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INTERVISTA a LUCA TIEPPO - di Michele Olivieri

Luca Tieppo Luca Tieppo

Luca Tieppo, Pianista & Compositore, Fondatore e direttore artistico di MMD – Music Management for Dance, Luca attualmente vive a Birmingham, Regno Unito. Dopo essere stato Head of Pianists alla Elmhurst School for Dance, ora lavora come pianista e Musical Director freelance per compagnie di balletto e opera. Con alle spalle una carriera trentennale nelle performing arts, Luca ha collaborato con alcuni fra i più prestigiosi teatri d’opera europei, come il Teatro Carlo Felice di Genova, Opéra de Monte-Carlo, Opera Bergen (Norvegia), il Rossini Opera Festival di Pesaro, e compagnie di balletto ed Accademie, quali la Scuola di Ballo dell’Accademia del Teatro alla Scala, la compagnia dell’Arena di Verona, Matthew Bourne New Adventures, European Ballet, New English Ballet Theatre ed altri. Luca ha anche lavorato per un lungo periodo a Londra dove ha potuto collaborare con la Royal Academy of Dance, Rambert, Urdang Academy, Arts Ed, e numerose altre istituzioni. Come compositore, Luca Tieppo ha vinto, tra gli altri, il Milano Milhaud e l’Ottorino Respighi. Nel 2012 ha fondato come Musical Director la T‧ArT Productions, per lo sviluppo e la creazione di nuovi progetti di opera e teatro musicale e attualmente sta lavorando a Così fan Tutte – Il Remake.

Carissimo Luca, tra le molteplici attività in campo musicale, una molto importante votata al mondo della danza e del balletto è quella di maestro pianista accompagnatore. Luca in concreto diamo una spiegazione tecnica del ruolo ai nostri lettori?
Mi scuserai, Michele, se inizio subito col voler chiarire meglio la mia attività, ma uno degli obbiettivi che in MMD ci siamo prefissi è proprio quello di fare un “rebranding” della professione del pianista per la danza, che, nello specifico, ha più la funzione di “collaboratore” che quella di “accompagnatore”. Esistono altre professioni pianistiche in cui definire il ruolo come “accompagnatore” può risultare più funzionale, ma nel caso della danza abbiamo davvero una dimensione collaborativa. Il musicista infatti trasforma un’indicazione verbale del docente nella dimensione temporale, ritmica e sonora che chiamiamo “musica”, dalla quale poi tutto parte. E visto che il docente e il musicista si occupano ognuno di aspetti indipendenti ma intimamente connessi, ecco che la loro relazione non può essere altro che collaborativa. Senza dimenticarci che un ottimo musicista può rendere bellissima una lezione modesta, come viceversa naturalmente.

Come ti sei avvicinato al mondo musicale?
Fin da piccolissimo amavo creare o variare melodie, e fare musica piuttosto che replicarla è sempre stata una mia dimensione congeniale. Mio padre poi era tenore e aveva avuto una carriera breve ma dignitosa, quindi studiare musica era uno sbocco piuttosto naturale e scontato in famiglia.

Cosa ha comportato la scelta di essere un musicista di professione?
Beh, una scelta alla fine scontata; non esiste professione semplice, o esente da problemi, quindi io ho preferito seguire il mio istinto e quella che sentivo essere la mia vocazione, anche se in famiglia la cosa fu parecchio osteggiata, credo anche in funzione delle delusioni professionali di mio padre.

Milanese trapiantato in Inghilterra, c’è un autore in particolare oppure una partitura che ti fa sentire a casa?
Io ho metà della mia vita legata all’opera e al teatro musicale e l’altra metà legata alla danza. Senza dubbio qui in UK (ma un po’ ovunque io abbia vissuto...) mi sento a casa quando lavoro con l’opera italiana e le voci liriche.

Chi sono stati i tuoi maestri?
Ho studiato alla Civica Scuola di musica di Milano (ora Claudio Abbado) negli anni d’oro della gestione Marzorati, di cui sono stato per parecchio tempo anche rappresentante degli studenti e organizzatore dei concerti. Mi sono diplomato in pianoforte sotto la guida di Luisella Minini e ho studiato composizione con Angelo Corradini, Ivan Fedele, Sylvano Bussotti ma ho fatto una quantità immensa di esperienza cameristica e di accompagnamento strumentale (ecco ad esempio una professione in cui il termine accompagnamento mi risulta più congeniale). Ero davvero come il prezzemolo, e questo mi ha formato parecchio, perché ho potuto apprendere da tantissimi docenti di ogni strumento.

Mentre quelli ideali?
Ho il rimpianto di non aver potuto studiare con Bernstein... ma non me lo sarei probabilmente potuto permettere.

Qual è il tuo primo ricordo legato alla musica da allievo?
Che sembrava avessi veramente talento. La mia prima insegnante, con cui sono stato solo per il propedeutico, si adoperò parecchio per farmi passare ad un certo insegnante di sua fiducia, io con solo altri due suoi allievi più grandi.

Mentre da professionista?
Il primo stipendio della Scala, con cui mi sono comprato la prima moto! In generale, mi ha sempre molto affascinato scoprire il mondo del teatro e le innumerevoli professioni pianistiche ad esso legate.

Come mai hai iniziato a suonare uno strumento musicale, in particolare il pianoforte?
Ho sempre voluto fare il compositore, era il mio sogno da bambino, e se sono quello che sono, nel bene e nel male, lo devo proprio al mio essere creativo. Quindi il pianoforte era lo strumento più congeniale. Inoltre all’esame che facevano in Civica i bambini di 6/7 anni dopo un primo anno solo teorico, mi dissero che il mio mignolo era troppo corto per gli strumenti ad arco ed ero troppo piccolo per quelli a fiato: restava il pianoforte.

C’è stato un momento particolare in cui hai capito che l’attività musicale sarebbe stata parte importante ed integrante della tua esistenza?
Al secondo anno di università. Già avevo ripiegato su filosofia da fisica, e mi pareva solo di continuare a posticipare la classica decisione: “Cosa vuoi fare da grande?” Quindi ho dato il mio ultimo esame di Teoretica, e ho chiesto alla docente, che mi aveva appena dato trenta, come le era sembrato. Quando ha risposto “brillante” l’ho ringraziata: alla fine avevo la conferma che con metodo e impegno avrei potuto ottenere risultati importanti in diversi campi, e allora tanto valeva seguire la passione. Almeno non ho rimpianti!

La Scala di Milano, raccontami come ci sei arrivato, gli incontri più importanti, le collaborazioni e le soddisfazioni nel lavorare in un luogo così ricco di fascino e di storia?
Grazie alla Civica e alla mia capacità di improvvisare. La mia prima collaborazione col Teatro fu col “Pollicino” di Henze come pianista in orchestra, ruolo importante perché la partitura era pensata per il Cantiere di Montepulciano e prevedeva un pianista e un violinista concertanti e tutta una serie di strumenti davvero particolari, tipo cromorni e flauti a becco. La produzione fu affidata all’orchestra della Civica, per due anni di seguito. Lì ebbi anche il piacere di conoscere personalmente Henze. Successivamente il Teatro cercava un giovane pianista da inserire nella Scuola di ballo e fu fatto il mio nome da uno dei docenti della Civica, per la mia capacità di improvvisare. Io però, dopo aver mollato filosofia, stavo facendo il militare e non ero disponibile, quindi mi proposero di ripresentarmi a settembre all’inizio dell’anno scolastico. Così feci ma ormai l’opportunità era sfumata... La Signora Prina però mi propose di cominciare a collaborare con una loro docente che teneva dei corsi per professionisti a Dimensione Danza (una certa Loreta Alexandrescu che mi pare tu conosca molto bene Michele...). Tutto andò davvero per il meglio e a febbraio ero sotto contratto anche in Teatro.

Bene appunto con Loreta Alexandrescu, cara amica in comune e autorevole docente di danza classica alla Scuola di Ballo della Scala, come si è sviluppata nel tempo la collaborazione?
Come ti accennavo, Loreta è la persona che mi ha introdotto al mondo della danza e con la quale ho passato alcuni mesi di lavoro bellissimi. Non solo abbiamo iniziato a pensare ad un progetto editoriale specifico, ma consigliai addirittura, a quello che all’epoca era suo marito, che moto comprare (una Kawasaki GPZ 600 me lo ricordo ancora...) Fu anche la persona che, senza battere ciglio, mi consigliò di lasciare Milano e accettare la proposta che mi veniva fatta dall’Opéra di Montecarlo pur sapendo che avrei dovuto lasciare il lavoro con lei dall’oggi al domani (mi chiamarono il giovedì per iniziare il sabato). Mi disse: “È un’occasione che non puoi perdere, accetta!”

Qual è il momento più emozionante che ricordi della tua carriera musicale, non solo per la danza ma anche nel campo lirico e concertistico?
Domanda difficile perché ogni professione musicale che ho svolto ha momenti topici, ma direi la volta che, da compositore in forza ai “Pomeriggi Musicali”, andai alla Sonzogno a presentare dei lavori, fra cui proprio il progetto che stavo elaborando con Loreta. Mi misi al pianoforte, senza sapere che era quello di Mascagni, e cominciai a suonare. Notai un certo interesse ma era il nostro primo incontro quindi non insistetti troppo: salutai e lasciai i miei recapiti. Mentre uscivo dalla bellissima e storica sede di via Bigli sentii qualcuno corrermi indietro. Era la Signora Ostali, la direttrice della Casa Editrice e la madre di Piero, l’attuale responsabile della Sonzogno, la quale mi chiese: “Maestro, ma ha qualcos’altro da farci sentire!?”

Chi sono i pianisti a cui oggi riconosci l’eccellenza?
Altra domanda difficile: caratterialmente faccio fatica a fare classifiche di merito, mi incuriosisce l’eccellenza in sé e non amo il culto della personalità. Quindi resto rapito dai grandi del passato a partire da Arturo Benedetti Michelangeli nel classico o Keith Jarrett nel jazz, ma anche dalle nuove generazioni che trovo abbiano avuto più merito perché sono riuscite a ritagliarsi uno spazio al sole creandosi un’immagine diversa ed originale pur suonando lo stesso repertorio. In altre espressioni musicali questo non è avvenuto, vedi la lirica ad esempio.

Mentre tra i compositori?
Tasto dolente, perché la composizione per me ha una forte connotazione sociale, in quanto espressione del proprio tempo. Ritengo personalmente che la maggior parte dei compositori viventi di estrazione classica abbiano perso il contatto con la società in cui vivono per entrare in un loop di perenne confronto con il passato, e quando parlo di passato intendo anche quello delle avanguardie storiche. Questo per me è un grosso limite, perché si è completamente persa la funzione sociale del compositore. Non si prova più a dare una risposta alle domande fondamentali del fare musica, ma ci si accontenta di scrivere per una nicchia minuscola di pubblico e senza il trascendente dell’idea, dell’utopia, senza l’accettazione della società per quella che è, i risultati sono sempre un po’ modesti.

Il talento a tuo avviso come lo si riconosce?
Dalla facilità e dal sorriso nel fare le cose. Con l’impegno e un minimo di capacità si può arrivare anche a risultati d’eccellenza, ma il talento è l’espressione di una naturale predisposizione, che quindi risulta semplice e fluida nel suo esprimersi.

Tutti abbiamo avuto da piccoli un mito o una figura di riferimento, a chi ti ispiravi dei grandi del passato?
Non amando le classifiche, a tutti e a nessuno: il mio mito di bambino era il compositore nella sua essenza più che il singolo artista. Sono sempre stato più attirato dal materiale, inteso come gestione della musica, che dalle personalità individuali, anche perché ritengo che sia il materiale che trova la propria espressione migliore in uno specifico artista, piuttosto che il contrario. Quando il materiale si esprime in maniera così perfetta ed equilibrata in Bach, come in Mozart, in Verdi come in Puccini o in Prokofiev, ma anche nei Beatles o nei Pink Floyd piuttosto che in altre espressioni culturali, io resto affascinato delle capacità camaleontiche del materiale stesso. È un po’ come cercare di cogliere la ragione stessa dell’empireo, comprendere e definire lo stupore. Se questo stupore poi arriva da Mozart, piuttosto che da Chopin alla fine a me poco cambia.

Quali sono le qualità che un giovane deve possedere per intraprendere gli studi musicali?
Per me la musica ha una funzione sociale, è un ottimo mezzo per socializzare, una grande compagna di vita e amica, qualcosa che non ti farà mai sentire solo. Quindi studiare musica non dovrebbe essere vissuto come qualcosa legato ad una particolare “qualità” o “predisposizione” ma ad un investimento per la propria esistenza. Cantare in un coro, ad esempio, dovrebbe essere una cosa obbligatoria soprattutto durante il periodo scolastico, anche solo per imparare il tuo ruolo all’interno di un gruppo. Discorso diverso per chi vuole affrontare la professione. Estrema sincerità nel definire il “proprio talento”, abnegazione consapevole, determinazione e soprattutto il piacere di donare qualcosa di se stessi agli altri. Senza una qualche forma di edonismo e di esibizionismo fare il musicista funziona poco ed è fonte perenne di frustrazione. Devi amare veramente il donare se vuoi essere credibile: se poi lo fai non per ricevere consenso ma perché donare è nella tua natura direi che stai facendo la professione giusta.

Un momento indimenticabile della tua carriera?
Ho avuto la fortuna di poter vivere tantissime professioni teatrali e musicali diverse, quindi di esempi ne avrei parecchi, dal piacere di dirigere (anche se solo in prova) la EUYO l’orchestra giovanile europea per un evento in Sala Nervi col Papa, a vivere il Festival di Sanremo dall’interno. Anche come “uomo di teatro” ne avrei parecchi di momenti indimenticabili da raccontare, come quella volta che dovetti sostituire a Fiesole, dalla buca del suggeritore, Escamillo nell’interno del terzo atto di Carmen, che si era dato dopo una recita disastrosa. Ma un momento davvero indimenticabile è stata l’esecuzione di un mio lavoro per il gala di fine anno con la Enescu, l’orchestra nazionale rumena nella stupenda cornice dell’Athenaeum di Bucarest. Sentire la mia musica (tra l’altro dedicata ad una pianista e ad un ballerino di flamenco) reggere il confronto a fianco dei grandi classici del concerto di Capodanno, in una cornice così prestigiosa e bella, è qualcosa che difficilmente si può esprimere.

Il ruolo di docente come lo vivi, qual è il nutrimento che ne trai e quali linee guide applichi al tuo metodo di insegnamento?
Avendo scelto da ragazzo di lavorare in teatro, ho dovuto fare una scelta professionale ed escludere finora il ruolo di docente, nell’accezione tradizionale del termine, dalla mia vita. Non ho mai avuto una cattedra in conservatorio né l’ho cercata, ma per tanti anni ho preparato una moltitudine di cantanti e di compagnie ed ero anche piuttosto noto in questo. Il mio approccio è sempre stato la ricerca perenne di una dimensione oggettiva delle cose nella soggettività di ogni interprete. È una concezione più frutto di una visione compositiva che esecutiva del materiale, in cui si cerca la ragione profonda delle scelte di un autore e per cui si privilegia la dimensione trascendente su quella razionale e culturale, che comunque deve far sempre da supporto. Tutto parte dal presupposto che anche i grandi compositori erano interpreti di loro stessi; le indicazioni agogiche e dinamiche che noi leggiamo negli spartiti sono state dettate loro dalla musica che componevano. Provare ad entrare in quelle dinamiche, in quelle necessità espressive è una cosa che mi affascina e che cerco di far partecipe chi studia e lavora con me. Comprendo bene che in un momento storico dominato da “Beethoven, Chopin, Mozart, Verdi volevano questo!” una tale impostazione può risultare spiazzante, ma in realtà Beethoven, Chopin, Mozart, Verdi non volevano questo o quello, ma che quella musica rendesse al meglio e replicasse anche in altri la dimensione creativa in cui si era manifestata in loro.

Hai lavorato Luca per prestigiose realtà, come l’Opéra di Montecarlo, i Pomeriggi Musicali, il Carlo Felice, a Marsiglia, l’European Ballet, il Ballet Theatre UK, per approdare oggi alla scuola del Royal Ballet di Birmingham giungendo alla conclusione che il rapporto danzatori/musicisti dovesse concretizzarsi al meglio, con più sinergia. Ci sei riuscito nell’intento e in quale modo?
Stai elencando alcune delle realtà in cui ho avuto il privilegio e la fortuna di poter lavorare, caro Michele, ognuna oltretutto con un ruolo diverso. Dal Maestro collaboratore al coro dell’Opéra di Montecarlo al compositore per i Pomeriggi, dal maestro di sala, al maestro al ballo, da pianista di compagnia per l’Arena o l’European Ballet fino a capo dipartimento alla Elmhurst. Oltre ad avermi permesso di vivere in tantissime realtà e paesi diversi, ognuna di queste esperienze mi ha fatto capire come ogni professione musicale necessiti di un approccio mentale ed esecutivo peculiare che ora vorrei cominciare a insegnare ai giovani. E proprio potendo fare un parallelo fra le diverse professioni pianistiche e il rapporto che nasce fra i professionisti che sono rispettivamente coinvolti, mi sono accorto come fra danzatori e musicisti fosse necessaria una maggiore conoscenza reciproca per creare la giusta sinergia. Per questo motivo è nata la MMD.

Quanto lavoro c’è dietro una composizione musicale?
Dipende: se è una commissione devi prima capire esattamente cosa ti viene richiesto e cosa devi mettere in luce. Le esigenze del committente possono essere diverse dalle tue, prima vanno capite e poi adattate alla tua poetica, tenendo conto che scrivere musica per immagini ad esempio è completamente diverso da scrivere musica vocale, strumentale, teatrale o per la danza. Se invece il progetto è più personale e artistico, io almeno cerco di partire da un’idea che mi incuriosisce e che ritengo possa incuriosire anche altri, esecutori e pubblico. Dopo di che mi costruisco una gabbia dentro la quale lavorare e solo alla fine inizia il processo creativo vero e proprio.

L’attività concertistica è un mondo affascinante, ma contemporaneamente anche difficile?
Senza dubbio, e la componente caratteriale gioca un ruolo predominante. Io ho scelto di vivere fin da subito il mio strumento negli aspetti legati alla produzione teatrale, facendo intensa attività concertistica, ma sempre legata al mondo del teatro e della produzione. Nessun ripiego rispetto al solismo – mi sono diplomato in maniera molto brillante – ma la consapevolezza fin da giovanissimo di non amare suonare da solo, memorizzare, essere legato alla pagina scritta. Poi ho scoperto, entrando in teatro, il fascino delle varie professioni pianistiche con la possibilità di vivere suonando ogni giorno e mi si è aperto un mondo di possibilità, che continua ad affascinarmi anche oggi dopo quasi trent’anni.

Come bisogna predisporre l’animo per comporre od eseguire?
Sono cose completamente diverse: la predisposizione richiesta è differente, anche quando si esegue la propria musica. Per quanto possa sembrare strano, la musica non ti appartiene, anche se l’hai scritta tu, è un’entità autonoma che ti detta la sua dimensione, la sua veste migliore. Tu sei il primo che la esegue, questo è vero, ma i presupposti esecutivi restano identici a quelli che si affrontano con altri autori. Nel caso del comporre invece, almeno per quanto mi riguarda, mi viene svelata una dimensione musicale già presente in potenza, che mi fa capire subito se quello che sto elaborando è coerente o meno (ed è una sensazione molto forte che non ti saprei descrivere altrimenti), mentre quando eseguo la necessità comunicativa diventa predominante, come la responsabilità che ho nei confronti di musica di cui sono, in quel momento, l’unico depositario.

In un momento difficile come quello attuale quale valore acquisisce insegnare la bellezza attraverso l’arte?
C’è gente bravissima ad insegnare la bellezza attraverso l’arte, ma io sono ad uno step precedente; mi interessa insegnare ad essere curiosi, a cercare il bello dove il bello magari non è ancora stato codificato. Resto sempre incuriosito dalla forza del bello acerbo, quello ancora non definito o istituzionalizzato, perché è il bello più autentico, quello più sincero. Per questo mi affascinano le proposte delle nuove generazioni, perché ritrovo nel loro cercare il “proprio” bello la stessa dimensione di stupore che probabilmente hanno vissuto coloro che oggi consideriamo “classici”. E questa pandemia l’ha mostrato chiaramente: la capacità di fare arte delle nuove generazioni, di sapersi adattare, divertire, esplorare le potenzialità di questa situazione drammatica è stata infinitivamente superiore alla risposta delle altre generazioni, più propense ad intonare il miserere per il cambiamento in atto, piuttosto che cavalcare l’onda ed esplorare questa nuova dimensione temporale e sociale.

La musica classica è per te superiore agli altri generi musicali? Che musica ascolti Luca nel tuo tempo libero?
Tocchi un tasto davvero dolente, caro Michele, perché per me la musica classica non è altro che la musica europea bianca del passato. Rispecchia una concezione sociale, culturale, mentale molto chiara che vede nella dimensione contemplativa ed estatica una dimensione superiore. Questo rinnegare la carnalità della musica, la catarsi liberatoria della fisicità, oggi mostra tutti i suoi limiti e sarebbe arrivato il momento di prenderne atto in maniera maggiormente consapevole. Non esiste quindi, almeno per me, musica superiore o inferiore, ma solo musica più o meno efficace al contesto per cui è pensata. Per quanto riguarda l’ascolto, facendo musica tutto il giorno ascolto di tutto ma tendo a non ascoltare se non devo farlo; e lo faccio consciamente. Cerco di preservare la “verginità” del mio orecchio il più possibile, non voglio abituarlo ad un concetto preimpostato, perché finirei per cercare lo stesso concetto ovunque, perdendo anche la flebile speranza di intuire il senso del bello che i miei contemporanei vedono in quello che io magari non ho mai ascoltato. So che è una mera illusione, ma gli ascolti dei grandi geni del passato erano infinitivamente inferiori dei nostri e questo non ha impedito loro di essere quello che oggi veneriamo. Quindi qualche perplessità riguardo ad un certo ascolto compulsivo l’ho sempre avuta a cui si aggiunge una sana idiosincrasia per un certo intellettualismo, che oggi mi pare più controproducente che altro.

Quali sono le tue opere liriche preferite?
È la relazione fra musica e teatro che mi affascina, la resa drammaturgica, quindi anche in questo caso mi diventa difficile fare una classifica. Diciamo che musicalmente ci sono vette incredibili, tipo Otello, Falstaff, Schicchi, Carmen, Ballo, Don Pasquale, Don Giovanni, Nozze, Traviata, Rigoletto, Boheme, Tosca, Cenerentola e potrei continuare davvero a lungo. Ma poi c’è la questione teatrale, la messa in scena, lo spettacolo nel suo complesso e qui le cose cambiano alquanto. Come dimenticarmi di una “Theodora” di Haendel in allestimento contemporaneo o del “Don Quichotte” di Massenet nella regia di Faggioni o della Traviata in una full immersion in cui il pubblico cenava a casa di Violetta, che ho firmato come Musical Director in una produzione romana per il centenario verdiano? Oppure invece le produzioni che ho potuto curare qui in UK, sempre come Musical Director, per il più noto Teatro d’Opera Fringe che c’è a Londra? Produzioni diverse, alternative, inaspettate, ma che hanno potuto dare una ventata di nuovo ad un ambiente a volte davvero museale, vincendo addirittura, nel caso dell’opera fringe, un Olivier Awards.

Mentre sul versante danza, cosa ami in particolare?
Più o meno lo stesso. Musicalmente non puoi restare indifferente ai grandi classici, Prokofiev su tutti almeno per quanto mi riguarda, ma poi gli spettacoli che mi restano nel cuore sono altri, tipo il “Roméo et Juliette” di Berlioz con la coreografia di Amodio e Roberto Bolle fatto in Arena o “The red shoes” di Matthew Bourne con cui ho avuto il piacere e privilegio di lavorare qui in UK, oppure le creazioni del “New English Ballet Theatre” con cui ho collaborato come compositore.

Le letture che ti hanno accompagnato e magari ispirato a cosa si rifanno?
Leggo troppo e troppo poco: troppo perché ormai il mio astigmatismo è arrivato a livelli preoccupanti, troppo poco perché ultimamente terminare un libro mi risulta difficile. Comunque fra i classici, amo molto Hesse e Bulgakov, di cui sto leggendo proprio ora “Memorie di un giovane medico”, memore di quel capolavoro che è “Il Maestro e Margherita” che mi aveva ispirato l’idea, da ragazzo, di scrivere un’opera a puntate. Ma in realtà ho una lettura compulsiva molto random con un grande amore per la divulgazione scientifica e storica, come per la vela, i motori (moto soprattutto, ma ora anche sidecars) e molte altre cose. Insomma sono un lettore disordinato che spilluzzica qui o là!

Cosa ne pensi Luca della musica non scritta per la danza ma che poi viene usata dai coreografi trasformandola il più delle volte in capolavori performativi di grande impatto estetico?
Che ritrovare la caducità del gesto artistico, quel essere unico e irripetibile è un valore straordinario in un momento storico come quello di oggi, bulimico nel voler fissare e tramandare ogni istante, ogni parola o concetto. Fissare poi diventa spesso sinonimo di sacralità, perché presuppone la volontà di ripetizione pedissequa, e di tramandare un unico concetto, e ha portato noi musicisti classici ad essere schiavi della carta, costretti al non essere quando manca quel supporto. Che libertà rendersi conto che la musica può essere a volte solo “espressione funzionale”, finalizzata esclusivamente al momento emotivo estemporaneo. E se proprio abbiamo bisogno di fissare qualcosa, i supporti per farlo, oltre alla carta, oggi non mancano davvero.

Con il tramite della danza e della musica si può raccontare al meglio anche la propria vita, la propria sensibilità, i propri tormenti o gioie?
Chi scrive o crea racconta sempre se stesso, non ha alternative se vuole essere sincero. Non puoi raccontare qualcun altro, puoi solo raccontare un altro tuo io.

Ora Luca apriamo un capitolo dedicato interamente al progetto MMD? Ti lascio spazio per raccontarlo al meglio e nello specifico?
MMD è l’acronimo di “Music Management for Dance” ed è un progetto nato nel 2018 dopo il “Corpo nel suono”, la conferenza mondiale dedicata espressamente alla musica e ai musicisti per la danza e che si tiene ogni anno a Roma presso l’Accademia Nazionale. L’esperienza inglese mi ha mostrato molte differenze rispetto al mondo coreutico italiano ed europeo, tipo l’utilizzo codificato e frequente di Syllabus e di raccolte specifiche pensate per la lezione di danza, un uso del repertorio e dell’improvvisazione un po’ diverso, una concezione stilistica più variegata, la normale presenza, nelle scuole e nelle accademie, di dipartimenti pianistici con un responsabile. Ma mi ha anche mostrato come la conoscenza reciproca fra musicisti e danzatori fosse comunque carente a prescindere da dove si lavorasse. I due mondi dialogano poco, mancava una realtà che facilitasse questo dialogo, mettesse in luce la profonda interazione che c’è fra il mondo coreutico e quello musicale ma lo facesse dal punto di vista musicale. Mi sono accorto che questa intenzione era condivisa e sentita anche da altri colleghi presenti alla conferenza, come Massimiliano Greco, il Principal Pianist dell’Académie Princesse Grace di Montecarlo, Sandro Cuccuini uno dei nostri più noti e quotati freelance e Luca Mais che veniva da esperienze internazionali davvero importanti come il “Wiener Staatballet” o “Les Ballets de Montecarlo”. Insieme, dopo una bellissima cena, abbiamo creato MMD. Ma ci siamo accorti in breve tempo che se volevamo dare una risposta credibile che creasse una nuova interazione fra il mondo musicale e coreutico noi per primi ne dovevamo essere l’immagine e abbiamo allargato il nostro board anche all’altra parte della mela, accogliendo due personalità prestigiose come Nicoletta Cabassi per il contemporaneo e Stefania Di Cosmo per il classico. Abbiamo quindi diviso l’attività in tre sezioni diverse. La prima finalizzata all’aspetto culturale, storico, informativo, educativo che noi portiamo avanti tramite le nostre pagine nei social. La seconda finalizzata alla presentazione di master class e seminari dove la profonda interazione fra il docente e musicista è il tratto caratteristico e dominante. La terza finalizzata all’innovazione, di cui magari faccio un cenno specifico più avanti. Creare MMD ci ha permesso di avere una piattaforma dedicata a tutti gli aspetti legati alla musica per la danza, tramite la quale intervistare e presentare ad esempio compositori contemporanei per balletto, o i direttori d’orchestra, o mettere in luce con blog storici i compositori per il balletto del passato (stiamo terminando di pubblicare un bellissimo saggio su Drigo di Irina Sorokina e presenteremo a breve uno su Pugni di cui quest’anno cade il 150simo della morte) oppure la visione e la loro relazione con la musica di alcuni docenti o direttori di compagnia (Loreta Alexandrescu ed Ernst Meisner ad esempio) oppure come viene pensato e composto un Syllabus della RAD o le nuove tendenze musicali legate alla lezione di danza e molto, ma molto altro.

Mentre #FridayFeeling come è concertato e a chi è destinato?
Questa è una rubrica suggerita da Massimiliano Greco, destinata a docenti e coreografi con l’intento di proporre balletti o musica per la danza originale o poco nota di grandi compositori. Moltissimi autori hanno scritto per danza, ma spesso sono composizioni marginali che si perdono dentro ai loro cataloghi; Massimiliano per la “Princesse Grace” è sempre alla ricerca di materiale nuovo da proporre e, col passare del tempo ha costruito un archivio di proposte davvero interessanti, a volte delle vere chicche inaspettate.

Nel progetto Music in Movement, qual è l’approccio metodologico e gli argomenti trattati?
È la seconda sezione di MMD, quella che si occupa di proporre masterclass, summerschool e seminari, ed è stata concepita per presentare un modello diverso, nel quale un docente e un musicista collaborano fattivamente fin dall’inizio. Abbiamo diverse moduli: quello dedicato all’analisi della lezione di classico, quello dedicato alla comunicazione fra danzatori e musicisti, quello dedicato alla musica applicata alla danza, quello dedicato al repertorio. Ogni modulo è dedicato espressamente a docenti e musicisti, ma prevede anche la presenza di giovani danzatori. In quello dedicato alla lezione di classico ad esempio, si analizzano le conseguenze fisiche, emotive, dinamiche dell’uso di una certa musica o di uno certo stile dentro la lezione: un Plié in 5 o un Rond de jambe in 2 (come si usa in Cecchetti), tanto per andare sul pratico. In quello dedicato al repertorio, si introduce la figura del direttore d’orchestra o in quello dedicato alla comunicazione si analizza la relazione fra il docente e il musicista in base ai 5 assiomi della comunicazione umana applicati al mondo coreutico. Questo sempre tenendo presente il lavoro sinergico fra danzatori e musicisti che è il segno distintivo di MMD.

Hai parlato in un tuo scritto sul web della scoperta della danza nel mondo virtuale, come si combina per tua esperienza?
Stiamo terminando un periodo difficile e drammatico, in cui la danza ha dovuto conoscere una rivoluzione gestionale, culturale e mentale impensabile fino a gennaio, quindi affrontare l’argomento virtuale e l’innovazione tecnologica legata alla danza (terza sezione di MMD) adesso è difficile; la situazione è troppo calda. Il nostro progetto (che doveva partecipare al Bando Europeo di questo aprile ma per l’emergenza stiamo provando a presentare a novembre) non si basava su una situazione emergenziale dove il virtuale ha dovuto sostituire la realtà di tutti i giorni, ma sulla creazione di una dimensione parallela di supporto e di ottimizzazione delle risorse per tutto l’ambiente coreutico e le sue figure. Noi siamo partiti nel 2019, quando parlare di nuove tecnologie nel mondo coreutico risultava ai più straniante, con l’obbiettivo di diffondere l’eccellenza e ottimizzare le risorse, fisiche, temporali ed economiche. Prima del Covid la danza non considerava molto queste potenzialità che, ripeto, devono essere pensate a supporto non a sostituzione; mentre oggi volenti o nolenti tutti hanno preso atto di come la tecnologia abbia permesso all’ambiente di non fermarsi in maniera totale, ma di trovare almeno una qualche dimensione di sopravvivenza.


In Italia da una tua giusta stima sono presenti più di 17.000 scuole di danza registrate, la sicurezza del lavoro per i musicisti di danza viene garantita solo nelle grandi città grazie alle grandi accademie. MMD offre un’opportunità nella virtualità per creare supporto tecnico e accedere alla musica dal vivo per coloro che la richiedono, giusto?
I numeri italiani e il tipo di approccio formativo sono simili un po’ ovunque, anzi noi viviamo in un paese piccolo, in cui diverse eccellenze sono abbastanza distribuite sul territorio, al contrario dell’Inghilterra ad esempio, in cui hai Londra con qualche sporadica eccezione. Quindi nel mondo della danza, per necessità anche abbastanza evidenti, la differenza fra la grande città o capitale e “il resto” anche in termini di opportunità ed eccellenza formativa è molto evidente. Per quanto riguarda la musica dal vivo poi, è sostanziale. Quante volte mi capita, durante le summerschool, di vedere giovani ballerini che non hanno mai visto o interagito con un musicista dal vivo e che ti guardano persi cercando di capire cosa sei lì a fare. La tecnologia può rendere capillare invece la presenza anche sporadica della musica dal vivo ovunque, ma anche dell’eccellenza formativa in senso più ampio. Il nostro progetto è strutturato per rispondere alle esigenze di ogni figura professionale del mondo coreutico, rendendo le strutture tecnologie idonee alle esigenze peculiari del nostro mondo, mentre durante questa pandemia è stato il mondo coreutico che si è dovuto inevitabilmente adattare alle piattaforme esistenti.

Hai anche parlato di latenza, cosa intendi nello specifico Luca e come si pone MMD?
Il problema della latenza va molto al di là di quanto possa fare MMD, è un problema insito nell’attuale tecnologia che stiamo utilizzando e che, finché non verrà introdotto il nuovo standard 5G possiamo solo cercare di limitare. Anzi, a scanso delle tante polemiche sull’argomento, posso dire che esistono studi incoraggianti anche per limitare la latenza a livelli praticabili con l’utilizzo della fibra ottica, ma siamo ancora in un momento di test. Comunque la latenza attuale rende estremamente complicato poter lavorare con musica dal vivo, anche perché le piattaforme che stiamo usando non sono pensate per l’uso coreutico, ma senza allargare la banda diventa impossibile introdurre tutte le innovazioni tecnologiche su cui stiamo lavorando per le altre figure professionali, docenti in testa, tipo l’intelligenza artificiale o addirittura gli avatar (lo step precedente all’ologramma) che permetterebbero la materializzazione reale della persona in sala. Lo so che può oggi sembrare fantascienza ma Facebook è nato nel 2004 e Whatsapp nel 2009.

MMD è un collettivo di musicisti e ballerini, il progetto di cui sei direttore è stato studiato per coinvolgere tutte le figure professionali che operano nel settore: musicista, insegnante, ballerino e coreografo. L’interazione tra danza e tecnologie innovative come viene recepita?
Essendo un progetto nato per essere di supporto non di sostituzione, e per ampliare in maniera esponenziale le opportunità, direi piuttosto bene! Già ora tantissime istituzioni hanno compreso, proprio a causa di questa pandemia, le immense opportunità dal punto di vista didattico e formativo (ma anche artistico) che le nuove tecnologie possono apportare al mondo coreutico e molti hanno deciso di affiancare alla tradizionale programmazione didattica e formativa anche un supporto virtuale.

La danza combina ed eleva le dimensioni fisiche e spirituali, MMD propone un Umanesimo tecnologico, in che senso?
La danza è l’espressione più alta dell’essere uomo, perché coniuga in maniera equilibrata sia la fisicità al suo meglio, che la spiritualità e l’emotività più profonda. Mettere le nuove tecnologie, spesso percepite come disumanizzanti, a servizio di quest’arte straordinaria per amplificarla, portarla ovunque e renderla più accessibile a tutti rende il nostro progetto un unicum. Molto raramente i progetti legati alle nuove tecnologie sono legati all’arte e alla cultura mentre, nel nostro caso, il progetto è proprio incentrato su questo e mette l’uomo, invece delle cose, al centro di tutto. Per questo è stato definito “umanesimo tecnologico”.

Come siete organizzati in MMD e quali risposte avete ricevuto fino ad oggi dalle istituzioni?
MMD è un collettivo di danzatori e musicisti il cui motto è “Working Together for the Artists of Tomorrow”, con un board decisionale diviso in maniera assolutamente egualitaria in tutto. I vari progetti vengono discussi e approvati collegialmente e il fatto di essere un collettivo di musicisti e danzatori italiani, ma in realtà operanti in diversi paesi europei, ci permette di apparire come una realtà neutra, internazionale, non faziosa, personalistica o autoreferenziale. Questa neutralità e questa impostazione che mette musica e danza sullo stesso piano, ci ha permesso poche settimane fa, ad esempio, di far sedere intorno ad un grande tavolo virtuale, il gotha del mondo coreutico italiano in tutte le sue diverse anime: la produzione, la formazione, la creazione e l’informazioni, perché il Covid è una realtà che colpisce tutti e lo scambio di opinioni e strategie diventa l’unica risposta possibile. Quindi si sono ritrovati insieme a discutere Frédéric Olivieri con Enrica Palmieri piuttosto che Francesca Bernabini e Marco Tutino, oppure Valentina Marini con Gabriella Furlan-Malvezzi, Maurizio Bellezza, Bruno Carioti, Amalia Salzano, Giovanni Di Cicco, Raffaele Irace e naturalmente il board di MMD. L’iniziativa è stata così apprezzata che tutti ci hanno chiesto di rifarla, perché è importante affrontare i vari argomenti in maniera settoriale ma, a volte, davanti ad un problema comune è utile dare una risposta comune o almeno provarci. MMD cerca quindi di mostrare la danza – partendo dal punto di vista musicale – per quella che è, l’unione di tante anime che si devono conoscere e che devono agire in maniera armonica e collaborativa per ottenere il loro meglio, perché questo è il modello che vogliamo comunicare e questo il modello in cui crediamo.

Michele Olivieri

Ultima modifica il Giovedì, 25 Giugno 2020 00:34

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