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INTERVISTA a GABRIELLA COHEN - di Michele Olivieri

Gabriella Cohen. Foto Veronica Mauro Gabriella Cohen. Foto Veronica Mauro

Gabriella Cohen nasce a Torino e si diploma presso il Teatro alla Scala di Milano e al Teatro Bolschoi di Mosca. È stata acclamata interprete di “Giselle”; ideale personificazione delle eroine romantiche, indimenticabile nella trasfigurazione dei suoi cigni. Gabriella Cohen viene riconosciuta dalla critica italiana come “l’erede della grande tradizione del balletto classico italiano”. Una carriera da étoile internazionale, la partnership con grandi danzatori quali Attilio Labis, Patrice Bart, Raffaele Paganini, Vladimir Derevianko, Paolo Bortoluzzi, Marco Pierin, Fredéric Olivieri, Gabor Kevehasi, Peter Breuer e la volontà di recare nel mondo lo stile di danza italiano. All’età di sedici anni partecipa alla tournée europea dei “Giovani Solisti del Bolscioj” ed è la prima volta per una danzatrice italiana; in seguito sarà ospite fra l’altro, del “London Festival Ballet”, dell’“Opera di Budapest”, del “Ballet Royal de Wallonie”, di svariate compagnie europee oltre che di tutti i principali Teatri italiani, svolgendo numerose tournées in Inghilterra, Belgio, Israele, Ungheria, Francia, Germania, Stati Uniti, Porto Rico e Canada. Nei primi anni Settanta si esibisce al Centro per le Sperimentazioni Artistiche di Boissano con il recital “Musica per una Ballerina”. Fra il pubblico lo scultore Cèsar, il pittore Arman e la vedova di Lucio Fontana. In seguito a questo evento il celebre artista della pop art, Andy Warhol decide di ritrarla. “Gonfalone d’Oro”, “Sagitario d’Oro” (1979), “Premio Positano” nel 1973 e, al valore nel 1987 oltre a diversi altri premi e riconoscimenti. Partecipa in qualità di ospite in programmi televisivi italiani, spagnoli, francesi e belgi. Per la RAI fra l’altro ha presentato per due anni consecutivi il Festival Internazionale del Balletto in diretta. Ha riscosso successi come coreografa con “Le Nozze d’Aurora”, “Romeo e Giulietta”, “Coppélia”, “Schiaccianoci”, “Jonathan Livingston” e numerose altre coreografie originali. Attualmente si dedica all’insegnamento poiché intende trasmettere alle nuove generazioni, la tradizione del balletto classico, neoclassico e del repertorio a suo tempo appresa da grandi insegnanti quali Yvette Chauviré, Anton Dolin, Patricia Neary, Assari Plisetzky, Sofia Nicolaievna Golofkina, oltre che dal Corpo insegnante dei Teatri Bolscioj e della Scala. Gabriella Cohen ha dato alle stampe recentemente il suo nuovo libro dal titolo “La danza è bellezza”, un manuale d’arte per giovani danzatori.

Gabriella Cohen

Carissima Gabriella, parlami del tuo nuovo libro intitolato “La danza è bellezza”?
“La danza è bellezza” non è un freddo manuale nozionistico Michele, ma un viaggio dietro le quinte dell’Arte tersicorea, che fa tappa nel mondo della disciplina, per raggiungere il cuore. Affrontando le principali difficoltà tecniche rilevate durante la mia carriera in qualità di danseuse étoile, ho voluto rispondere a quella impellente necessità di trasmettere, ai giovani danzatori e agli appassionati, ciò che per me la danza è stata ed è tutt’oggi: bellezza, tecnica, seduzione... anima! Ho cercato di rilevare cosa si nasconde dietro lo sguardo, il sorriso, le movenze delicate del corpo sinuoso di un ballerino. Il libro è intervallato dalle numerose fotografie di Veronica Mauro, ed è un Manuale d’Arte per giovani danzatori che non vuole essere un compendio per l’apprendimento della danza tecnico-accademica, ma un pegno d’amore che accompagnerà il lettore attraverso i retroscena del rigoroso lavoro di un artista, fino alle emozioni del palcoscenico, nell’interpretazione dei principali ruoli.

Raccontami com’è nato il progetto editoriale?
In un giorno l’ho immaginato, in un altro ancora l’ho disegnato, poi l’ho plasmato, strappato, ricucito, mescolato, assaporato, respirato. In una mattina di sole l’ho dipinto a lunghe e corpose pennellate ad olio e in una sera nuvolosa l’ho tracciato tra le sfumature del carboncino. L’ho riletto come spartito nella musica. E l’ho cancellato e l’ho riscritto. E l’ho amato. E l’ho odiato e poi l’ho amato ancora. L’ho scolpito, l’ho intonato: l’ho ballato e ha preso vita.

Il lettore cosa ritrova pagina dopo pagina?
C’è il mio sentire, c’è la disciplina, ci sono l’amore per l’Arte e quello illimitato e senza riserve per i giovani, talentuosi, impegnati, tesi a superare ogni ostacolo: il nostro Futuro. E ci sono anche quattro persone, Veronica Mauro, Martina Arduino (prima ballerina del Teatro alla Scala), Marco Agostino (solista del Teatro alla Scala), Emilie Tassinari (ballerina dell’Het Nationale Ballet e Houston Ballet), che hanno contribuito a rendere il libro completo posando, ballando, fotografando, faticando e gioendo, per esaudire quel desiderio che avevo immaginato quel giorno: il giorno in cui ho scritto un libro.

Chi vuoi ringraziare in particolare?
Sicuramente mio figlio, Joseph Bacchilega per la Coordinazione, Veronica Mauro per la Revisione e il Progetto grafico nonché per le Fotografie originali. Desidero inoltre ringraziare te Michele Olivieri per le Note biografiche e storiche, e la Maestra Loreta Alexandrescu per la Prefazione.

Ora Gabriella torniamo indietro nel tempo, al 1974, un anno particolarmente importante per il tuo percorso artistico?
Esatto Michele, è stato un anno determinante per me e la mia carriera. Gli sforzi nello studio tecnico ed interpretativo per affinare il movimento e la mia anima, da sempre votata al Romanticismo, avevano dato grandi frutti che, oltre agli svariati ruoli che mi hanno vista protagonista, finalmente mi vedevano “cogliere” Giselle. Il debutto avvenne appena dopo il diploma col “Ballet de Paris”, nella suite del secondo atto con Patrice Bart, étoile dell’Opéra di Parigi. Dopo alcuni anni riportai in scena quel “pas de deux” sul palco del Festival di Nervi durante il “Gala di stelle” assieme a Michel Bruel. La magia di quella cornice e di quel ruolo resero in me cristallino il sentimento che provo tuttora per Giselle, l’amo enormemente e mi ha ricambiata con lo stesso afflato durante tutto il mio percorso professionale. Non nego che il successo dello spettacolo e della critica ce li sudammo, ma più che per l’ovvia fatica, direi che fu proprio “sudore freddo”!

Che aria si respirava nel dietro le quinte di quella memorabile serata?
L’atmosfera era molto agitata. Era prevista l’entrata di Vassilev e della Maximova, ma la ballerina lamentava un crampo ad una gamba. La preoccupazione di tutto lo staff era palpabile, in quei momenti anche respirare sembra quasi un gesto innaturale ed inopportuno: si vive in un tempo sospeso fatto di pietrificata staticità colma di frenesia. Pur “addestrati” a mantenere il sangue freddo siamo comunque esseri umani e, per quanto si provi ad esercitare un certo distacco cercando di concentrarsi sul proprio obiettivo, il percepire la preoccupazione dell’organizzazione, oltre che l’ovvia pena per la collega sofferente, di certo non alleggerisce l’animo già teso e il crollo emotivo è dietro l’angolo. A cadere nella rete della tensione fu Michel Bruel che, durante un’uscita di respiro intercettò il patron Mario Porcile, il quale passava le intere serate del Festival con noi dietro le quinte, dirigendoci e confortandoci. Il mio partner era stato colto dallo stesso problema della Maximova: tragedia, sarei dovuta andare in scena di lì a poco proprio con lui!

E come andò a finire?
Mario Porcile ci conosceva uno per uno come fossimo suoi figli, e ben sapeva che il clima di quella serata avrebbe potuto creare delle suggestioni nei ballerini. Conscio della professionalità di Bruel e di quanto un ballerino come lui fosse capace anche di grande sensibilità, Porcile comprese subito che in quei momenti ci volessero freddezza e azione. Puntò una mano a mo’ di pistola contro il tesissimo Michel e gli sibilò “O balli o ti sparo!”, spingendolo in scena assieme a me che non ebbi nemmeno il tempo di reagire a quel siparietto tragicomico. Quell’entrata rocambolesca ci ripagò con una performance di grande successo.

In seguito il ruolo tanto amato di Giselle divenne uno dei tuoi pezzi forti?
Il 1974 passò e portò con sé numerose tournée ed apparizioni a Festival e Gala. “Giselle” però scalpitava nel tornare in scena e, dopo un anno da prima ballerina al Teatro Comunale di Bologna, nel 1976 approdai con “lei”, per la prima volta, nella mia città natale: Torino. Al Teatro Regio ritrovai anche Patrice Bart, l’étoile partner del mio debutto, con il quale danzai “Coppelia”, nella versione dell’Opéra di Parigi con le scene ed i costumi di Beni Montresor, portandola poi in numerosi teatri italiani durante tutto l’anno. Il 1976 si concluse, sempre nel teatro sabaudo, al fianco del compianto Paolo Bortoluzzi, per uno spettacolo dedicato a Stravinsky (“Apollon Musagète” di Balanchine e “Momenti”, coreografato dallo stesso Bortoluzzi). “Giselle. Cara e tormentata Giselle. E quanti tormenti ho fatto miei, ogni volta che ti ho rappresentata”.

Raccontami un aneddoto particolare legato a Giselle?
Durante il primo pomeriggio libero a Torino, dopo l’ultima recita di Coppèlia, ero a casa mia intenta a rilassarmi dopo le fatiche della sera precedente. Suonò il telefono ed il ricevitore venne intercettato dal Maestro Bacchilega, che al tempo era il mio agente. Lo sentii solo pronunciare: “Sì, certo... Giselle l’hanno già ballata insieme.” Non mi scomodai più di tanto, felice di riportare in scena la mia amata Giselle, pensai solo a cosa mettere in valigia. Gianni abbassò il ricevitore, vidi quel suo sguardo che, per quanto tranquillo e imperturbabile, fece vacillare il mio entusiasmo. A chiamare era stato un trafelatissimo sovrintendente del San Carlo di Napoli: Carla Fracci si era ammalata. Avevano bisogno di una sostituta. Per Giselle. Per l’intero balletto. L’intero balletto che io non avevo mai provato in quanto fino a quel momento portai in scena la suite del secondo atto di Giselle, ma mai mi ero cimentata nell'intero spettacolo. Avevo due giorni per imparare il primo atto, l'atto della pazzia. E se non impazzii anche io quella notte, fu solo per non disperdere in un atto omicidiario energie preziose! Riuscire ad arrivare a Napoli l'indomani fu un travaglio: dovemmo scegliere la tratta via Genova perché il traffico aereo era congestionato a causa della nebbia che imperversava sul nord Italia. Ciò mi fece perdere ulteriori ore, togliendole alla sala prove. Arrivammo a Napoli che ormai il sole era tramontato, non mi presi nemmeno il tempo per poggiare le valigie in albergo che mi fiondai in teatro. Il corpo di ballo stava provando per un'opera. Mi rimanevano: la notte, la mezza mattinata seguente, la sala prove e il maitre de ballet: il meraviglioso Carlos Palacios. Carlos, con l’animo sensibile del grande uomo e l’instancabilità dello splendido professionista, passò con me l'intera notte improvvisandosi nell'interpretazione di ogni personaggio avrei incontrato sul palco l’indomani: dalla madre di Giselle, passando per Bathilde, fino ad arrivare ad Albrecht. Dire che fu prezioso è sminuire l’enorme impegno che affrontò per aiutarmi. Carlos è una persona di rara generosità, un uomo dalla dolcezza indescrivibile e il cui amore per la danza va oltre la professione: la sua è una missione dell’anima. E se è vero che ogni persona che s'incontra sul proprio cammino lascia qualcosa in dono, il regalo di Carlos è uno tra i più preziosi che io abbia ricevuto. L’impegno fu tanto e non venne certo agevolato dalla prova di quel primo atto che ha in sé un'ardua diagonale di ballonées sur pointe. Proprio non mi riusciva, sentivo il piede costretto e rigido. Ogni salto mi risultava così privo di naturale motilità da rischiare di storcermi ad ogni tentativo. Carlos prese in mano la situazione e, forte della sua lunga esperienza, mi disse di tagliare la soletta interna delle scarpette. Rimasi scioccata: come avrei potuto!? Avevo ballato con le Porselli per tutta la mia vita, erano fatte su misura e mai mi avevano impedito dei movimenti! Insistette. Un taglietto qui... un altro lì. Ancora qualche millimetro... ma sì, un altro ancora, finché non ne recisi la metà. Da quella notte, fino alla fine della mia carriera, ho ballato su scarpette dalla soletta tagliata di netto.

Gli anni successivi?
Mi videro impegnata lungo tutto lo Stivale. Tra i tanti spettacoli ci furono: “Les Sylphides” e “La Sonnambula” con Jean-Pierre Franchetti, étoile dell’Opéra di Parigi, “Schiaccianoci” (fra gli altri con Rudy Brians, Michel Bruel, Jean Pierre Laporte, Vladimir Derevianko) in varie versioni, “Scherzo alla russa” con le coreografie di Ricardo Nuñez e “Omaggio a Fontana” (collage d’omaggio all’artista, precedentemente presentato alla televisione spagnola) coreografato per me da Heinz Spoerli, portati al Festival dei due Mondi di Spoleto.

Il 1979 conserva un ricordo dolce e amaro?
L’entusiasmo del ritorno di “Giselle” al Festival di Nervi in coppia con Attilio Labis fu spezzato dalla perdita di mio padre; un uomo splendido, un padre adorato, una persona d’eleganza e di galanteria figlie di tempi così lontani, oggi quasi irraggiungibili, il giovane che seminò lacrime di pace nell’aridità degli anni quaranta e, con fatica caparbia, ne colse i fiori. Fu il mio primo sostenitore e, con quell’amore viscerale per la sua famiglia e, non da meno, per l’arte, mise con naturalezza in pratica il suo genio anche nella mia carriera, di fatto facendomi da manager durante gli anni decisivi, prima di passare il testimone al Maestro Gianni Bacchilega, che mi accompagnò e mi sostenne fino alla fine della carriera.

Parlami di tuo padre, quale empatia tra voi?
Tra noi ci fu un voto di fedeltà reciproca, di totale fiducia scaturita da quel profondo legame d’amore che ci univa e ci unirà per sempre, oltre il tempo, lo spazio, questo universo fisico dove lo penso e lo ricordo, dove non esiste giorno in cui lui non sia con me. Erano passati due giorni da quell’ultimo drammatico saluto. Fu durissima decidere di salire sul palcoscenico ma, proprio in onore di mio padre, per non disattendere quella promessa di fedeltà e caparbietà che ci eravamo fatti, indossai quel costume candido dai lunghi veli, mossi dai fragili respiri di “Giselle” che, assieme ai miei, gridavano sommessi il dolore. Danzai con lui quella sera, danzai con il mio papà.

Cosa conservi dei periodi di perfezionamento presso la Scuola Superiore di Danza Rosella Hightower?
Da quando ho mosso il mio primo passo sulle punte, non ricordo estate d’infanzia e gioventù senza Cannes. Concluso l’anno scolastico o, successivamente, accademico, assieme a tutta la mia famiglia, mi trasferivo nella cittadina francese. Le ferie per me, giovane allieva, non erano propriamente delle vacanze: i mesi estivi, infatti, li passavo alla Scuola Superiore di Danza Rosella Hightower, esercitandomi senza tregua per perfezionarmi. Durante quegli anni le lezioni erano tenute dalla stessa eccezionale étoile e da altri ottimi insegnanti, non solo di tecnica eccellente, ma di sensibilità artistica.

Cosa richiedeva l’essere allieve di Madame Hightower?
L’impostazione e il fine ultimo della Hightower, nel fondare la sua scuola, erano racchiusi nell’approccio pedagogico innovativo, non solo puramente e sterilmente tecnico, ma basato sulla capillare ricerca espressiva ed emotiva dei suoi allievi. Accompagnava alla scoperta virtuosistica personale, attraverso l’evoluzione del ballerino stesso che, seguito minuziosamente, riusciva a perfezionare non solo le sue abilità tecniche, ma anche quelle mimico-emozionali: lo sforzo, la fatica venivano totalmente offuscati dall’enorme dono d’amore che i Maestri infondevano in ognuno di noi.

Che emozioni ti suscitano quei ricordi dopo tanti anni?
Tutt’ora mi commuove riportare quei momenti alla memoria per l’ancora viva emozione che mi suscitano i ricordi, così vividi, così pregni di gratitudine per il grande ruolo che Rosella e la sua scuola hanno avuto nella mia vita, forse non solo di professionista, ma di essere umano. Dopo numerosi anni passati presso la scuola di Cannes, prima da allieva e poi da professionista al perfezionamento, il legame con la Hightower si fece sempre più stretto. Seguendomi nella mia carriera, non era raro che mi rivolgessi a lei per qualche consiglio o rassicurazione: vivrà sempre in me ed i suoi insegnamenti, umilmente, cercherò costantemente di perseguirli ed applicarli.

Cosa ti lega particolarmente in ambito artistico alla Sua figura?
Ero stata invitata al Festival delle Isole Lerins e chiesi consiglio alla Maestra su quale passo a due potessi danzare assieme a Christian Tauielle. Nacque così in lei l’idea di riportare in scena un suo cavallo di battaglia: “Les Soirées Musicales”. Mi assistette passo passo nello studio della coreografia che aveva per lei creato John Taras, sulle musiche di Benjamin Britten. Mancava però il costume adatto, così Rosella mi propose di farlo disegnare e realizzare dal marito, Jean Robier, un artista e un designer eccezionale, dalle doti sartoriali che mi lasciarono senza fiato. Un’incredibile lavoro di stratificazione delle stoffe, senza nulla togliere alle applicazioni di foglie dorate e alla struttura del corpetto di un velluto impalpabile.

Un altro incontro importante è stato quello con Mario Porcile?
Era la stagione 1971-1972 del Teatro alla Scala, prossima al diploma, facevo parte del Corpo di ballo della Scuola, oggi Accademia alla Scala. L’adorato Maestro Mario Pistoni, coreografo del Teatro, diresse quell’anno, tra gli altri, “Il Carnevale degli animali”. Prima ballerina era Liliana Cosi, incantevole Cigno, che noi allieve ammiravamo sognanti dalle file del Corpo di ballo. Con miei sommo stupore ed emozione, travolta da un’inaspettata e precoce responsabilità, il Maestro mi affidò diversi ruoli solistici. Durante una delle numerose repliche tra il pubblico sedeva Mario Porcile, grande appassionato di danza, fondatore del Festival di Nervi, una delle figure più determinanti nel panorama ballettistico di quegli anni. Ma non fu in quel momento che le nostre strade si incontrarono. Fu solo l’anno successivo al mio diploma, decisa a fare il salto nel buio nella libera professione, dopo la gavetta nel corpo di ballo del teatro scaligero, che ebbi l’onore di conoscere il grande direttore artistico e, sulla scia dei suoi ricordi di quella felicissima stagione 1971-1972, nacquero una conoscenza e, poi, l’amicizia che ci hanno accompagnato fino al suo ultimo giorno.

Grazie a lui hai avuto modo di confrontarti con un altro grande ruolo, Kitri?
Mario, in quegli anni, aveva suggellato la collaborazione con il geniale Maestro della fotografia Serge Lido e con la moglie di quest’ultimo, Irene Lidova, critica ballettistica e promotrice, una forza della natura! Legati da stima reciproca, fu proprio nel tour da lui organizzato col “Ballet de Paris” che misi in scena per la prima volta il pas de deux del “Don Chisciotte”, oltre alla suite del secondo atto di “Giselle”, con Patrice Bart. Sapendo che avrei interpretato Kitri, Irene Lidova, non tardò nel prendere in mano la situazione: “Se balli il Don Chisciotte, devi avere un costume all’altezza di questo debutto!”. Volai a Parigi, era quel magico 1974 che mi vide allieva della Maestra Yvette Chauvirè e, spronata da Irene e dalla Maestra stessa, mi venne preso appuntamento in un atelier della città. L’atelier era quello di Irina Karinska, figlia del premio Oscar Varvara, da cui aveva ereditato l’arte, i segreti e le innovazioni sartoriali, oltre che il gusto innato. Conoscere Irina fu un’emozione indicibile, fu come dialogare con la storia immerse nella storia. Tutto l’atelier era impregnato d’arte, di quel profumo che mi era così familiare e che ritrovavo solo perdendomi nei teatri, rincorrendo la scia di memoria e storia lasciata dai grandi che avevano calcato quelle scene. Avvolte dai tessuti e dalle pregiate passamanerie, la percezione era che ogni gesto che si avvicinava al mio corpo col metro o gli spilli fosse il tocco magico che permetteva alla grande sarta di cucire il personaggio sulla personalità dell’interprete. Ogni cristallo che adornava la losangatura del corpetto, ogni balza aggiunta a quel tutù “powder puff”, struttura creata da Varvara, nel 1950, che aveva stravolto le tecniche sartoriali del balletto, ogni nastro, perfino gli elastici “giromanica” erano studiati con professionalità magistrale e sensibilità impareggiabile: l’Arte “applicata” all’Arte. Quel costume poi nel tempo ha subìto delle modifiche per essere usato, negli anni, durante i numerosi spettacoli al fianco di Patrice Bart, Raffaele Paganini, Peter Breuer, Christopher Aponte, ma la base e, soprattutto, il corpetto li conservo ancora.

Mentre del periodo trascorso al Bolshoi di Mosca cosa mi racconti?
Dal 1963 il Teatro Bolshoi aveva aperto le porte a selezionati allievi della Scuola di Ballo della Scala, inviando al Teatro milanese alcuni dei propri studenti di canto lirico, dando così l’opportunità ai giovani più promettenti di poter ricevere una formazione d’eccellenza nei due templi artistici che, per italiani e russi, fino a quel momento erano mete quasi irraggiungibili. Quando superai le audizioni per l’Accademia, venuta a conoscenza del programma di scambio attivato così recentemente, la mia determinazione si fece ancor più ardente.

Quanti anni avevi?
Avevo quindici anni quando entrai all’Accademia della Scala, subito dopo venni selezionata con un’altra collega, Silvia Brioschi, per la borsa di studio messa a disposizione dal teatro moscovita. L’entusiasmo, la felicità, l’enorme soddisfazione non furono mai sopiti dall’estenuante impegno che la disciplina ed il rigore russi imponevano su noi allievi.


Come cambiò la tua vita con il trasferimento in Russia?
Per due anni la mia vita venne scandita dalle sveglie all’alba, date dalla direttrice dell’internato, Alexandra Iosipovna, che passava in rassegna ogni stanza accendendone la luce; dal quarto d’ora in cui, scattanti, bisognava rassettare la stanza e prepararsi per la giornata; dalle dieci ore giornaliere passate in sala, durante le quali il perfezionamento non era basato solo sulla tecnica dei movimenti, ma anche sulla mimica, sul trucco, sull’apprendimento del, per noi nuovo, metodo.

Chi erano le tue Maestre moscovite?
Studiavamo con la Maestra Sofia Nicolaievna Golovkina, direttrice dell’Accademia, oltre che con la grande Maestra Irina Daskova, insegnante assegnata a noi italiane, c’erano inoltre alcuni celebri attori teatrali che impartivano lezioni per accrescere la nostra padronanza interpretativa.

Un’esperienza fondamentale ma anche intrisa dalla disciplina, rigore ed ordine?
Non sentivo fatica. Più oneroso si faceva l’impegno, più i miei sogni divenivano palpabili ed intensi. Avevamo poche distrazioni, tutto il complesso sistema accademico era improntato sulla formazione rigorosa e approfonditissima. Nella Russia degli anni sessanta, l’Arte tersicorea era così sacra che i ballerini, compresi gli allievi, erano percepiti dalle persone come semidei e la nostra responsabilità era quella di non deluderle, di ricambiare l’amore della gente, con il nostro amore e la nostra dedizione per l’Arte. È l’insegnamento che ha forgiato il mio cammino professionale.

E il diploma quando arrivò?
Mi diplomai due anni dopo a diciassette anni, lode suggellata dalla precedente partecipazione, come prima danzatrice italiana, alla tournée europea dei “Giovani solisti del Bolshoj”. Diplomatami anche alla Scala, dopo un anno nel Corpo di ballo scaligero, uno da Solista al “London Festival Ballet” ed un altro dedicato al perfezionamento parigino, venni scritturata come prima ballerina al Teatro Comunale di Bologna nel 1975.

Ogni grande étoile ha danzato la “Morte del cigno”, parlami della tua prima volta in questo ruolo?
La mia prima “Morte del cigno” fu a Roma per il Gala dell’Unicef nel 1978, sotto la guida coreografica di Milorad Miskovitch, che dovette plasmare la mia esecuzione ad hoc, dal momento in cui il palcoscenico consisteva in un quadrato scivoloso di due metri per due. Il Maestro riunì per me le interpretazioni della Pavlova, della Tumanova e di Yvette Chauviré, dando vita ad una coreografia che sentivo davvero cucitami addosso; grande fu l’orgoglio nel portare nei miei passi dei frammenti interpretativo-coreografici della Maestra Chauvirè che, a Parigi, tanto aveva fatto per la mia preparazione dei “due cigni” del “Lago” e del doloroso cigno morente. Ricordo che nel pas de deux del “Lago dei cigni” (II Atto) al mio fianco avevo Frédéric Olivieri.

A livello emotivo come hai recepito tale ruolo?
Il cigno ne “Il carnevale degli animali” è un ruolo in cui la personalizzazione coreografica è indispensabile: non è solo un’esperienza tecnica, ma la completa immedesimazione nella creatura esalante gli ultimi respiri. Da quel lontano 1907, quando la Pavlova lo interpretò per la prima volta nella storia del balletto coreografata da Michel Fokine, non c’è ruolo che più identifichi una ballerina nella sua completezza: il corpo non è chiamato più ad agire secondo “standard” virtuosistici, ma viene interamente votato all’incarnazione. Ogni millimetro del corpo, anche il più remoto e sconosciuto, è attraversato dai fremiti, la pelle s’irradia come vellutata di piume, il candore del cigno, così dignitoso e violato di sofferenza, ammanta i movimenti, ogni gesto, anche il più impercettibile, è trasportato dal flusso della composizione musicale di Camille Saint-Saëns.

Fu sicuramente un grande successo la tua interpretazione?
È una variazione così struggente ed impegnativa, una prova così determinante e introspettiva, che in quel 1978, sinceramente, non credevo di essere ancora pronta a metterla in scena. Tali però furono le insistenze dell’organizzazione del premio, che cedetti. La paura e la sensazione di inadeguatezza furono fugate sì dalla determinazione, ma anche dal grande onore nel ribadire l’annale collaborazione con il Maestro Miskovitch, che seppe non solo operare in modo certosino dal punto di vista tecnico, ma lo fece analizzandomi come persona: ridisegnò la creatura attraverso l’essere umano e non avrebbe potuto farlo nessun altro se non lui, che mi aveva seguita e supportata fin dagli inizi della mia carriera professionale.

Mentre del ruolo di Swanilda in Coppèlia?
Nel 1979 ero ospite del “Ballet Royal de Wallonie”, compagnia con cui ho lavorato molto spesso, ed interpretavo per la prima volta Swanilda in coppia con Jean-Pierre Laporte. Il 1979 è stato l’anno dei debutti e “Coppèlia”, in particolare, mi portò grandi soddisfazioni personali, professionali e dalla critica. Per quanto sia un balletto pantomimico, comico, che si distaccava dai sentimenti drammatici delle opere pienamente romantiche portate in scena più spesso fino a quel momento, l’immedesimazione nella giovane Swanilda, in un certo senso, nacque con naturalezza.

Cosa hai ritrovato di te in Coppèlia?
L’ironia e la spensieratezza che, in realtà, mi appartengono da sempre, ma che è molto più difficile trasmettere arrivando al cuore del pubblico. Per quanto l’aspetto tecnico fosse importante e non sottovalutabile, alleggerire l’emotività interpretativa è spesso più arduo che portare in scena un personaggio drammatico; fu molto interessante mettermi alla prova con un personaggio meno cupo e più giocoso, tanto che poi lo rappresentai molto spesso. La mia prerogativa è sempre stata quella di immergermi nella musica e, attraverso essa, avere la possibilità di dare vita alla più ampia gamma di emozioni.

Ruolo che poi hai anche danzato al San Carlo di Napoli?
Sì era il 1982, ricordo che indossavo un costume nel primo atto, che comprende la prima variazione di Swanilda, disegnato e confezionato da Anna Anni, che curò anche la scenografia. Coreografo era Ugo Dell’Ara, sulle orme della storica coreografia di Arthur Saint-Léon, accompagnata dall’Orchestra del San Carlo sulle partiture originali di Léo Delibes. Il Maestro Dell’Ara, oltre a dirigerci, interpretò anche la parte del Dottor Coppélius mentre, al mio fianco, Franz era portato in scena da Peter Breuer.

Di te Gabriella artista si è sempre sottolineato, in particolare, il rigore?
Sì, è vero Michele, del mio rigore e della mia attenzione particolare per la tecnica, delle ore che dedicavo al perfezionamento e di quelle reminiscenze russe che mi avevano plasmata durante gli anni al Bolshoj ma, come anche spiego nel mio nuovo libro “La danza è bellezza”, l’espressività, l’interpretazione, la mimica vengono dalla prova attoriale che non va assolutamente mai trascurata.

Ora parliamo di Aurora?
Provenivo dal “Romeo e Giulietta” messo in scena al Bellas Artes di Porto Rico, con Raffaele Paganini. L’opulenza naturalistica del luogo, le morbide brezze calde che trasportavano gli effluvi fioriti, durante le serate passate sul balcone della mia camera d’albergo dopo le recite e i colori turgidi di tramonto, che carezzava morbido la favola nei miei pensieri; poi i cieli tersi trapuntati di stelle luminosissime, che brillavano lampeggiando al tempo del frinire delle cicale erano un balsamo che, dolcissimo, stimolava l’immedesimazione: così, spenti i tormenti di Giulietta, nacque la mia Aurora. Il mio debutto ne “La bella addormentata nel bosco” avvenne nell’ottobre del 1979 a Bruxelles. Ero ospite di una compagnia che, da subito, si dimostrò molto affettuosa nei miei confronti.

Come andò il debutto in un ruolo così ricco di sfumature e delicatezza?
Dopo la prima fui travolta dai complimenti sbalorditi per i miei jetés, ne rimasi molto colpita e grata, ma non sapevo che cosa il Corpo di ballo avrebbe architettato per la seconda recita! I miei colleghi sostituirono la bambola che viene deposta, di norma, nella culla dell’Aurora infante, con il peluche di un canguro. Esilaranti furono i dietro le quinte quando, nei camerini, tra le risate e le forcine, si levò un: “Parce que vous avez si bien sauté, à votre première!” (Perché hai così ben saltato, alla tua prima!). È un episodio che ancora oggi mi fa molto sorridere e che mi ha sempre riconfermato che le mie scelte professionali furono per me vincenti: la mia condizione di “guest”, scegliendo la libera professione, faceva sì che ad ogni spettacolo entrassi a far parte di una nuova ed accogliente famiglia, priva di invidie o ritorsioni, senza inutili competizioni che danneggiavano non solo i rapporti umani ma, soprattutto, avrebbero minato le performance. Sono stata fortunata e, tornando indietro, rifarei mille volte la stessa scelta. Ho poi portato in scena in molte altre occasioni “La bella addormentata nel bosco”, accompagnata da Raffaele Paganini, Marco Pierin e Vladimir Derevianko.

Nata per la danza... ma quando hai mosso il tuo primo passo?
Avevo tre anni. L’arte nella mia famiglia era pane quotidiano. Mio padre, Jo Cohen, era un commerciante di tappeti orientali col pallino per l’Arte in generale e un grande intuito da mecenate. Se la nostra casa torinese ospitava quotidianamente il via vai di pittori e scultori, Lucio Fontana tra tutti, l’Arte del teatro non era altrettanto così “sacralmente” considerata. A tre anni decisi di essere “la prima Cohen sulla Luna”, accompagnando la mia famiglia nell’esplorazione di quel magico mondo. Così la mia tuta spaziale divenne body e calzamaglia, il mio casco uno chignon sempre saldamente puntato sulla nuca, al posto degli stivaloni, delle tenere mezzepunte rosa.

Quali sono stati i tuoi inizi nella formazione coreica?
Fui così insistente nel perseguire il mio sogno che la Maestra Susanna Egri, nella cui scuola studiava già mia sorella Patrizia, cedette alle richieste dei miei genitori esasperati dalla mia caparbietà, concedendomi prematuramente l’iscrizione. Fui affiancata proprio a mia sorella, la cui permanenza nella scuola fu il mio lasciapassare, e per la mia giovanissima età venni iniziata alla danza prima con esercizi d’espressione e di ginnastica ritmica, poi a piccoli passi alla sbarra.

Cosa rammenti in particolare?
Ricordo precisamente, pur così piccola, che ogni movimento era come se provenisse da un passato vissuto in un’altra vita, mi apparteneva, non lo stavo imparando, lo stavo “ricordando”: avevo trovato la mia dimensione, l’essere imprescindibile, il mio habitat naturale.

Gabriella ci si sente ballerine per tutta la vita?
Esattamente Michele, è così che mi sento tutt’ora: una ballerina! Perché la danza non si fa, “si è”. Quando ho dato l’addio alle scene la mia essenza non è mutata, come si può rinnegare la propria natura? La maturità nella danza si manifesta in un percorso che porta alla consapevolezza: l’Arte è uno spirito guida generoso, che non toglie, ma reinterpreta le opportunità. Ed è con questa consapevolezza che l’Arte reinventa l’amore. Mutandolo, rinnova il suo pegno e, quando il fisico dignitosamente ritira il proprio movimento dal palco, rimane la necessità di tramandamento. Questo è ciò che mi fa sentire pienamente, naturalmente, un’insegnante.

Cosa ti appassiona nel ruolo di Maestra?
L’urgenza implacabile di trasmettere ai giovani allievi e agli amanti di questa splendida Arte ciò che ho ricevuto in dono quel giorno che, sotto la suola delle piccolissime mezzepunte, ho percepito il suolo lunare.

Naturalmente non possiamo tralasciare un altro dei tuoi grandi ruoli, Odette/Odile?
Porto “Il lago dei cigni” in un posto speciale del cuore. Nel 1972, quando mi diplomai all’Accademia della Scala, interpretai il pas de deux del secondo atto come “passo d’addio” prima di entrare nel Corpo di ballo e, da lì, iniziare la carriera, poi proseguita nella libera professione. Mi capitò spesso di incarnare Odile/Odette sul palco. Ricordo Montreal, luogo in cui, per la prima volta, danzai per l’intera recita. Si trattava di una difficilissima produzione cubana, sotto la guida del Maestro ripetitore Azari Plisetsky, con cui non vedevo l’ora di lavorare. Ricordo che fino all’ultimo non comunicarono la mia presenza durante la tournée canadese. Quando finalmente lessi, nero su bianco, il mio nome nel cast fu un’emozione indescrivibile.

Variazioni che nel tempo hai proposto in numerose serate di gala?
Tante furono le serate di gala in cui venni accompagnata nei passi a due da partner quali, i più frequenti: Jaen-Pierre Laporte, Michel Bruel, Peter Breuer e poi Attilio Labis, “padre” e Maestro, Raffaele Paganini, amico e collega insostituibile, Marco Pierin, dalla dolcezza e dalla simpatia capaci di allietare tutte le sfiancanti tournée che ci hanno visti protagonisti, Frédéric Olivieri, dallo stile inconfondibile che trasudava quella francesità che mi riportava a Parigi ad ogni passo mosso assieme.

Cosa richiede in particolare interiorizzare il doppio ruolo di Odette/Odile?
Richiede degli sforzi fisici e psicologici imponenti, tanto che sono i primi personaggi che decisi di “abbandonare” alcuni anni prima di lasciare i palchi. I sentimenti, la duplicità emozionale, lo sconvolgimento che scaturiscono dall’intersecarsi dei due ruoli, nonché la prova fisica hanno comunque lasciato in me, per sempre, un enorme senso di appagamento. Odette e Odile sono due fragili e controverse creature che mi hanno regalato soddisfazioni impagabili.

Un ruolo meno noto ma degno di citazione è quello di Frigia in Spartacus?
Frigia, moglie di Spartaco, lo danzai durante il passo a due per la coreografia di Pertti Virtanen, che aveva messo a disposizione la sua arte per me e Jozo Borčić. Fu l’unica occasione in cui ballai assieme al premier danseur croato che, oltre alla sua eccellente professionalità, mi ha lasciato impresse la sua irruenza e la sua gestualità, stoiche e di forza marmorea, tipiche del rigore e della passionalità della sua terra, travolgendomi e trascinandomi in un pas de deux di grande emozione mimica ed interpretativa. Ad accompagnare ed enfatizzare le sensazioni, la musica: l’eccezionale composizione del Maestro Chačaturjan che, anni prima, nel 1954, gli valse il Premio Lenin, era in grado di penetrare le fibre e far vibrare l’anima riuscendo a farci calare naturalmente nella tragedia dei personaggi a cui davamo vita sul palco.

Che ricordi hai del tuo primo costume di scena?
Lo ricordo perfettamente assieme alle primissime Porselli (marchio storico che mi ha accompagnata per tutta la carriera). Avevo tre anni e pochi giorni dopo mi esibivo per la prima volta su di un palco, guidata da Susanna Egri, Maestra fondatrice della scuola di Torino dove ho mosso i primi passi come già ricordato poco sopra. Partecipavo all’evento “All’anno bambino facciamo un inchino”, spettacolo televisivo messo in onda per Capodanno. Avevo il ruolo di “Anno Nuovo” nello sketch in cui un giovane ballerino, truccato da vegliardo “Anno Vecchio”, mi avrebbe dovuta prendere in braccio per farmi sfoggiare la fascia dell’anno nuovo. I racconti dei miei genitori e della stessa Maestra Egri, mi hanno sempre ricordato della paura che mi provocò l’aspetto di quel danzatore “sfigurato” dal trucco e dei pianti inconsolabili che suggellarono quelle riprese televisive, tanto che dovette sostituirmi mia sorella! Quello che ai miei occhi apparve come spaventoso, divenne poi, crescendo, una presenza insostituibile e stimatissima: il grande e compianto Professor Alberto Testa.

Come poi hai reagito?
Da quel “fallimento” di bambina, però, decisi che mai mi sarei più tirata indietro di fronte alle difficoltà. Così a tre anni, così a quindici, quando approdai nella difficile Mosca degli anni settante e all’Accademia di danza del Bolshoj.

Oggi sei appagata dal tuo mondo di danza in qualità di autorevole docente?
L’insegnamento è il ruolo che ho scelto con enorme felicità, senza alcun ripensamento o rimorso, dopo una carriera e dei risultati che mi onoreranno per sempre. Ed ho scritto proprio il mio nuovo libro “La danza è bellezza” a riprova di quanto l’amore possa essere generoso e donare ad ognuno di noi la capacità di mutare nel tempo. Amo ed amerò per sempre la danza, è in ogni mia fibra, ma oggi la amo ancor di più perché mi ha dato la possibilità di vederla interpretata da ragazzi dall’incommensurabile talento. La danza, è una delle mie ragioni di vita, ed ancora oggi è una forte risorsa.

Parlami dei salti applicati alla disciplina coreutica?
Il salto non è solo un gesto atletico, frutto di anni di disciplina mentale e fisica. Non è nemmeno solo quell’istante che nasce dalla spinta e si conclude nella discesa. Il salto di un ballerino è un’opera d’arte spirituale e muscolare, che stravolge le regole della fisica e infonde il dono del volo in un essere umano. In un attimo etereo l’artista si libra alto, aggraziato, perde la sua forma umana, riempie l’aria del suo essere e la sfiora lieve: è senza peso. Non vengono percepite la staticità e l’impegno fisico, ma la morbidezza naturale del volo, che un’arte così nobile regala a chi la ricambia con amore e dedizione. “Libratevi e non abbiate mai paura di cadere, succederà e sarà il solo modo per rinforzare le vostre ali”.

Spesso hai fatto coppia con Raffaele Paganini, un rapporto artistico di grande e reciproca stima?
Un rapporto di stima e affetto che provo per il suo essere grande artista e grande persona. Potevo contare totalmente sul suo sostegno morale e fisico, che si faceva ancor più affiatato, complice l’amicizia che ci legava e che porto con me preziosamente nel cuore. Da professionisti si è abituati allo stare sotto pressione, è quasi strano non sentire il fremito della responsabilità dietro le buie quinte, solenne, pesante come i tendaggi vellutati del sipario che aprendosi rischiarano la scena, alleggerendo l’animo e i muscoli da tutta la contrazione dell’attesa. Un sorriso, uno sguardo d’intesa, una mano sulla spalla o un’incursione festosa in camerino, nel momento giusto, con lo spirito giusto, sono gesti che sollevano e illuminano l’animo, rendendo il lavoro non solo un compito di responsabilità, ma una missione di bellezza. L’umanità di Raffaele, senza nulla togliere alle sue doti professionali, è sempre stata un balsamo per la tensione della prima. Si impara a mantenersi lucidi e reattivi autonomamente, la determinazione, la preparazione, gli affetti e i Maestri che ti seguono nel percorso professionale sono preziosissimi, ma un partner lavorativo così generoso è un diamante raro!

I tuoi ricordi oggi come sono per il tempo passato a servizio della grande danza?
I ricordi non sono amari, bensì felici e pieni di speranza nel vedere la nostra arte ancora oggi gratificata da professionisti che non dimenticano la propria sensibilità, ma risvegliano la propria umanità nel meraviglioso turbinio che la musica e l’arte imprimono nell’animo, prima che nel gesto muscolare. Siamo persone al servizio della bellezza, siamo umani col privilegio di donare bellezza.

Anche il partneraggio è un’arte non così scontata per tutti?
Durante la mia carriera, tanti sono stati i partner che mi hanno affiancata sul palco. Spesso ho parlato di rispetto, ma non da meno è la fiducia tra i ballerini. Per una danzatrice, a maggior ragione, il rapporto che si crea con il partner è fondamentale, non solo per la buona riuscita dello spettacolo, ma anche per la sicurezza nel mettersi nelle mani dell’altro. Posto che ad alti livelli, tra professionisti, è assai difficile trovare incertezze esecutive, la complicità è determinante, non solo tra persone, ma soprattutto tra interpreti. Calarsi in un ruolo è laborioso, anche se il tempo e l’esperienza rendono il processo di immedesimazione sempre più naturale e istintivo, ma se il proprio personaggio, poi, è interpretativamente legato ad un altro, va da sé che un buon rapporto di intesa professionale rende l’esecuzione molto più sicura, completa, umana, sensibile, sentita. Riuscire a pensare come il proprio personaggio e ad interagire con l’altro nella medesima alchimia, è impagabile non solo sul palco, ma anche per il pubblico che diventa parte del tutto e non solo un fruitore.

Cos’è l’arte per Gabriella Cohen?
L’arte coesiste con l’arte ed esiste grazie all’uomo, al suo moto d’animo, al suo amore, al suo dolore, al suo istinto, alla sua tenacia. Il ballerino imprime i suoi passi sulle note, le sonorità plasmano i suoi muscoli, libra e affonda sui tasti di un pianoforte, scivola sul soffio dei fiati, si tende sugli archi e vibra con loro: è musica, è danza, è arte. La danza non è solo disciplina tersicorea, ma anche arte visiva, che appaga l’occhio, si insinua delle vene e sfocia nel cuore facendo pulsare la bellezza. Gli artisti della “visual art” che ho frequentato e con alcuni dei quali ho collaborato sono molteplici, tra i tanti ci fu Andy Warhol.

Hai avuto modo di essere fotografata anche dal grande Maestro Jack Mitchell?
Esatto Michele, nel suo studio di New York. Nonostante le foto in sala posa, seppe immortalare la dinamicità della staticità, facendomi sentire pienamente una ballerina e non solo una modella. Fuse il suo “sacro fuoco” con il mio e, musicando luci e ombre, catturò l’Arte oltre la mia immagine. Fu una meravigliosa esperienza, sì professionale, ma ineguagliabile sotto il profilo umano.

Un tuo pensiero per il pubblico, indispensabile per ogni artista?
Alla resa dei conti, è lui cui spetta l’ultima parola. E quando scatta l’applauso è una grande soddisfazione. Ci si sente proprio ripagati di tutto quello che si è fatto perché si ha coscienza, per un istante, di aver portato a tanta gente un po’ di gioia e di distrazione dal peso della quotidianità.

La cultura personale quanto è importante per un danzatore, al di là dell’intelligenza del fisico?
La cultura non basta mai! Più conoscenze si possiedono e più si avrà modo di crescere come artisti. Ispirarsi ammirando un Caravaggio, entrare in un’atmosfera iconica guardando un Picasso che riporta inevitabilmente a Roland Petit, ascoltare Gershwin e immaginarsi nella New York di Balanchine, conoscere la realtà politica che spinse Nureyev e Makarova alla grande fuga dall’Unione Sovietica, leggere la “Recherche” di Proust, le lettere di Wagner a Liszt, le “Lettre sur la Danse” di Noverre... e così via all’infinito. Per un danzatore non basta l’en dehors e lo stacco di gamba.

I principi fondamentali da cui non si può prescindere?
Primo fra tutti l’en dehors, quello che io chiamo “the best dancer friend”, dunque l’impostazione del bacino e di conseguenza le caviglie sostenute. Questo è assolutamente basilare, soprattutto nei primi due corsi. Poi la tenuta del busto e delle braccia. Altro punto fondamentale l’armonia della coordinazione braccia/gambe/testa e il lavoro delle mani e dei piedi che sono il “biglietto da visita” di una grande Scuola.

Nicholas Beriosoff cosa ha significato per te?
Del Maestro Nicholas Beriosoff, che affettuosamente chiamavamo “pàpa” ricordo in particolare la creazione della coreografia per quel “Romeo e Giulietta” che vedeva me e Raffaele Paganini protagonisti assieme al “Ballet Concierto di San Juan” con Direttore d’orchestra il Maestro David Coleman. Porto ancora nel cuore e nella mente il ricordo di quei caldi giorni a Portorico, era il 1986, ricchi di emozione, scoperta, affetto: un grande successo! Di quella serata esiste anche uno straordinario girato (di oltre un’ora) effettuato dal M° Gianni Bacchilega con prove, backstage e spettacolo.

Gabriella da qualche mese sei presente anche sui Social Network?
L’apertura della mia pagina Facebook, non nascondo, è stata frutto di una lunga riflessione. Dopo tanti anni di lavoro nella danza, sia come interprete, sia come insegnante, vivo questo affacciarmi ai Social come un debutto. E un debutto è sempre fonte di energia positiva, ma anche di ansia. Calcare le scene dei più grandi teatri non anestetizza le percezioni: ti allena professionalmente ed emotivamente, ma non spegne mai la tua anima coi suoi moti impetuosi, che sono poi ciò di cui il cuore d’artista si nutre. Sono arrivata sulla piattaforma di Facebook, ironicamente “in punta di piedi”: se nella mia carriera le scarpe da punta erano ormai il prolungamento di me, imprescindibili, una sicurezza, questo mio affacciarmi sui Social si è rivelato un terreno più dissestato da affrontare. Ho compreso, però, che è un nuovo mondo da me inesplorato ed io, che un po’ del mondo l’ho visto, non potevo accettare di non conoscere anche questo. Negli anni da insegnante, che mi danno il privilegio di accompagnare sui palchi molte nuove promesse della danza, ho capito che aprirmi a questa visione della comunicazione, così insita nei “miei” ragazzi, è un piacere che non voglio precludermi per paura o “pudicizia social”.

Come stai vivendo e hai vissuto l’emergenza sanitaria per l’emergenza sanitaria in atto?
Quello che noi tutti stiamo vivendo è un momento che ci sta mettendo alla prova, in cui l’animo è scosso e l’umore rischia d’incupirsi. Ognuno di noi è chiamato ad un sacrificio per il bene comune, per alcuni, lo so, è più difficile che per altri, ma tutti noi siamo accomunati dall’impegno nel superare questo triste periodo. Perché lo supereremo; tra poco potremo nuovamente gioire in un abbraccio, nel calore di un bacio, nel sorriso, occhi negli occhi, dei nostri cari, forti tutti di aver contribuito al rifiorire della nostra splendida terra e aver salvaguardato la salute dell’intera comunità. Sosteniamoci l’un l’altro, seppur a distanza. Mettiamo da parte la nostra soddisfazione immediata per far sì che i medici, gli infermieri e tutti i sanitari che, in prima linea, stanno mettendo a repentaglio la propria vita, possano salvare quella delle persone in urgenza e garantire ad ognuno di noi un futuro migliore.

Per concludere, cara Gabriella, quale pensi sia l’atteggiamento più consono da tenere, in ogni campo della vita?
Cerchiamo di dare il meglio di noi Michele, è la qualità del nostro impegno a rendere immenso il risultato.

Michele Olivieri

Ultima modifica il Mercoledì, 29 Aprile 2020 23:56

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