Foscari" (dir. Muti, Milano, Scala 2009). Nel 2009 ha curato la regia di "Cenerentola" di G. Rossini al Metropolitan di New York; nel 2002 ha diretto Cecilia Bartoli in Nina, o sia La pazza per amore di Giovanni Paisiello e nel 2004 la stessa con Ruggero Raimondi ne Il Turco in Italia di Gioachino Rossini una produzione dell'Opernhaus di Zurigo (questi ultimi due usciti anche in DVD).
Nel 2009 vince il Premio Ubu come miglior testo drammaturgico con La badante.

Si sta riprendendo l'attività delle stagioni teatrali liriche e presto dovremmo lasciare alle spalle l'esperienza d’interruzione della proposta di musica e di vita teatrale che ha sconquassato il mondo dello spettacolo dal vivo. In che modo si sta procedendo? E, soprattutto, ne usciremo?
A tastoni. E in modo lento, rallentato dalle norme anticontagio e da un pubblico titubante, incerto su come comportarsi. Tornerà volentieri (e in massa) in teatro? o lo coglierà la paura? Vedremo.
Per ora non resta che esercitare la propria pazienza, mettersi in attesa degli eventi e approfittare di ciò per riflettere un poco sul teatro, costruire progetti e tentare nuove vie.

È difficile presentare Cesare Lievi: regista di prosa dalla fine degli anni '70, dagli anni ’80 attivo anche nella lirica e direttore di teatro. Lei si considera un regista di prosa o di lirica?
Mi considero un regista tout court, che a volte fa teatro in prosa e, a volte teatro in musica (così mi piace definire ciò che comunemente chiamiamo opera lirica). La parola teatro accomuna infatti entrambe le attività e rende ogni discorso su ciò che le unisce o le differenzia più facile e semplice: il teatro è sempre e comunque teatro, ha le stesse necessità, le stesse regole, le stesse lusinghe. Che poi nell’uno domini la parola e nell’altro sia la musica a decidere il senso della parola, complica un po’ le cose ma non le cambia per quanto riguarda il significato e le modalità del lavoro di un regista.

In questi ultimi anni il ruolo del regista d'opera ha fatto nascere discussioni sul significato che deve assumere la messinscena lirica, e quale sia il rapporto con il contesto musicale da allestire. Qual è la sua posizione, vista anche la sua preferenza a stabilire una relazione stretta con il testo, il libretto?
Nel teatro musicale, libretto e musica sono un’unità assoluta. Non si può privilegiare uno a danno dell’altra. Li si deve prendere come una forma unica, indissolubile, e fare i conti con essa. Da lì bisogna partire per interpretare e dare forma visiva e plastica a un’opera. È un obbligo, è chiaro, ma non è detto che il risultato sia un calco pedissequo di quanto è dettato dal libretto e dalle didascalie. Anzi. Il testo vero, come unità di musica e parola (e proprio grazie alla forza metamorfica della prima) va ben oltre il semplice significato di un discorso: il suo senso è ambiguo, a volte evanescente, a volte incredibilmente esplicito anche se lontano da quello comune, a volte confuso, ma è lì che il regista deve muoversi e indagare per creare le sue visioni. Ed è lì che devono continuamente trovare giustificazione le sue invenzioni, anche quelle più strane e apparentemente stravaganti.

Nella conversazione pubblicata nel libro-intervista Un teatro da fare (Morcelliana 2017) si accenna al testo come "reperto" lasciato intatto nel tempo: ogni testo teatrale, scrive, è al passato, la messinscena però è al presente e instaura con esso un dialogo, rivivificandolo. Inoltre spiega che non bisogna compiere l’errore di interpretarlo peccando di "hybris". Cosa intende, precisamente?
Ogni testo, ogni opera è qualcosa di dato, di precedente alla sua messa in scena. Può essere di un’epoca recente (è ciò che accade con i testi contemporanei) oppure lontano nel tempo. In ogni modo è qualcosa di passato e, a suo modo, compiuto. Metterlo in scena significa inserirlo nel flusso del presente. I cantanti o gli attori, infatti sono ‘di adesso’, così il regista, il direttore d’orchestra ecc. Il loro modo di sentire e pensare è ‘di adesso’ e così è anche il pubblico che vi partecipa. Assistiamo quindi, ogni volta che partecipiamo a una messa in scena, a una sorta di incontro-scontro tra qualcosa che è ‘passato’ (e a volte, perché no?, morto e sepolto) e qualcosa che è ‘vivo’, palpitante e presente in cui l’arbitro, o meglio: colui che decide le modalità del suo svolgersi e del suo divenire, è proprio il regista e il suo lavoro.
Per quanto riguarda la ‘hybris’ (inteso come peccato di prepotenza e superbia) intendevo l’atteggiamento di alcuni registi che, consapevoli dei mezzi che il genere teatro mette a loro disposizione (un regista in teoria può muovere un testo come desidera, fino a fargli dire il contrario di quello che dice) ne approfittano, completamente indifferenti, non dico alla fedeltà alla lettera, in sé angusta e pericolosa, ma anche alla fedeltà, più profonda e interessante, allo spirito.

Guardando alla realtà culturale e teatrale di tradizione tedesca, potremmo definire il Suo progetto teatrale come ispirato dal concetto che Gotthold Ephraim Lessing, nella sua Drammaturgia amburghese (1767-1769), definisce "tipico"? Ossia caratterizzato dall’universalità intesa come raffigurazione concreta di un carattere individuale con implicazioni socialmente più ampie di quelle che connotano un singolo individuo?
Lessing agisce e scrive da teorico e autore. Il suo fine è dare vita a un teatro illuministico e borghese, attento alla individuazione di caratteri particolari in grado di assumere, all’interno di una complessa compagine sociale, un valore più ampio e universale, così che lo spettatore o il lettore possa intravedere, rispecchiandosi, la propria realtà privata e collettiva.
Un regista, in genere, non si pone questo problema, ma nel caso in cui si cimenti con opere di tale concezione (e questo è stato il mio caso) non può non tenerne conto e magari, fortemente influenzato, riproporlo inconsapevolmente in opere ben lontane da quelle di Lessing e dell’Umanesimo Classico.

Si sta introducendo qua e là nel teatro italiano la figura del drammaturgo mutuata dal Dramaturg del teatro tedesco. Vista la sua esperienza al di là delle Alpi può spiegare qual è la sua funzione?
Il Dramaturg (da non confondere con ciò che in italiano si definisce drammaturgo, l’autore cioè di testi teatrali) è una figura organica e funzionale al sistema organizzativo e produttivo del teatro tedesco difficilmente inseribile, per quanto riguarda le sue funzioni, nella nostra realtà.
Fa parte della direzione e collabora con il direttore all’indirizzo artistico del teatro, alla decisione delle stagioni e alla formulazione dei cast. Crea e compila il programma di sala, oltre a curare i rapporti tra il teatro e il suo pubblico. Con i registi (ospiti o stabili) può essere di aiuto e di sostegno nella individuazione di un Konzept di regia, mettendo a disposizione il suo sapere (di solito è laureato in Storia della musica o del teatro), informando sulla lettura critica dell’opera presa in esame, aiutando nella traduzione se il testo è in lingua straniera, proponendo tagli, varianti ecc. Durante le prove può essere presente e magari, in caso di crisi tra attori, cantanti e regista dare il suo contributo a una soluzione condivisa. Insomma: le sue funzioni sono varie, complesse e molto utili se si vuole produrre, oltre che spettacolo, cultura e sapere.

Nel campo operistico dobbiamo ricordare alcune Sue regie: La clemenza di Tito di W. A. Mozart (Francoforte 1989), Parsifal di R. Wagner (spettacolo inaugurale della stagione scaligera 1991-92 con la direzione di Riccardo Muti), La Cenerentola di G. Rossini (Zurigo 1992), Ariadne auf Naxos di R. Strauss (Zurigo 1993), Gesualdo di A. Schnittke (Vienna 1995), L’anello del Nibelungo di R. Wagner (Teatro Bellini, Catania 2000-2002), I due Foscari (dir. Muti, Milano, Scala 2009). Nel 1997 ha curato la regia di Cenerentola di G. Rossini al Metropolitan di New York che viene ancora riallestita; nel 2002 ha diretto Cecilia Bartoli in Nina, o sia La pazza per amore di Giovanni Paisiello e nel 2004 la stessa con Ruggero Raimondi ne Il Turco in Italia di Gioachino Rossini una produzione dell'Opernhaus di Zurigo (queste ultime due opere pubblicate anche in DVD). Qual è la produzione che preferisci ricordare?
Mi è molto difficile ricordarne una. Hanno avuto tutte la loro storia, hanno causato tutte fatica e piacere, aperto nuove vie e chiuso definitivamente vecchi percorsi. Ma certamente la più interessante, per la modalità in cui è avvenuta, è stata Il Gesualdo di Alfred Schnittke, all’Opera di Vienna (1995) con la direzione di Mistislav Rostropovich. Questi, per due mesi, non mancò a una prova. Sedeva tranquillo e in silenzio accanto a me. Osservava ogni cosa. Anche il più piccolo particolare. Cercava di capire ciò che si andava costruendo. Interveniva raramente e, se lo faceva, era del tutto a proposito: “se tu in scena fai avvenire questo, io in orchestra farò così”, ripeteva spesso, spingendosi fino al pianoforte. Insomma: cercava di realizzare una collaborazione intensa, profonda e vera. Alla fine palcoscenico e orchestra funzionarono all’unisono. I cantanti agirono e cantarono sicuri sia dell’azione sia della voce. Il pubblico guardò e ascoltò felice, soddisfatto.
Il teatro si fuse con la musica senza esserne mortificato e la musica fece lo stesso con il teatro: grande successo. Successo vero.

Lei doveva rientrare sui palcoscenici italiani grazie alla messa in scena di Sposo di tre, marito di nessuna, una farsa in tre atti di Cherubini, prevista ad aprile 2021 per l’apertura del Maggio Musicale Fiorentino, poi spostata al gennaio del 2022 causa Covid. Nel frattempo ha realizzato, sempre per il Maggio, un'opera di Donizetti, Linda di Chamonix, che ha avuto una fortuna altalenante nei palcoscenici lirici. Come è stato l'avvicinamento a questa opera?
Linda di Chamonix non è un’opera facile da mettere in scena per la presenza di due registri (il buffo e il drammatico) non sviluppati o giustificati drammaturgicamente.
È come se fossero due opere in una. Come in Arianna a Nasso ma, al contrario che in quest’ultima, senza intenzione e volontà dichiarata. Quasi si volesse più compiacere il pubblico con inserti divertenti che sviluppare una forma nuova, una nuova modalità di racconto.
Mi sono concentrato soprattutto sulla vicenda e sul rapporto fra le figure del dramma (e dell’opera buffa) evidenziando il loro carattere borghese, le loro relazioni fasulle o presunte, le loro ipocrisie, il loro conformismo, la loro obbedienza all’ordine (il prefetto, sempre in scena, guida e controlla tutto), la loro povertà, la loro miseria.

Del resto Linda, come ogni eroina donizettiana che si rispetti, perde immediatamente la ragione. La sua non è una pazzia patologica, ma una specie di autodifesa contro i mali del mondo. È in parte un dramma borghese come molto teatro tedesco dello Sturm und Drang da lei praticato, la avvicinerei alla Brocca rotta di von Kleist o ad alcuni drammi di Goethe. È d’accordo?
Ci metterei anche Emilia Galotti di Lessing, per rimanere in questo ambito.
Tutte queste storie sono molto lontane da noi. Le regole morali che le sottendono, facendole drammatiche se non addirittura tragiche, non valgono più, per cui, a uno spettatore moderno, appaiono incomprensibili se non addirittura assurde. È impossibile attualizzarle e trasportarle a piè pari ai nostri giorni a meno che non si voglia compiere due mistificazioni contemporaneamente: una nei confronti dell’opera che viene letta in modo avulso dal suo tempo; l’altra nei confronti del nostro tempo che viene interpretato e rappresentato con vicende e storie che non gli appartengono. Meglio vedere e leggere tale repertorio a debita distanza. Molte cose si capiscono e si vedono meglio da lontano che da vicino.

La precarietà della situazione teatrale e musicale italiana imporrebbe scelte razionali che non riguardano solo l’aspetto finanziario. Di che cosa è ammalato il sistema teatrale italiano? e quali i rimedi?
Penso, e non credo di esagerare, che il giocattolo ‘teatro’ si sia rotto, non funzioni più. Certo esiste, produce, si muove, ma è sempre più isolato, più relegato in un non-luogo. Non se ne sente la necessità. La vita, la società lo ha come espulso. Sui giornali se ne parla poco, la televisione mira a farne al massimo un evento, qualcosa di speciale, un fuoco d’artificio che subito si spegne, nella vita quotidiana, nei suoi discorsi è del tutto assente. La situazione, e il Covid l’ha esasperata, è disastrosa. Mi chiedi cosa si può fare. Non lo so, è la mia risposta, non lo so proprio.

Federica Fanizza

Ultima modifica il Lunedì, 06 Settembre 2021 08:22

Articoli correlati (da tag)

Questo sito utilizza cookie propri e si riserva di utilizzare anche cookie di terze parti per garantire la funzionalità del sito e per tenere conto delle scelte di navigazione. Per maggiori dettagli e sapere come negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie è possibile consultare la cookie policy. Accedendo a un qualunque elemento sottostante questo banner si acconsente all'uso dei cookie.

Per saperne di più clicca qui.