Artista visivo, coreografo, regista, scrittore, Jan Fabre è da oltre vent’anni una delle personalità più rilevanti della scena europea, promotore di una ricerca artistica completa, tesa ad oltrepassare con pervicace spirito di provocazione le barriere espressive e morali del suo tempo. Nipote del grande entomologo Jean-Henri Fabre, nasce ad Anversa nel 1958 e studia all’Istituto di Arti Decorative e Belle Arti alla Royal Academy. Giovanissimo, dirige il suo primo spettacolo (Theatter geschreven met een K is een kater, ad Anversa), cui segue, nel 1982, This is theatre like it was to be expected and foreseen (Questo è il teatro come ci si doveva aspettare e prevedere): lo spettacolo, la cui azione si svolge lungo ben otto ore, dal tramonto all’alba, sconvolge il pubblico e gli procura un’immediata notorietà. Due anni dopo, Fabre è già alla Biennale di Venezia con The power of theatrical madness, altro tour de force di cinque ore che definisce ancora più chiaramente il suo stile eccessivo e crudele, e conferma il carattere totalizzante e interdisciplinare della ricerca dell’artista belga, che spesso cura personalmente anche scenografie, luci e costumi.
A “Documenta 8” (a Kassel) esordisce nella coreografia con Dance Sections, uno studio preliminare alla realizzazione di Das Glas im Kopf wird vom Glas, proposto a sua volta al Romaeuropa Festival del 1987 come promo della grandiosa opera-balletto The Minds of Helena Troubleyn. Dopo Prometheus Landscape (1988), nel 1989 mette in scena tre testi giovanili scritti alla fine degli anni settanta, The interview that dies, The Palace at four o’clock in the morning e The reincarnation of God, mentre, a partire da frammenti musicali di Knapik, Bernd Zimmermann e dei Doors, allestisce nel 1990 a Francoforte il balletto The sound of one hand clapping.
Oltre a Silent Screams, Difficult Dreams (Documenta IX, Kassel, 1992), tra il 1991 e il 1997 dedica gran parte del suo lavoro allo studio del corpo umano e della sua trasfigurazione, temi che diventeranno centrali nella sua opera: appartiene a questo periodo la notevole trilogia di Sweet Temptations, Universal Copyright 1&9 e Glowing Icons.
L’esplorazione estrema e sfacciata del corpo, che desta più volte scandalo, si lega dunque al concetto di metamorfosi, che Fabre forse mutua da quella passione per le scienze ereditata dal bisnonno, in virtù della quale ogni momento di passaggio nell’ambito dei cicli naturali (il giorno e la notte, la vita e la morte) diventa protagonista dei suoi spettacoli, costituendo l’impalcatura portante di una struttura solitamente complessa e labirintica. La stessa passione per gli insetti, onnipresenti nella sua opera, si lega a questo tema centrale, oltre ad essere funzionale ad una poetica marcatamente surrealista, in cui il sogno, la follia, l’irrazionale, mantengono un ruolo predominante. Soggetti naturali si ritrovano anche in quadri e sculture di Fabre, come dimostrano ad esempio la serie Fairy-tales and Spiders o le enormi tele di The flying cock o The road from the Earth to the stars is not smooth: le arti visive restano da sempre una parte fondamentale della sua creatività, e i suoi esperimenti con le penne Bic, con cui riempie ogni tipo di superficie (fino alle pareti intere di una galleria), la sua più riconoscibile marca di distinzione.
Tra le ultime produzioni per il palcoscenico vanno ricordate The end comes a little bit earlier this century. But business as usual (1999), As long as the world needs a warrior’s soul (2000, in gran parte costruito a partire dal testo di Dario Fo Io, Ulrike, grido!), Je suis sang (Avignone, 2001), Het zwanenmeer (2002), Parrots & guinea pigs (2002), Je suis sang (2003), Angel of death (2003), Elle était et elle est, meme (2004), Etant donnés (2004), Quando L'Uomo principale è una donna (2004).
Jan Fabre
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