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INTERVISTA a ELISABETTA POZZI - di Francesco Bettin

Elisabetta Pozzi. Foto Gm/Chieregato Elisabetta Pozzi. Foto Gm/Chieregato

ELISABETTA POZZI
al teatro Olimpico di Vicenza per "Ecuba", 72.mo ciclo di spettacoli classici

Elisabetta Pozzi è una delle attrici più importanti della scena italiana, impegnata ora a Vicenza con Ecuba, di Marina Carr, nell'ambito del 72.mo ciclo di spettacoli classici al teatro Olimpico. Le abbiamo rivolto qualche domanda su questa sua esperienza vicentina, sul testo, e sulla figura della regina di Troia.

In che modo l'autrice del testo Marina Carr vede Ecuba rispetto alla versione euripidea?
Lo fa rivalutando le figure della tragedia, tutti i personaggi infatti hanno qui un bagaglio di emozioni e sentimenti, mentre parlano sono messi a nudo, ognuno a suo modo. Nella sua Ecuba la Carr non infierisce contro il nemico ma lo perdona. Rispetto a Euripide racconta il personaggio da un punto di vista più umano, come mostra, allo stesso tempo, degli altri personaggi, i pensieri, come se si potesse vedere all'interno i loro processi neurologici, psicologici e patologici.

Dolore e guerra rimangono protagonisti della vicenda, nella loro crudeltà...
Certo, di quello comunque si tratta. Di un popolo decimato, che subisce un genocidio, esattamente come quelli che conosciamo, gli Armeni, il Ruanda, quello che stanno facendo ancora a lungo. Si parla del vincitore che si accanisce sul vinto, con l'efferatezza della distruzione. Ma all'interno di questo comunque ci sono personaggi che hanno una parte estremamente umana, come detto. Lo stesso Agamennone non è solo un tiranno che mette a ferro e fuoco tutto ma anche uno che espone i suoi più grandi dolori, come quando racconta dell'uccisione di Ifigenia, una figlia che adorava ma che ha dovuto sacrificare, scegliendo di fare il proprio dovere di re, anche nella follia totale. Una dimensione non solo mitologica che arriva e ci parla, ma che indaga su se stessa, sulle proprie azioni.

Pietà e perdono sono sempre la via giusta per salvarsi?
Non lo so, in questo caso comunque Ecuba è talmente al di là del dolore, e di tutto, che non riesce a immaginare la possibilità di vendicare. Il perdono, come dire, è l'unica possibilità perchè non ce n'è un'altra, la vendetta non paga comunque, è sterile, quello che è perduto è perduto, e chi ha subito ormai ha subito e non si può nulla.

Ecuba si dona al re nel finale, in un segnale consolatorio?
Questa specie di strana relazione intima in realtà è un affanno, non è neanche un fatto amoroso, erotico, ma un'unione di due disperazioni, si consolano per un attimo perché sia lei che Agamennone sono allo stremo, due esseri ormai completamente distrutti. E' una vera ultima consolazione, il buttarsi in una cosa proprio per disperazione.

Che magia trova nel recitare al teatro Olimpico?
Una magia faticosa, perché è un luogo talmente importante, grande, che già da solo è uno spettacolo, e racconta già un mondo. Un luogo mille volte più grande di te, qualsiasi cosa si faccia. Quindi qualsiasi cosa si metta sulla scena sembra che la si perda, perché non si può sovrapporre niente, adesso poi ci sono anche molte restrizioni. Con il regista Andrea Chiodi abbiamo un totale rispetto per questo ambiente, abbiamo solo steso un tappeto bianco gigantesco, e noi siamo dello stesso colore delle statue, siamo dentro a questa grande scenografia in un confronto con una cosa grandissima, il cielo, le prospettive. Quindi faticosa si, ma magnifica ovviamente. Sono luoghi speciali, come ad esempio il teatro greco di Siracusa.

Parliamo dei giovanissimi a teatro, della difficoltà di avvicinarli al teatro?
In Italia si, purtroppo, devo dire che è così. E la cosa pazzesca è che appena si passa il confine, Svizzera o Francia, è un altro mondo, e non si capisce perché. Mi ricordo che già da giovanissima andavo all'estero e la cosa mi colpiva molto, era pieno di giovani, e non certo giovani intellettuali.

Responsabilità anche della scuola oltre che dei mass media o delle famiglie?
Certo, a scuola soprattutto non hanno mai concesso di approfondire nessun tipo di discorso. Adesso mi sembra, negli ultimi tempi, che il discorso sia affrontato in maniera diversa, più seria. Anche a scuola, appunto, lo fanno, dal gioco iniziale diventa un approfondimento di tematiche che poi si va a vedere a teatro, questo mi dà molta soddisfazione. Là dove ci sono scuole che con gli insegnanti lo fanno bene, con amore, si rimane incantati. Vedere ragazzini di 12, 13 anni che si incuriosiscono, si informano, scrivono, è molto bello. Certo spesso diventa una questione di volontariato, si deve fare per il puro piacere, per passione, così si possono avere risultati eccezionali. Normalmente invece purtroppo si vedono per strada decine e decine di ragazzi ai quali non puoi neanche parlare di teatro, oppure devono cominciare a farlo direttamente. Ma chiaramente è così, lo capisco, non è che si può puntare il dito, siamo una popolazione particolare. Vediamo che gli adulti per primi si rompono spesso le scatole ad andare a teatro.

Cosa consiglia a un giovane, o a una ragazza, che vuole fare l'attore o l'attrice?
Innanzitutto deve seguire la propria passione. Se intuisce che il far teatro diventa cosa importante per se stesso, consiglio di farlo fino in fondo, studiando, leggendo. E' un lavoro veramente faticosissimo, ci vuole una gran pazienza e la voglia certa, sicura, di buttarsi a capofitto.

Torniamo a Ecuba, che la vede protagonista a Vicenza. Cosa insegna lei a tutti noi?
In questa versione della Carr, più che un insegnamento troviamo una denuncia di tutto quello che accade intorno a noi. Le follie, le supremazie, appunto il vincitore che si accanisce sul vinto. E non si capisce perché, è qualcosa di atroce, del resto lo vediamo sempre no? Nelle follie perpetrate a danno di popolazioni inermi, innocenti. E poi il risvolto importante della figura di Ecuba che invece di accanirsi anche lei sull'onda della ripercussione si distingue. Quello è il grande lascito, l'importante segno che lascia questo testo.

Ultima modifica il Sabato, 12 Ottobre 2019 12:16

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