Stampa questa pagina

INTERVISTA a CLEMENTE TAFURI E DAVID BERONIO - di Nicola Arrigoni

David Beronio David Beronio

Testimoniare il teatro in azioni di ricerca che fanno comunità
Intervista a Clemente Tafuri e David Beronio per il decennale del festival
di Nicola Arrigoni

Ci sono festival come quello di Teatro Akropolis diretto da Clemente Tafuri e David Beronio: Testimonianze, ricerca, azioni di Genova che fanno del loro esistere un pensiero agito sulla realtà, sulla comunità su cui afferiscono, cercando di oltrepassare il meccanismo del mero consumo culturale, sforzandosi di farsi comunità di intenti in cui compartecipano artisti, operatori e pubblico. Tutto ciò si può dire – forse – di ogni festival o quasi, ma a dieci anni dalla nascita dell'appuntamento inventato da Tafuri/Beronio sembra interessane andare alla ricerca di cosa rende unico o meglio insolito questo appuntamento, quali le motivazioni delle origini, quale è stato il percorso e quali possono essere le prospettive. La generosità del racconto, la disponibilità a dirsi di Clemente Tafuri e David Beronio sono esse stesse due testimonianze di pensiero e azione che si vogliono condividere in tutta la loro argomentata complessità, perché ogni atto di ricerca è un porsi domande, un andare in cerca per continuare poi il viaggio, mai sazi e sempre curiosi. Questa sembra essere la predisposizione d'animo con cui i fondatori di Teatro Akropolis hanno accettato questa conversazione.

Clemente Tafuri

Testimonianze, ricerca, azioni: come arrivate a questo trinomio?
«Questo trinomio è l'espressione stessa dell'idea che sta alla base del festival. Le testimonianze sono quelle degli artisti, che vengono chiamati non solo a mettere in scena i loro lavori, ma anche a testimoniare la loro arte e la loro ispirazione. Si tratta di testimonianze poetiche ma anche metodologiche, di lavoro, raccontate dai loro interventi e dalle loro considerazioni che vanno a comporre, insieme ai contributi di critici e studiosi, le pagine del volume che ogni anno pubblichiamo prima dell'inizio del festival. Porre la ricerca in primo piano è il passo successivo, aprire i processi creativi degli artisti e offrirli al pubblico e al confronto reciproco, questo è il significato più interessante della ricerca in un evento come un festival. Anche perché un festival è innanzitutto una festa, non una vetrina. Di fronte a una vetrina si sceglie cosa comprare, a una festa si partecipa per incontrare cose o persone che non si conoscono, o comunque per interrompere anche solo per un attimo il corso ordinario del tempo. È un modo per conoscere, non per consumare. Le azioni sono quelle che avvengono sulla scena, sono gli spettacoli, le performance, ma anche i momenti di approfondimento, come i seminari, i convegni e gli incontri».

Come il valore delle tre parole è cambiato in dieci anni?
«Il valore di queste tre parole in questi anni si è rafforzato. La proposta di Teatro Akropolis è sempre più riconoscibile e riconosciuta. Se la parola testimonianze si riferisce in particolare all'attività di AkropolisLibri (la piccola casa editrice nata contestualmente a Teatro Akropolis e che si occupa di teatro e filosofia), allora la parola testimonianze è quella che più si è evoluta, non nel suo senso, ma nel suo valore specifico, anche al di là del festival».

Tadashi

Quando siete partiti avreste pensato di raggiungere dieci anni di festival?
«Francamente sì: il progetto che avevamo in mente era talmente chiaro e si presentava talmente impegnativo, che dieci anni sono un tempo ragionevole per svilupparne solo una prima parte, cosa che siamo riusciti a fare. Fondamentali sono le persone che lavorano con noi e grazie alle quali è stato possibile pianificare il lavoro per un periodo così lungo. Più che l'occasione per un bilancio, è un momento in cui sentiamo di dover rilanciare. Si raccoglie il banco quando si ha paura, quando si chiudono i giochi, quando le tasche sono piene, o vuote. Non è esattamente la nostra condizione».

Cosa rende unico il vostro festival?
«Le nostre scelte sono ispirate dalla nostra ricerca artistica e dal desiderio di creare delle occasioni di incontro, di confronto. Per noi l'accoglienza è un fattore prioritario, chi viene a Teatro Akropolis trova una comunità in cui entrare a far parte, anche solo per il breve tempo del festival o di una residenza. Si condividono le urgenze che muovono gli artisti a creare i loro lavori, e lo si fa da artisti, quali anche noi siamo. L'unicità di Testimonianze ricerca azioni sta forse nel fatto che è organizzato da artisti e studiosi per creare un terreno comune di condivisione per artisti e studiosi. Tutto questo coinvolgendo il pubblico, che non è chiamato ad essere semplice spettatore, ma a partecipare ai percorsi che proponiamo. Ma il modo in cui il pubblico può essere coinvolto nella vita di un teatro o di un festival meriterebbe un discorso molto più ampio. Diciamo che esattamente come gli artisti, anche il pubblico deve accettare delle sfide. E crediamo sia tra i doveri di chi si occupa di cultura fornire più strumenti possibili per avvicinarsi all'arte e al teatro senza scendere a compromessi e rilanciando la complessità dei temi che si trattano. Senza pensare che il pubblico sia una massa informe a cui affidare deliberatamente compiti che non gli competono. La retorica per cui tutti possono, più o meno, fare tutto ormai ha segnato il suo tempo. Pensiamo che di populismi e affini ne stiano circolando già a sufficienza in troppi ambienti».

Teatro Akropolis

Come sono cambiati gli obiettivi che vi siete posti dieci anni fa?
«L'inizio della nostra attività è stato avventuroso, con pochissime risorse, in una città che non è certo al centro del panorama nazionale del teatro e tantomeno del teatro di ricerca. Il nostro obiettivo di allora era innanzitutto quello di provare a dare vita a una comunità che si interrogasse sui temi dell'arte e delle arti performative in particolare, dare vita a un dialogo con il pubblico e con il territorio. Questi obiettivi continuano ad essere davanti a noi, ovviamente insieme ad altri, come quello di far crescere ancora AkropolisLibri e di rilanciare la nostra sfida artistica sul rapporto tra l'origine e la contemporaneità».

Perché la necessità di un festival, in un panorama tanto ricco? E soprattutto in un periodo dell'anno non festivaliero?
«L'utilità di un festival è proprio nella sua specificità. Un festival ha caratteristiche radicalmente differenti rispetto a una stagione, a una semplice rassegna, alla vita ordinaria di un teatro. Un festival dovrebbe arricchire la comunità a cui si rivolge di ciò che altri eventi, per loro natura, non possono offrire. È un evento eccezionale, festivo appunto, che dovrebbe criticizzare l'ordine, dare nuovi spunti di riflessione, lasciare tracce significative. È quanto di più vicino all'opera d'arte per la scena si possa immaginare. Una creazione che si dissolve nel suo farsi, che svanisce, di cui resta, in chi l'ha frequentata, la possibilità di portare con sé una nuova consapevolezza della propria condizione nel mondo. Non è importante che un evento di questo tipo venga organizzato in estate piuttosto che in autunno. È importante che nasca da una idea precisa, che sia il frutto di un cammino di studio e ricerca, che non si riduca a un'occasione per intrattenere e fare spettacolo. Per questo ci sono esperienze molto più efficaci, più coerenti. La televisione, il cinema, il web, ad esempio. Le arti dinamiche ci chiamano invece a reagire, a partecipare realmente ai possibili mutamenti, a essere dentro ai processi creativi e di pensiero. Poi, ovviamente sta ad ognuno di noi saper ascoltare, capire e frequentare le differenze, porsi in ascolto. In questi mesi è in atto una riflessione sulla funzione culturale dei festival, che coinvolge i principali organizzatori italiani e alla quale anche noi siamo stati chiamati a partecipare. Si tratta di individuare il ruolo specifico dei festival e, soprattutto, di capire in quale misura in questi anni i festival siano stati sussidiari alle mancanze del sistema teatrale italiano. Sono temi complessi e da condividere con chi finanzia e stabilisce i criteri di finanziamento. C'è da augurarsi che sia un cammino significativo per stabilire un giusto rapporto tra i diversi modi di dare espressione all'arte, di fare cultura».

Teatro Akropolis Pragma

Quale l'urgenza di continuare?
«L'urgenza è la stessa che ci ha spinto a cominciare. Un lavoro artistico che ha bisogno di incontrare altre poetiche, altri corpi e altre menti. Un'azione transdisciplinare, di trasformazione, di cui la scena è uno dei momenti di confronto. Non l'unico».

Quali gli obiettivi raggiunti? Quali quelli da raggiungere ancora?
«Un obiettivo importante è quello di essere riusciti a raggiungere un pubblico sempre più vasto grazie al lavoro sul territorio, e di aver attirato l'attenzione di parte della critica e degli studiosi, stabilendo con diverse accademie italiane un rapporto proficuo di scambi e di collaborazioni attraverso incontri, convegni e, naturalmente, pubblicazioni. Inoltre nel 2020 inizieranno i lavori per un radicale rinnovamento del teatro, che ci consentiranno di lavorare in uno spazio adeguato alle esigenze della programmazione e del lavoro degli artisti che ospitiamo. Stiamo contribuendo in questi mesi alla progettazione della sala di Teatro Akropolis (che il Comune di Genova, non senza sforzi, sta portando avanti con significativi investimenti), che rimarrà una delle poche sale teatrali che potrà modulare i suoi spazi, con lo spostamento delle sedute e il ribaltamento della platea, a seconda dei lavori in scena. Ma gli obiettivi da raggiungere sono molteplici. Potenziare le residenze artistiche, che dalla nostra nascita finanziamo con risorse interne, riuscire a sostenere con maggiori risorse gli artisti che coproduciamo, dare sempre più voce alla creatività emergente con sostegni adeguati, ovviamente allargare l'organico ormai insufficiente e fare il possibile perché il lavoro in teatro abbia una dignità pari a ogni altro lavoro. Teatro Akropolis non è solo il festival o il lavoro artistico e editoriale. Durante l'anno le attività sono molteplici, pressoché ininterrotte, e riguardano il costante lavoro con le scuole e l'Università, la partecipazione all'organizzazione di altri eventi (FuoriFormato e Intransito, ad esempio, per il sostegno alla danza d'autore e al teatro di prosa), le attività di studio sulle arti performative attraverso i laboratori condotti dai nostri attori. Si tratta di un laboratorio permanente animato dalle stesse istanze che ispirano Testimonianze ricerca azioni, che rimane ovviamente l'evento più significativo insieme alle nostre produzioni».

Citta Ebla

A distanza di dieci anni: come è cambiato dal vostro punto di vista il teatro? In cosa avete contribuito al cambiamento?
«Stanchezza, formule stantie, una retorica sconfinata su chi o cosa sia 'giovane' o meno, spettacoli che rimescolano questioni vecchie con linguaggi ed estetiche ormai da museo, una rimozione programmatica di oltre un secolo, il Novecento, di studi e scoperte, l'ottusa e insensata suddivisione in generi stili e mode per capire dove come e perché indirizzare le risorse, una confusione imbarazzante tra chi fa un teatro convenzionale, quindi sostanzialmente poco incisivo nei confronti del mondo che viviamo, e chi si occupa di ricerca e tradizione, una profusione oscena di denaro in operazioni scellerate o di sistema, una bieca tendenza ormai trentennale alla riduzione della complessità in nome della partecipazione, una partecipazione manipolata e ad uso del mercato e del consumo di spettacoli. Non sono questioni legate agli ultimi dieci anni. Sono questioni antiche che si rinnovano, come epidemie che ciclicamente, con tempi sempre più ravvicinati, tornano a infettare tutto. Che fare quindi? Sottostare a tutto ciò e sgomitare per ricavarsi uno spazio al riparo dell'istituzione? Credere ancora che il sistema possa essere combattuto e cambiato dal suo interno? È difficile trovare strategie definitive. Ma è meno difficile riconoscere chi risponde a tutto questo con il rigore e la coerenza del proprio lavoro, chi porta avanti una ricerca veramente eversiva e potente. Che si rispecchia sui corpi, nella vita e nelle scelte, nella solitudine, negli errori, nei tempi che ci si concede. In tutto quello che nell'opera emerge con la fragilità e la forza di un fiore, di una nuova creatura, di una possibile e altra visione del mondo. E quando questo accade, quando ci si riconosce, quando, pur nella diversità e anzi a volte proprio nella diversità, si accede a questo patrimonio ci si rende conto di come tutte le questioni di cui sopra possono almeno per un momento essere messe da parte. Non dimenticate, tutt'altro. Ma è riscoprendo le priorità del proprio lavoro che forse è possibile trovare le forze per opporsi e non cedere. E questi incontri, lo ripetiamo, non riguardano solo certi artisti, ma chiunque tra critici studiosi e pubblico accetti una sfida. Quella innanzitutto di non essere uno spettatore. Quella cioè di sentirsi responsabile nella condivisione di un evento. Difficile dire se abbiamo contribuito a qualche cambiamento. Forse contribuiamo all'affinarsi di certe sensibilità».

Quale incontro o quale spettacolo ha indirizzato la rotta del festival? Quale l'ha cambiata o condizionata maggiormente e perché?
«La difficoltà a rispondere a questa domanda non è dettata dalla diplomazia, ma dal fatto che sono stati davvero tanti gli incontri che hanno influenzato il nostro lavoro o che lo hanno direttamente ispirato. Da filosofi come Carlo Sini e Florinda Cambria a studiosi di teatro come Marco De Marinis e Antonio Attisani, capaci di penetrare a fondo la nostra poetica e di ricondurla ad uno sguardo di un'ampiezza quasi vertiginosa, condividendo con noi parte della loro ricerca e dei loro studi. Attraverso i loro libri prima, gli incontri e l'amicizia poi. Roberta Nicolai, direttrice di Teatri di Vetro, con il suo lavoro sulle processualità creative e non solo (il progetto Oscillazioni, ad esempio, è una delle esperienze più significative degli ultimi anni sul lavoro di trasmissione e approfondimento delle pratiche artistiche per la scena). E poi tutti gli eretici che hanno partecipato attivamente alle nostre attività, condividendone il rischio, presentando lavori straordinari che hanno segnato il cammino di Teatro Akropolis, tra gli altri, e i nomi sarebbero molto di più, Imre Thormann, il Teatro delle Albe, Akira Kasai. Ma al fondo del lavoro di tutti c'è l'opera di Giorgio Colli. È il suo lavoro a illuminare la nostra ricerca, sono le sue parole a riverberare nell'opera di chi sentiamo più vicino. La rivoluzione di Nietzsche ha trovato con lui tutta la forza per un dialogo serrato con il nostro tempo e oltre. Le sue pagine sulla tragedia e sull'arte, Filosofia dell'espressione, Dopo Nietzsche, la sua lettura della sapienza greca fino agli studi giovanili di cui ci siamo occupati (pubblicati in Trame nascoste, un volume interamente dedicato a Giorgio Colli pubblicato da AkropolisLibri due anni fa), sono voci che non smettono di parlarci».

Teatro Akropolis... l'acropoli è uno spazio sopraelevato, uno spazio separato. Questo punto di osservazione quanto conta?
«È fondamentale. Perché si tratta di quella distanza che permette una visione ampia, transdisciplinare, che consente di frequentare i margini, i confini. L'acropoli custodisce i misteri, rinnova il sacro. È solo in apparenza uno spazio separato. In realtà è, con l'agorà, il teatro di Dioniso e i luoghi preposti alla celebrazione dei misteri, il cuore pulsante di un'intera civiltà. Akropolis è anche il titolo di uno dei più importanti spettacoli del secolo scorso, diretto da Jerzy Grotowski nel 1962. Questa parola, così intesa, può mettere in relazione proprio l'origine del teatro e uno dei momenti in cui questa origine è stata, proprio da Grotowski, nuovamente frequentata, con una tale radicalità da cambiare il corso del teatro stesso. Lavorare, per così dire, da un punto di osservazione elevato, rivendicare il ruolo di intellettuale per un artista, non significa separarsi da una comunità, ma chiamarla ad una condivisione di qualità elevata, essere ancora più coinvolti, politicamente e artisticamente».

A fianco dell'attività di organizzazione culturale c'è una attenzione precisa alla documentazione e alla ricerca da divulgare con pubblicazioni ad hoc. Ciò è perseguito con costanza... quale la motivazione?
«Il ruolo di AkropolisLibri è profondamente legato alla nostra attività teatrale e a quella di organizzatori, e il riconoscimento del premio Ubu nel 2017 proprio per l'attività editoriale mette in evidenza questa relazione. La qualità della trasmissione di una documentazione che si può realizzare attraverso un libro è straordinariamente più efficace e precisa di quella affidata ad altri supporti. I libri sono momenti di una vita che riguarda tutti, senza distinzioni. E lavorare a un libro che si è scelto di pubblicare per la sua importanza e non per questioni di opportunità significa lavorare radicalmente su se stessi e proprio per questo in funzione della comunità in cui si vive. È un'azione senza compromessi, faticosa ma incisiva, politica, che non può sottostare alla pangrafia cui spesso siamo costretti e al pressapochismo degli altri metodi di divulgazione. E comunque anche i libri, come i lavori per la scena e il festival, partecipano alla composizione di un progetto più ampio, completano in un certo senso quanto non può, per sua natura, essere definitivamente risolto nell'opera».

Nicola Arrigoni

Ultima modifica il Lunedì, 02 Dicembre 2019 10:42

Articoli correlati (da tag)

Questo sito utilizza cookie propri e si riserva di utilizzare anche cookie di terze parti per garantire la funzionalità del sito e per tenere conto delle scelte di navigazione. Per maggiori dettagli e sapere come negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie è possibile consultare la cookie policy. Accedendo a un qualunque elemento sottostante questo banner si acconsente all'uso dei cookie.

Per saperne di più clicca qui.