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INTERVISTA a LUCA VERDONE - di Pierluigi Pietricola

Luca Verdone Luca Verdone

Luca Verdone è un artista che, senza alcun dubbio, Alberto Savinio annovererebbe fra i dilettantisti. Coloro, cioè, che dotati di possenti ali, seppur lievi come quelle di una farfalla, sanno attraversare i vari generi artistici senza imprimere in ciò che fanno la pesantezza che deriva dallo specialismo esasperato.
Luca Verdone nel panorama dello spettacolo ha affrontato con grande qualità ogni genere. Egli è regista cinematografico e teatrale (sia di prosa che di opera lirica), documentarista, scenografo, sceneggiatore e dramaturg. Ogni suo lavoro si regge su un equilibrio frutto di approfondite riflessioni e una ricerca filologica che mai diviene pedante, accigliata.
Come raggiungere questa misura che, mutatis mutandis, richiama alla memoria la precisione delle pagine critiche migliori di Giovanni Macchia? Quali le ‘muse’ a cui il nostro artista si è rivolto? E chi sono gli intellettuali, i registi e i drammaturghi presi come modello di riferimento?
Di questo e molto altro abbiamo conversato insieme con Luca Verdone, nel corso di una calda e placida mattinata romana.

Partiamo da una caratteristica che contraddistingue l’intero tuo profilo professionale: l’ecletticità. Sei un artista che, con grande competenza ma al contempo con leggerezza, affronta la regia cinematografica, la documentaristica e la regia teatrale. Da dove proviene questa tua versatilità?
Sicuramente sono stato avvantaggiato dall’esempio di mio padre, che dopo una laurea in Giurisprudenza e un’altra in Scienze politiche, è divenuto uno dei più importanti studiosi di arti visive, di cinema e di spettacolo. Mio papà si interessava di tutto, era una persona curiosissima. E di sicuro ho assorbito questa atmosfera, portandola nei lavori che via via sono venuto realizzando nella mia carriera.

È venuto prima l’interesse per il cinema o per la storia dell’arte?
Si è trattato, nel mio caso, di interessi contemporanei. Già tra il 1969 e il 1970, con la mia Super-8, facevo le mie prime riprese. Ricordo che con due miei carissimi amici – Arturo e Rodolfo Bonucci – fondammo una società e realizzammo insieme documentari sull’arte di Roma; in particolare ne rammento uno dedicato ai cimiteri e che intitolai Il riposo dell’uomo.

Quindi osservare quotidianamente una persona eclettica come tuo papà è stato determinante?
Il suo esempio è stato certamente fondamentale. Anche lui realizzava documentari. Casa nostra era un vero e proprio cenacolo frequentato, oltre che da registi cinematografici molto importanti, anche da intellettuali prestigiosissimi.

Quali ad esempio?
Impossibile rammentarli tutti uno ad uno. Ma io ho un bel ricordo di Angelo Maria Ripellino, uomo straordinario e di immensa cultura.

Che tipo era sul piano personale Ripellino?
Un uomo molto compito, elegante, con dei baffetti neri e una capigliatura folta e ben pettinata. Sua moglie, Ela, era una bella donna bionda. Ripellino e mio padre furono molto amici. Si intendevano alla perfezione.

All’università hai studiato Storia dell’arte.
Sì, con Cesare Brandi. Straordinario critico e teorico del restauro. All’università lui e Argan erano due veri e propri miti. Ricordo che le lezioni di Brandi erano fantastiche. Al di là di un uso della lingua preciso e colto, ci catturava il suo modo di illustrare e commentare le varie opere.

Usava un metodo particolare?
Brandi era solito proiettare la diapositiva di un dipinto. Poi, di particolare in particolare, ce lo illustrava con una ricchezza che lasciava tutti noi strabiliati.

Si dice che Brandi avesse un carattere difficile.
Era un uomo abbastanza scontroso. Però, al contempo, era generoso e anche dolce. In più occasioni si andava insieme ai Castelli Romani a pranzo. In più, anche lui, fu grande amico di mio padre. Entrambi senesi, fu Brandi che fece incontrare Mario con mia madre. Quindi gli sono legato anche per questa ragione.

La visione dell’arte di Cesare Brandi ti ha influenzato?
Direi di sì. Ma, in generale, per l’arte ho sempre avuto una grande passione.

Come mai non ti sei dedicato anche alla critica d’arte?
In un certo senso l’ho fatto realizzando dei documentari sulla storia dell’arte. Ne ricordo, ad esempio, uno su Paolo Uccello che feci insieme con Corrado Cagli.

Chi è il tuo pittore preferito?
Paolo Uccello, senza alcun dubbio. È straordinario il modo con cui egli ritrae le figure, ma anche l’uso che fa dei colori. Non ho alcuna esitazione nel vedere in Paolo Uccello molta dell’arte moderna che è poi seguita.

Prima hai nominato anche Giulio Carlo Argan.
Non l’ho mai avuto come professore. Però studiai sulla sua celeberrima storia dell’arte. Ho stima di Argan anche se, a dire il vero, sul Futurismo ebbe delle opinioni che non ho mai condiviso.

Perché?
Perché le consideravo, e sono rimasto di questa opinione, frutto di un’ideologia di sinistra preconcetta. Questo, a mio avviso, era un limite di Argan ma che nulla toglie al suo grande valore come uomo di cultura. Però io credo che un’opera d’arte vada considerata per ciò che è, per ciò che vale in sé e per sé, senza lasciarsi influenzare da ideologie di qualsivoglia parte politica.

Cosa ti colpisce di più dell’arte in generale?
La visività. Io adoro la visività.

Nella tua ultima regia teatrale, Carmen – che ha inaugurato la stagione al Bellini di Catania e che io ho visto e recensito proprio per «Sipario» – questo emerge chiaramente.
Sì, hai ragione. Ti ringrazio per averlo notato. La mia recente regia di Carmen è precisamente la summa del mio credo artistico.

Prima di parlare del tuo credo artistico avrei una curiosità da chiederti: quando e come è nata in te la passione per il teatro?
Quando andai a vedere La locandiera diretta da Luchino Visconti. Fui folgorato. Quella versione della pièce goldoniana per me ha rappresentato, e rappresenterà, l’essenza del teatro.

Cos’aveva di particolare?
Ricordo che Visconti fece realizzare da Tosi una scenografia ispirandosi a una natura morta di Morandi. Ovviamente anche l’impostazione drammaturgica e registica erano eccezionali. Un connubio unico, magico. E insieme a questo lavoro di Visconti ne metterei un altro che ha contribuito a far crescere la mia passione per il teatro: L’anima buona di Sezuan di Brecht per la regia di Strehler. Altro immenso capolavoro.

Quando è stata la tua prima volta da regista teatrale?
Da giovanissimo. Io e mio fratello Carlo fondammo un gruppo di teatro composto da studenti e col quale mettemmo in scena un atto unico di Ingmar Bergman, Pittura su legno. Io feci la regia e mio fratello interpretò il personaggio di Jons, il fido scudiero del protagonista, il cavaliere muto Antonius Block.

Ti piace di più il teatro di prosa o il teatro d’opera?
Col teatro d’opera mi diverto certamente di più. Trovo stimolante soprattutto un particolare nell’opera lirica: e cioè che la musica comanda sulla scena. Per cui tutto quello che si evince – sul piano sia emozionale che interpretativo – dalla partitura, lo si deve trasferire, in termini drammaturgici e di regia, sulla recitazione degli interpreti e la scenografia. Questo mi affascina immensamente.

C’è una pièce teatrale che vorresti realizzare e che ancora non ti è riuscito di mettere in scena?
Mi piacerebbe moltissimo realizzare la regia di un’opera di Goldoni che adoro: Una delle ultime sere di carnovale.

Perché proprio questo lavoro e non, per esempio, La trilogia della villeggiatura?
Senza nulla togliere alla Trilogia che è un capolavoro, trovo che Una delle ultime sere di carnovale rappresenti al meglio il momento che stiamo vivendo, così pervaso da una superficialità e una mancanza di gusto artistico e culturale che francamente non mi piace.

Cosa c’è che, a tuo avviso, non è positivo del tempo che viviamo?
Io non sono un pessimista, però trovo che ci sia un appiattimento, un inaridimento dei valori umani. E questo non va bene. Non va bene per niente. Occorre studiare, nutrirsi del ‘bello’ per saper stare al mondo, guardarlo, viverlo e percepirlo in modo consapevole e non come dei robot.

Quando inizi a lavorare su una regia teatrale, di prosa o opera lirica, da dove inizi?
Io vado a sensazione. Il mio scopo è quello di dar vita ad uno spettacolo che sia semplice, essenziale ma potente nei contenuti. Ogni mio regia si rifà ai canoni della pittura del Seicento: dettagli amplificati ma inscritti in una cornice di essenzialità: un’immagine semplificata, per dirla in modo ancor più semplice. L’insieme di questi due aspetti deve dar vita ad uno spettacolo leggero nel senso con cui intendevano questa parola Alberto Savinio e Italo Calvino. Inoltre grande importanza, per me, hanno i tendaggi. A loro è deputata una funziona che reputo essenziale: rappresentare lo scorrere del tempo sulla scena.

Chi è il tuo attore teatrale preferito?
Fra i contemporanei non alcun dubbio: Massimo Popolizio.

Il tuo drammaturgo preferito?
Sicuramente Carlo Goldoni. Chi meglio di lui ha rappresentato, in Italia ma non solo, la decadenza dell’uomo e dei suoi valori?

In che modo, a tuo avviso, un giovane dovrebbe avvicinarsi alla regia teatrale?
Partendo dai classici. Inutile affrontare gli autori contemporanei senza prima possedere una serrata conoscenza dei classici. Quindi a un giovane direi: inizia da Sofocle e, pian piano, arriva a Brecht.

Pierluigi Pietricola

Ultima modifica il Lunedì, 20 Luglio 2020 09:58

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