giovedì, 28 marzo, 2024
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Conversazione con Antonio Folletto. - a cura di Giuseppe Distefano

Antonio Folletto Antonio Folletto

Un osservatore della vita degli altri. "L'attore? Deve avere passione, determinazione, rispetto, per essere al servizio della storia e dell'autore".
di Giuseppe Distefano

E dire che per ben tre volte non venne ammesso al Centro Sperimentale di Cinematografia dove si era presentato alla selezione di recitazione. "Essendo un "ignorante consapevole" – confessa Antonio Folletto – la seconda volta presentai il monologo di un attore visto in un film, imitandolo. Era da L'uomo in più di Sorrentino, un pezzo improponibile per un ragazzo di 19 anni. Ma non andò così male. Il primo provino, invece, fu con un monologo scritto da me, pieno di sketch, ma non proprio adatto per una scuola di cinema. Era più per cabarettista. Fregandomene delle convenzioni lo feci lo stesso, e infatti fui segato!". Entrò, invece, successivamente, all'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica Silvio D'Amico. Ed oggi è tra i giovani attori più promettenti, richiesto al cinema, in televisione, a teatro. La grande visibilità è arrivata con la seconda serie di Gomorra che ne ha messo in luce il grande talento. E di vero talento naturale si può proprio dire di Antonio Folletto. Basta vederlo dal vivo, in scena, attualmente, nel Romeo e Giulietta con la regia di Andrea Baracco, nel ruolo di un energico, vitalissimo, impulsivo Romeo, accanto a Lucia Lavia e ad Alessandro Preziosi. Ruolo perfetto nel quale l'attore napoletano si immedesima con generosa partecipazione fisica ed emotiva. Tra le moltissime interpretazioni del celebre personaggio di Shakespeare finora visti – e sono davvero tanti –, questa di Folletto credo la si ricorderà particolarmente per potenza e credibilità, naturalezza e verità. Napoletano, ma cresciuto a Viareggio, quindi trasferitosi a Roma, città che ama, Antonio Folletto frequenta inizialmente per diletto una piccola scuola di teatro, Teatro Azione. Su suggerimento della sua insegnante tenta il provino alla Silvio D'Amico. Ma la sua passione per la recitazione non nasce direttamente con il teatro.

E allora qual è l'origine?
È avvenuta in maniera semplice: attraverso mio nonno, una persona molto presente nella mia vita. Mi ha trasmesso una passione smisurata per Totò e per Eduardo. Guardavo con lui le commedie in televisione ed ero colpito dai personaggi: quelli di Natale in casa Cupiello o Il sindaco di rione Sanità. E poi film come I Magliari di Francesco Rosi, o La grande guerra di Mario Monicelli visto decine di volte, o quelli con Mastroianni, Troisi, e di tutta una cultura napoletana che mi ha sempre accompagnato. Mi innamoravo delle storie, delle quali in qualche modo sentivo di volerne essere parte. Mi piaceva anche fare le imitazioni. Imitavo chiunque. Mi sono avvicinato a tutto questo senza una disciplina, e ancora oggi è un po' così.

Quindi ti sei particolarmente nutrito di cinema, di storie...
Moltissimo. Paradossalmente poi le cose più belle che mi hanno sempre affascinato, e che metto nel lavoro che faccio, sono quelle che nessuno conosce, cioè quelle delle persone vere, quelle vicine, che osservi nel quotidiano.

Si può dire che sei un osservatore della vita degli altri...
Direi in maniera quasi maniacale. Mi viene naturale osservare le persone soprattutto in situazioni di gruppo, vedere come agiscono, come si muovono, soprattutto quando non sono al centro dell'attenzione, e non sanno di essere osservate.

Cosa ti ha insegnato l'Accademia?
Che è un mestiere. In Accademia ci sono delle regole, e per com'ero fatto io, era una cosa inammissibile stare chiuso lì dalle 9,30 del mattino fino alla sera, tutti i giorni, e se mancavi dovevi portare una giustificazione. Era una disciplina severa. Bisognava attenersi alle regole, agli orari, alle tabelle di materie con dei voti da conseguire. Dopo il primo anno, durante uno spettacolo di noi allievi al Festival di Spoleto, in seguito ad un provino venni scelto dalla Rai per una serie televisiva in Argentina offrendomi un contratto di sei mesi. E oggi sono ancora grato ai miei insegnanti, Lorenzo Salveti e Daniela Bortignoni, per avermi dato il permesso di cogliere questa opportunità di lavoro lasciando per un lungo periodo l'Accademia, e poi avermi reintegrato nel corso, cosa a quei tempi impensabile.

Come preparazione attorale, l'Accademia cosa ha aggiunto a quello che già sapevi fare?
Sicuramente molte informazioni, quali l'importanza di leggere con attenzione un testo, soffermarvisi, approfondirlo, capire il senso di una battuta, l'importanza delle parole e dell'ascolto delle parole degli altri personaggi. In Accademia, specie il terzo anno, vengono degli insegnanti per dei laboratori, e ognuno porta una sua visione, un proprio modo di affrontare un lavoro. Questa diversità mi ha aperto la mente, oltre all'opportunità di potermi confrontare e misurare con colleghi e persone che vivono la stessa passione, che siano registi, attori, scrittori, tecnici.

Romeo e Giulietta, spettacolo col quale sei attualmente in scena (al Teatro Eliseo di Roma e in tournèe), si può dire che è il tuo vero debutto teatrale, dopo alcuni spettacoli dell'Accademia. Com'è nato?
Conoscevo Andrea Baracco, il regista, avendo sentito molto parlare di lui. Ho partecipato ad un provino grazie alla segnalazione di un mio caro amico, Lino Musella, per il quale, secondo lui, ero giusto per quel ruolo. E sono stato preso. Ho capito subito che si trattava di una occasione importante e mi sono messo subito al lavoro divorando il testo. Al di là poi del personaggio, e della fortuna che ho avuto, la cosa per me importante sono gli incontri con le persone. Andrea lo considero un incontro, e continua ad esserlo. Per me conta non solo il lavoro sul campo, ma anche il fuori, il rapporto umano che si crea. Le cose belle e vere non devono essere forzate, devono venire come l'acqua che deve scorrere. Con Andrea è stato così da subito. E mi sono completamente affidato.

Gomorra 2 è stata la fiction che ti ha lanciato e dato popolarità. Come l'hai vissuta?
Ho visto il grande effetto che la prima serie aveva avuto sulle persone. Quando Stefano Sollima mi ha scelto per la seconda serie, leggendo la sceneggiatura, mi ha entusiasmato il personaggio affidatomi specie per il bellissimo arco narrativo che aveva, anche se mi dispiaceva che poi sarebbe morto. Cosa che dopo, invece, ho apprezzato per il fatto di non dover rimanere bloccato in quel ruolo. Il successo che la serie ha avuto mi ha sorpreso e piacevolmente stupito. Quando vedi che il pubblico apprezza il tuo lavoro è una delle cose più belle. Non ti nascondo che uno dei momenti più belli dopo lo spettacolo a teatro è quando esci e leggi negli occhi delle persone che sono venuti liberamente, che hanno scelto di venire a vedere quella storia, e se ne vanno liberi portandosi una emozione. Il pubblico è fondamentale anche se non ci penso molto.

Da poco ti abbiamo visto nel film Ho amici in paradiso,  girato al Don Guanella, lo storico istituto romano che ospita disabili mentali e psicosensoriali. La commedia vuole allontanare la disabilità dagli stereotipi più comuni, e tu interpreti uno di questi ragazzi. Hai una trasformazione fisicamente molto difficile da sostenere. Immagino sia stata un'esperienza umana forte sia per l'immedesimazione, sia per la condivisione con le persone che lì vivono...
È stata un'esperienza bellissima. E difficile. Dal punto di vista professionale, artistico, sai che un ruolo così è una grandissima opportunità, un bel viaggio che non capita a tutti e forse mai più. Poi c'è un lato concreto, umano, dove vai a sbattere il muso vedendo la quotidianità e la condizione reale di queste persone, il misurarsi con loro con rispetto. Non so se ci sono riuscito ma ce l'ho messa tutta per cercare di essere onesto con la storia e il ruolo. Col regista Fabrizio Maria Cortese e gli altri attori abbiamo trascorso molto tempo insieme a loro, e, per il mio ruolo, cercare di capire quale patologia scegliere di interpretare affinchè venisse fuori un minimo di condizione di articolazione fisica che permettesse di poter parlare di Riccardo III (nel film viene imbastita una recita sull'opera di Shakespeare, ndr). Entrare, in qualche modo, nel loro mondo è stato il lavoro più difficile, ma umanamente arricchente. Stando a contatto con queste persone con patologie diverse ho visto una costante a tutti comune: il bisogno di attenzione. E questa è stata la più grande lezione.

Come vedi il disagio dei giovani attori nel contesto italiano oggi. Tu lo hai vissuto?
Mi spaventa. Mi colpisce molto vedere colleghi, coetanei e non, che non riescono a lavorare. E ti chiedi il motivo. Vedo anche la difficoltà per alcuni ad accedere ai provini, soprattutto quelli teatrali. Per il cinema e la tv ci sono le agenzie, ma anche là spesso vedo agenti che spingono soprattutto per alcuni piuttosto che per altri, privilegiando l'aspetto fisico. Ma questo è sempre stato così, da che mondo è mondo. Io mi considero fortunato perché finora, consapevole di essere all'inizio, non ho avuto questo problema. Credo che in questo lavoro ci voglia anche fortuna. Come credo anche che ci vuole una buona dose di capacità, di volontà, di passione, di determinazione, perché quanta più ne hai, più sei disposto a fare sacrifici e rinunce.

Facendo l'attore hai scoperto delle cose di te che non sapevi di avere?
Tutte le volte che interpreti un personaggio si scopre qualcosa, anche se poi non sai dargli un nome. Una cosa che in questo lavoro mi ha aiutato molto, e che non ha niente a che vedere con i personaggi, è il rispetto: quello che uno deve avere per gli altri e verso se stesso per il lavoro che fai, e allo stesso tempo pretenderlo. Vale per tutti i lavori. Esigere il rispetto per il proprio lavoro fa sì che poi tu lo possa fare bene, per gli altri, e per saperlo restituire. Questo è un aspetto che mi ha aiutato tanto e mi aiuta nelle scelte: da quella dei progetti, alla scelta delle persone con cui intraprendere il viaggio. Questo è un lavoro in cui uno investe tanto a livello umano, perché si rischia di farsi male se non si sceglie bene o se non si è onesti con se stessi andando contro i propri principi. Una volta mi è successo e da allora ho detto mai più. Ecco, questo lavoro mi ha aiutato a crearmi una coscienza, il chiedermi perché fare una cosa piuttosto che un'altra.

C'è una frase di un grande maestro, Orazio Costa, che diceva: "Amate il cinema, amate il teatro. Non amate voi stessi al cinema, né a teatro". Che valore dai a questa affermazione?
È bellissima. È il principio fondamentale dell'attore. Cioè, ama quello che fai, con passione, mettendoti al servizio del tuo datore di lavoro che in questo caso è la storia, l'autore, il regista. Vuol dire prestare la voce, il corpo, l'intelligenza ad un lavoro collettivo, per andare tutti nella stessa direzione. Vuol dire mettersi al servizio rinunciando a tutto quell'egocentrismo che contraddistingue l'attore.

Ultima modifica il Lunedì, 27 Febbraio 2017 21:16

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