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Intervista con Graziano Piazza, interprete nel "Il vecchio e il mare", regia Daniele Salvo.-a cura di Stefania Landi

Graziano Piazza in "Il vecchio e il mare", regia Daniele Salvo Graziano Piazza in "Il vecchio e il mare", regia Daniele Salvo

Il Centro Teatrale Stabile di Brescia ha realizzato una nuova produzione, Il vecchio e il mare, tratta dal celebre romanzo di Ernest Hemingway. Lo spettacolo ha debuttato a Brescia dall'1 al 12 febbraio 2017. Del trasferimento dalla carta stampata alla scena teatrale se ne è occupato il regista Daniele Salvo. A partire dalla monumentale scenografia, di Alessandro Chiti, costituita da un'alta pedana scoscesa su cui si muovono i tre interpreti: Graziano Piazza alias il vecchio, Stefano Santospago, il narratore e Luigi Bignone, nella parte del giovane. Per segnare un contorno verbale della rappresentazione, abbiamo intervistato Graziano Piazza.

Il ruolo che le è stato affidato è impegnativo e fisicamente provante. Come si è rapportato alla costruzione del personaggio?
Innanzitutto occorre premettere che questo ruolo era inizialmente stato dato a Ugo Pagliai. Io dovevo interpretare il narratore. È doveroso dirlo, nei confronti di Ugo, per come era nata la proposta di produzione. Io ho preso il suo posto nel momento in cui è stato impossibilitato per questioni fisiche. Si tratta di un ruolo particolarmente faticoso: la preparazione è avvenuta insieme al regista Daniele Salvo, cercando di lavorare sulla vecchiaia vissuta dal personaggio. Avevo già lavorato con Daniele nel Re Lear, sviluppando particolare attenzione verso questa condizione dell'uomo. Abbiamo precisato quelli che potevano essere gli obiettivi del personaggio, che è stato teatralizzato, fatto diventare carne, sangue e sudore.

È un personaggio di difficile stabilità, esistenziale e fisica.
Esatto. È un uomo che deve stare su una barchetta con un baratro di 4 metri sotto, quindi c'è un senso di pericolo molto forte con cui si ha a che fare. L'obiettivo che abbiamo intrapreso è stato di andare oltre i confini del proprio conosciuto, dando anche scenograficamente l'idea del largo, del tentare di andare più in là. Il vecchio protagonista ha un appuntamento con il destino, con un pesce, che in realtà è un appuntamento con se stesso. L'incontro con il pesce e la sua cattura gli provocano un sentimento di condivisione dello stesso destino di morte. Una parte del vecchio muore con il pesce ma alla fine rimane un lascito di speranza per la generazione più giovane, rappresentata dal ragazzo. Questo, in maniera quasi schematica, può essere il percorso del vecchio e dello spettacolo: l'acquisizione, attraverso la sofferenza, di una maggior conoscenza di sé, quasi il vecchio fosse un novello Giobbe.

L'adattamento drammaturgico segue linearmente il romanzo. A seguito della sua pubblicazione, una parte di critica letteraria aveva rivolto al libro commenti aspri, definendolo un esempio di narrativa kitch, strutturata su una congerie di banalità. Come si pone di fronte a questo giudizio critico un attore che ha interpretato e si è inoltrato fisicamente nel testo? Trova possa essere oggetto di riflessione o si tratta più di un'argomentazione di ordine tecnico-specialistica?
Quando ho letto il testo per la prima volta durante l'adolescenza, ricordo questa passione verso il tentare questa impresa – il pesce, la solitudine - mi aveva coinvolto e mi era piaciuto ma non ne avevo colto molti aspetti che invece ad un'età più adulta posso vedere, a maggior ragione in un lavoro di costruzione del personaggio. Il superamento del fatto che Hemingway dicesse non ci fosse nulla di simbolico, metaforico è di certo effettivo. La costruzione è abbastanza schematica, in qualche modo semplice, efficace. Anche tutte le ripetizioni di scrittura. Al tempo sentivo un appropriarsi della propria esistenza e metterla lì. Ne è un esempio l'immagine dei leoni, che il vecchio sogna continuamente. Al tempo mi ero chiesto perché questo pescatore sognasse i leoni. Poi, studiando l'autore, ci si rende conto che ad andare nella savana a fare le battute di caccia era lo stesso scrittore. Che viveva sempre la vita in quel limite, in quella soglia che la rendeva particolarmente avventurosa. Questo è stato importante per la preparazione dello spettacolo e la costruzione del personaggio. Qui subentra la figura del narratore, interpretato da Stefano Santospago, che conduce insieme a me il racconto. La scrittura trasuda autobiografia; la critica mossa allóra, che forse si potrebbe muovere anche adesso, coglie questo aspetto di elaborazione della propria visione personale, come accade per molti scrittori: in questo caso è avvertita proprio come una necessità instintuale. Credo che questo nostro tentativo abbia un che di vincente perché palesa quella che è la semplicità della trama, proponendola come una sorta di narrazione in 3d, di tableau che prende profondità grazie anche a dinamiche moderne, quindi le videoproiezioni e il resto diventano parte stessa della storia. Il regista ha palesato questa semplicità e ha permesso alla storia di emergere nei suoi aspetti anche più cruenti. Alla fine io mi carico l'albero in spalla, un'immagine che ripercorre la passione di Cristo: c'è un riferimento di quel tipo, che si ha la possibilità di vedere e cogliere.

Tu poco fa hai parlato di tableaux, immagini proposte all'interno dello spettacolo: una scelta registica molto efficace e allo stesso tempo coinvolgente. Consentono al pubblico di partecipare attivamente all'emozionalità del vecchio e del narratore, che è una sorta di coscienza dello spettacolo. La decisione di inserire dei video manifesta un'inclinazione verso soluzioni cinematografiche a teatro?
Ritengo che ci sia una costruzione, al di là dell'immagine. La scelta scenografica è molto importante, rasenta la genialità. Di fatto l'impostazione è veramente teatrale, insieme alle videoproiezioni, che sono tutti accorgimenti tecnici che concorrono a creare un ulteriore eco, un riverbero della sofferenza del vecchio, che si propaga. C'è un dialogo continuo del vecchio con tutti gli elementi, che si è cercato di manifestare anche a livello scenografico. Tutto ciò che compone la sua vita è reso con espedienti teatrali, che consentono di cogliere lo scheletro delle cose.

Tu esprimi le fatiche del vecchio anche vocalmente, con la tua voce cavernosa, che avvolge il palcoscenico, supportata da accorgimenti tecnici. La microfonazione degli attori è dettata da esigenze di chiarezza e ampiezza sonora o si tratta piuttosto di un desiderio di ottenere maggior riscontro da parte di un pubblico anche più giovane, che riesce a compartecipare alle azioni teatrali?
Come le proiezioni vengono utilizzate a fine drammaturgico, anche la voce dell'attore è sostenuta da accorgimenti tecnici per la stessa ragione. Qui, a maggior ragione, essendo molto alti sulla scena. L'uso che se ne fa rende possibile entrare in rapporto di profondità; non è fine a se stesso ma è messo a disposizione del racconto. Trovo che il pubblico se ne renda conto. Non si tratta solo di un uso del microfono messo lì per far sentire più forte, è invece l'idea del fatto che si possa sentire la solitudine del mare, lo sforzo, la fatica del respirare, un certo tipo di borbottìo interno. Questa è la nostra proposta, che chiaramente può piacere o meno.

Accade sempre più spesso di assistere a spettacoli con attori microfonati. Sono cambiate le condizioni, le scelte o l'attenzione del pubblico?
Ricordo che nell'88 la prima volta che ho recitato a Siracusa nel teatro greco si recitava senza microfono ed era assolutamente possibile, bisognava sforzarsi, usare il diaframma. Dopodichè le condizioni sono cambiate. Cos'è che può aver fatto accadere ciò? Il fatto che le strade intorno al teatro fossero prima silenziose, poi rumorose, con discoteche intorno. È venuto a mancare una sorta di rispetto. Io ho avuto la fortuna di recitare ad Epidauro con Peter Stein, con 14.000 spettatori. È il silenzio che fa la differenza, l'attenzione, la cura al silenzio che c'è intorno. I teatri spesso non hanno principi di acustica veri, alludo a quelli nuovi. E poi il pubblico, tartassato com'è da vari messaggi acustici forti, violenti, sembra quasi non abbia più la capacità di concentrarsi. Per cui se non hai un microfono non percepisci la presenza degli spettatori. Io sono per ritrovare la vibrazione della voce. Essendo stato uno steineriano a lungo, praticavo regolarmente euritmia insieme ad una compagnia e il percorso della vibrazione della voce è qualcosa che va studiato, però devo esserci le condizioni affinchè ciò si realizzi.

L'attenzione per la vocalità è stata perduta anche dagli attori, nelle scuole in cui avviene la loro formazione, o la stessa è oggetto di un'evoluzione che ha portato la vocalità ad essere commisurata in funzione di una maggiore immediatezza recitativa?
Diciamo che sono un po' tutte e due. Ci sono registi che sanno utilizzare in maniera drammaturgica lo strumento vocale e ci sono teatri che permettono di entrare in una sorta di formazione dell'udito del pubblico, che sarebbe molto interessante portare avanti. Io ho fatto e sto facendo anche molta radio: ho fatto per la trasmissione Ad alta voce Jack London e la voce è uno strumento meraviglioso, che ha una possibilità grande di arrivare al cuore. La vista è, in qualche modo, scusami il termine, un po' imbastardita. C'è un detto Sufi - che io frequento da molti anni – che dice "La testa ha due orecchie, il cuore una sola. Queste sentono il dubbio, questa la certezza". Ed ha a che vedere con il fatto che ci siano delle vibrazioni che possono giungere verso una sorta di verità. Poi effettivamente nelle scuole si lavora sempre meno su questo profilo.

Tu hai lavorato con celebri drammaturghi; penso a Ronconi, Stein, ma anche molti altri. Vuoi condividere dei ricordi legati al loro modo di realizzare gli spettacoli?
Alcuni di loro, quelli che non sono più in vita, li ho considerati proprio come fossero quasi la mia famiglia, sono cresciuto con loro. Ho conosciuto Peter Stein nell'87 e mi ha fatto un provino di un'ora e mezza. Da lì ci ho lavorato 4 o 5 volte con I demoni, Tito Andronico, quest'estate probabilmente con Riccardo II.  Lui, come Luca Ronconi, Benno Besson, Massimo Castri, mi hanno comunicato la passione con cui si sviluppava il loro lavoro. Il loro coinvolgimento riguardava sempre una visione a cui tu partecipavi. Io divido, non soltanto i registi ma anche gli attori, in tre categorie: coloro che sono degli allestitori, e ce ne sono grandi casi, come Visconti; i pedagoghi, che utilizzano la propria arte in maniera da far compromettere te e il pubblico in una visione che diventa pedagogica perché comunica un messaggio; poi i registi di visione, che sono artisti che riescono a coinvolgere il pubblico nella propria visione.

Facendo riferimento al tuo ragionamento intorno alle categorie di regia che hai immaginato, gli autori contemporanei come si direzionano? Ti sembra diano un'impronta personale consistente o procedono in modo prudente, ragionando di volta in volta?
Io penso che alcuni, anche giovani, stiano facendo dei tentativi. Molti diventano autori di spettacoli, in maniera anche interessante. Per me è ancora troppo presto per poterlo dire rispetto a tanti bravi, anche amici, tra l'altro. Quando si focalizza per bene il percorso, l'artista ha cristallizzato, identificato una visione, che costruisce e decostruisce. Trovo che qua e là, nel teatro, stia accadendo.

Ultima modifica il Martedì, 21 Marzo 2017 22:49

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