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INTERVISTA a ALESSANDRO HABER - di Francesco Bettin

Alessandro Haber Alessandro Haber

Interprete istrionico e sornione, Alessandro Haber, bolognese di nascita con infanzia a Israele e a Verona, lavora in cinema e in teatro da una vita. Ha lavorato con grandissimi nomi della scena, da Carmelo Bene a Giancarlo Nanni, a Jerome Savary. In cinema, con Bellocchio, Bertolucci, i Taviani, Nanni Moretti, Monicelli, Avati, Veronesi. E’ ora in tournèe con “Morte di un commesso viaggiatore”, di Miller. Lo abbiamo intervistato in una delle tappe venete, a Thiene (Vicenza).
Si parla di sogno americano nel testo, Haber, di dover farcela per forza. Credo che nell’uomo è insita la voglia di ottenere dei risultati, di sognare, che non è vietato a nessuno. Ho sognato anch’io di diventare quello che sono.

Ma lei si sente una persona arrivata?
No, anzi sono sempre in movimento, ogni nuova volta che affronto qualcosa mi piace scavalcare le montagne, cercare le strade più difficili. Riguardo a questo testo era valido ieri, lo è oggi e lo sarà domani. Come tutte le grandi opere che sono ben scritte non hanno un tempo, sono universali. Le cose belle restano. Willy è un piccolo uomo e il suo sogno è più grande di lui, è il lato crudele di un sogno americano, una tragedia moderna.

Una vita illusoria.
Fallisce e non riesce a perdonarsi, e c’è un senso di vergogna. Tutto si svolge in una giornata e lui ha già deciso di buttare via la vita, ha capito che ha sbagliato sia con se stesso che nel rapporto con la famiglia, i figli. E’ un personaggio straziante. E per riscattare i suoi sbagli si ammazza.

Che persona è lei nella vita, Haber?
Come uomo non mi conosco, non so chi sono e non mi interessa. Mi riconosco in questo mestiere, attraverso i personaggi approfondisco ogni volta qualcosa di me stesso. Non posso farne a meno, di questo lavoro, lo vivo come un rapporto sessuale, con passione, voracità. Io sto bene sopra un palco, o davanti la macchina da presa. Non ho mai saltato una stagione in vita mia, e ho fatto personaggi meravigliosi. Posso anche incazzarmi lavorando, uscire ma poi tornare e dire “scusate, ho sbagliato, andiamo avanti”. Tutto quello che succede non è mai per distruggere ma per costruire. Non ho mai abbandonato uno spettacolo.

Dei giovani che fanno spettacolo cosa pensa?
Quando li vedo mi riconosco in loro, mi rivedo quando cominciavo io, e questo mi piace. Come mi piace, se vedo il talento, dare delle possibilità, aiutare.

Come nasce la passione per lo spettacolo?
Ho sempre voluto fare l’attore, fin da piccolino, in Israele, tornando a casa dal cinema mi rimettevo a fare quello che avevo visto sullo schermo. Costringevo i miei genitori, i parenti a subire le mie performances, e questa cosa è cresciuta col tempo. E dopo cominciai ad andare a vederlo, il teatro. E mi iscrissi a una scuola, di Alessandro Fersen, ma dopo un anno sono andato via, quello che insegnava già mi era dentro. E ho sempre alternato teatro e cinema, fin da subito.
Fece anche un’esperienza come regista cinematografico, “Scacco pazzo”. Si’, da una piccola mia idea Vittorio Franceschi ha scritto una cosa meravigliosa, poi si è fatto un film. Quando faccio una cosa, dopo che è finita però mi piace fare altro, anche se adesso non cosa farò dopo questa tournèe.

Ma c’è qualcosa che ricorda con grande affetto, un film, una commedia?
Da tutto mi è stato dato, e ho dato, in un rapporto di scambio. Forse, un film è “Regalo di Natale” di Avati. In teatro, ho lavorato con Bene e Nanni, due grandi nomi.

Rispetto a oggi, anni fa, era tanto diverso il teatro?
Una volta era più multiforme, nel senso che c’erano vari canali, l’avanguardia, il teatro di ricerca, lo sperimentale, varie opportunità. Oggi il teatro non va male, anzi, e poi è l’unica forma di spettacolo che non morirà mai perché la gente ha bisogno di sentirti contemporaneamente, avere il tuo stesso respiro in quel momento, al contrario del cinema che lo si fa adesso ed esce fra otto mesi. Non c’è quella danza che si fa insieme, col pubblico. Nel teatro non puoi bluffare, al cinema ci sono vari accorgimenti, puoi camuffare. Ma non si ha mai la sensazione di “cavalcare la bestia”, non sai mai che tipo di inquadratura c’è, ad esempio. In teatro sei tu che gestisci te stesso, il respiro tuo e degli altri, che ti porta via, per costruire qualcosa di veramente, nel bene e nel male, tuo.

E’ anche una specie di terapia per la vita quotidiana?
Mi aiuta a vivere il malessere della vita, la fine, e me lo fa dimenticare un po’, mi ubriaca. E il reale vero per me è quello, è il lavoro. La mia vita è meno reale. La mia vera fortuna è di avere avuto una figlia, mi ha salvato, mi ha fatto capire cosa vuol dire il senso della vita, dare la vita. Fossi stato senza una figlia sarebbe stato uno squallore, lei mi ha dato molto.

Lei si diverte ancora a recitare, dopo tanti anni?
Si’, altrimenti smetterei. Poi, certo, il cuore è rimasto quello mentre il fisico cambia. E faticoso adesso, ma sono così gratificato dal fatto che quello che sto facendo viene recepito, amato. Noi viviamo di amore, anche, e il pubblico mi regala tanta roba. Il pubblico è fondamentale, dà emozione. Queste cose fanno capire che è giusto darsi ancora.

Sempre valido “Gli esami non finiscono mai”?
Se finissero sarebbe la fine, vuol dire che sei morto. Io ogni volta che entro in scena ho il terrore, e al tempo stesso mi piace, ho una grande adrenalina.

L’attore ha una sua funzione sociale?
Ma certo, raccontiamo tante cose che possono essere utili alla gente. Delle volte puoi far cambiare la vita, il prospetto, il pensiero. Importante è anche fare cose che fanno riflettere, non banali. Quindi sorridere anche, ma riflettere, questa doppia valenza per me è come una missione, emozionarmi per emozionare gli altri. E’ quello che vorrei anch’io vedere.

Francesco Bettin

Ultima modifica il Lunedì, 02 Marzo 2020 11:53

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