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ZOO DI VETRO (LO) - regia Arturo Cirillo

"Lo zoo di vetro", regia Arturo Cirillo "Lo zoo di vetro", regia Arturo Cirillo

di Tennessee Williams
traduzione di Gerardo Guerrieri
regia di Arturo Cirillo
con Arturo Cirillo, Milvia Marigliano, Monica Piseddu, Edoardo Ribatto
scene di Dario Gessati, costumi di Gianluca Falaschi, luci di Mario Laprevite
assistente regia, Giorgio Castagna, assistente scenografie, Lucia Rho
produzione Tieffe Teatro
visto il 20 gennaio 2015 al teatro Ponchielli di Cremona
Al Teatro India di Roma, dal 18 al 22 maggio 2016

www.Sipario.it, 19 maggio 2016
www.Sipario.it, 22 gennaio 2015

ROMA - Il persistere della memoria, quel suo dolceamaro tendersi sulla scia di sensazioni, distacchi, frasi sospese, incomprensioni, si accompagna al rimpianto, ovvero a quella parte di poesia che, nella vita,forse cerchiamo con intimo compiacimento, per avere la (quasi) certezza di aver vissuto. È questa l'essenza de Lo zoo di vetro, che Arturo Cirillo ha diretto al Teatro Manzoni, scegliendo un approccio intimo e votato alla dimensione psicologica del dolore. Il dolore, infatti, è l'unica cosa che dà alla delicata e introversa Laura la prova della propria esistenza, consumata nella solitudine impostale dalla timidezza e da una madre soffocante che, suo malgrado, accentua le insicurezze della figlia. È lei il cigno senz'ali chiuso nella soffocante quotidianità di una famiglia piccolo-borghese nell'America degli anni Quaranta, segnata dall'ingombrante presenza di una madre conformista, a sua volta sofferente per l'abbandono del marito - un avventuriero dedito all'alcol -, avvenuta quando i figli erano ancora piccoli. Una famiglia su cui pende, infida spada di Damocle, l'incubo del fallimento, che l'ossessiva madre cerca di evitare riponendo tutte le sue speranze nei figli Laura e Tom. Quest'ultimo, dal cui lavoro dipende il sostentamento della famiglia, è insoddisfatto della routine di commesso in un negozio di scarpe, e per sfuggire quella madre ingombrante, la sera si rifugia quasi sempre al cinema, ad affogare il suo malessere nei film d'avventura.
Assordanti silenzi si frappongono fra dialoghi inquieti, condotti sempre sul filo della rabbia e della frustrazione, fra una madre, Amanda, prigioniera dei ricordi di gioventù, e il desiderio di vedere i figli sistemati secondo le convenienze borghesi, e quegli stessi figli insofferenti della vita borghese.
A rompere definitivamente quest'assurda routine, la sera in cui Jim, amico collega di Tom, viene invitato, su pressante richiesta della madre, affinché conosca la ragazza e avvii con lei una relazione. Il Jim in questione è un vecchio compagno di liceo, l'unico uomo per il quale Laura avesse mai provata una certa attrattiva. Rotta l'iniziale timidezza, i due avviano una conversazione dapprima impacciata e poi sempre più intima, alla fine della quale Jim confessa di essere già sentimentalmente impegnato. Sfuma così la possibilità per Laura di costruirsi una vita sentimentale e rendersi indipendente dalla madre, la quale, da parte sua, dovendo subire l'ennesima frustrazione, accusa Tom (ignaro degli impegni di Jim), di aver volutamente organizzata una beffa di pessimo gusto ai danni suoi e di Laura. L'uomo, che già da tempo pianificava di allontanarsi dalla famiglia entrando nella marina mercantile, approfitta dello screzio che si viene a creare, e trova il coraggio di rompere con quella vita d'insoddisfazioni.
Uno spettacolo fortemente emozionale, che scava nei silenzi di un'umanità frustrata da un assurdo sistema di convenzioni, della cui esistenza sembrano accorgersi soltanto poche anime sensibili. In questa amara ma delicata pièce, Williams si fa cantore delle miserie spirituali dell'America piccolo-borghese, che nel 1944 - anno di pubblicazione -, sta creando i presupposti per l'imminente affermazione sulla scena economica e politica mondiale, a sostegno della quale è necessaria completa adesione. Un sistema, anche familiare, sintetizzato nel personaggio della madre; Milvia Marigliano è un'Amanda ridicola nel suo rievocare, spesso inopportunamente, i ricordi della sua gioventù, soffocante nel dettare regole e dare consigli ai figli, dei quali non riesce ad accettare il fatto che ormai siano adulti. Il risultato, è una vera persecuzione psicologica, portata avanti inconsciamente, fra una risata compiaciuta e un'osservazione inopportuna.
Un clima che esaspera il figlio Tom, interpretato dallo stesso Arturo Cirillo, che ne riporta il giusto grado di nevroticismo, e nelle cui sfuriate contro la madre non è difficile ravvisare il rancore familiare dello stesso Williams; infatti, la sua difficile giovinezza imprigionata nell'ipocrisia, ricorre sovente nella sua opera teatrale.
Suo opposto maschile è l'amico Jim - un convincente Edoardo Ribatto -, un giovane che pur avendo delle convinzioni e qualche ambizione artistica, si rassegna suo malgrado al compromesso con una società che esige persone dinamiche e intraprendenti, scrupolose sul lavoro e senza troppe fantasie. Eppure, qualcosa di autentico in Jim è rimasto, ed emerge, forse per l'ultima volta nella sua vita, nel breve incontro con Laura, la sera dell'invito. Rimasti soli, i due hanno un dialogo che raggiunge vette di autentica poesia. Con un'interpretazione di semplice eleganza, pacata e mai sopra le righe, estrapola tutta la bellezza delle parole a suo tempo scritte da Williams, parlando alla ragazza con quella sincerità che forse mai ha conosciuta, e facendola sentire per la prima volta una donna. Parole semplici, quelle di Jim, ma intense per la loro sincerità, che ricordano le atmosfere delle canzoni di Luigi Tenco, che Cirillo inserisce intelligentemente a fare da colonna sonora alla pièce; al pari della Laura immaginata da Williams, anche il grande cantautore genovese ha convissuto con la fragilità di chi, intellettualmente diverso dalla massa, non vi trova sufficiente corrispondenza affettiva e mentale. È Laura il personaggio più intenso della pièce - sorta di rievocazione della sorella di Williams, Rose -, interpretata da un'intensa Monica Piseddu. Una recitazione costantemente a bassa voce, accompagnata da un incedere sul palco che è quasi un sottile scivolare; e quel suo lieve claudicare è metafora della difficoltà ad avanzare nella vita (concettualmente richiama la gamba rotta di Brick ne La gatta sul tetto che scotta). Trascorre molto tempo seduta sul divano, persa in fantasticherie, e iconograficamente parlando, non è difficile accostarla a Sunrise with broken plates, (nella versione del 2004), opera pittorica del visionario David Onica, scelto da Bret Easton Ellis come artista simbolo dei drammi esistenziali di American Psycho, ritratto di un'America ferocemente materialista, razzista e ipocrita. A conferma dell'attualità, nel tempo, dei testi di Williams.
È a Jim che la ragazza mostra la sua collezione di animaletti di vetro, che sembrano essere il suo unico passatempo - oltre ad ascoltare vecchie canzoni -, da quando ha abbandonato il corso di dattilografia e quasi si rifiuta di uscire di casa. In questo contesto, lo zoo di vetro che Laura accudisce quasi si trattasse di essere viventi, diviene la metafora della fragilità che accomuna gli esseri umani, anche quelli che, come la madre, ostentano certezze incrollabili.
La rottura dell'unicorno, la figura preferita di Laura, è l'espediente drammaturgico per spiegare la rottura della sua stessa esistenza, che s'immagina votata alla solitudine per l'impossibilità di legarsi a Jim, e dopo l'allontanamento del fratello. Il quale, a distanza di anni, incontra di nuovo, forse nella sua mente, forse nella realtà, la sventurata sorella, e in un intenso monologo finale le rivolge un qualcosa che sta a metà fra una dichiarazione d'affetto, uno sfogo personale e un rimprovero, da cui emerge la rabbia per quello che avrebbe potuto essere e invece non è stato.
Scenicamente, lo spettacolo è molto elegante, avvalendosi di un'illuminazione soffusa, quasi lisergica, e di uno sfondo che riproduce un qualsiasi interno familiare americano degli anni Cinquanta, l'habitat "naturale" per quella fauna che è l'umanità, americana e non solo, che dagli anni Quaranta non è cambiata molto, ancora prigioniera di ipocrisie, egoismi, paura della verità, diffidenza per l'altro.

Niccolò Lucarelli

I personaggi dello Zoo di vetro di Tennessee Williams sono bagliori di un'oscurità che non dà respiro, sono come i riflessi di quegli animaletti di vetro in cui Laura, ragazza timida e zoppa perde la sua non esistenza, una Monica Piseddu di tenera e respingente anaffettività dolente. Sono come il luccichio del vestito di Amanda, donna abbandonata dal marito, madre che tanto vive della nostalgia di una serenità perduta e giovinezza spensierata, quanto è asfissiante nei confronti dei due figli, vittime di un'esistenza gravida di disillusioni: un'intensa, viscerale Milvia Marigliano. I personaggi dello Zoo di vetro sono come le volute di fumo della sigaretta di Tom, narratore e protagonista del dramma 'simbolico e non realistico', ma intimamente autobriografico di Williams che Arturo Cirillo ha realizzato con raffinatezza, con una struggente poesia fatta di segni precisi, di atmosfere ben costruite e controllate, di un senso di dolore che è lì nella vita non vissuta di quella famiglia, di quella madre e moglie, figlio e figlia abbandonati da un padre che è — per detta stessa del narratore — il quinto personaggio del dramma. Completa il dramma la presenza di Jim (Edoardo Ribatto) ex compagno di liceo di Laura e collega di lavoro di Tom che invitato a casa in una sera di inizio primavera rappresenta l'ennesima illusione di una vita immaginata più che vissuta, rappresenta l'amore sognato e impossibile di Laura. E proprio nel personaggio di Jim solitamente liquidato come uno sbruffone e qui costruito con chiaroscuri che ne fanno un deluso della vita al pari di Laura si concreta una lettura registica che va oltre gli stereotipi e al tempo stesso lavora sul testo di Williams con profondità analitica e felice resa scenica. Arturo Cirillo costruisce, infatti, il suo Zoo di vetro con il gioco scoperto della scena: gli attori sono sempre presenti, ed escono di scena affidandosi al buio, l'interno borghese: un divano, un tavolo e un armadio fluttua nel nero di quinte e fondali, la musica è agita con la fonica sul palco. Tutto ciò crea una sorta di distanza che fa da contrasto con il calore di una recitazione che sa essere di testa e di cuore al tempo stesso, in cui il mèlo e il dramma si acuiscono nella comicità che dimostra quanto non ci sia niente di più comico dell'infelicità. Arturo Cirillo sa essere personaggio e narratore, gestisce dall'interno con rigore le dinamiche relazionali che vedono Milvia Marigliano essere passione e non rassegnato dolore, Monica Piseddu uno scrigno fragile di voce e gesti, quanto i suoi simulacri di vetro, Edoardo Ribatto, ragazzone tonico, vita vera, Arturo Cirillo è un Tom che cerca la fuga, consapevole che l'unica strada forse percorribile è quella già imboccata dal padre. Si assiste alla storia narrata da Tom col fiato sospeso, col sorriso che lascia il posto immediatamente dopo all'amarezza, complici e distanti al tempo stesso, coinvolti e respinti ma sempre e comunque emozionati. Lo zoo di vetro di Arturo Cirillo merita di essere visto, spettacolo imperdibile perché dà conto di come il teatro della tradizione possa incontrarsi con una voglia di ricercare e far vivere i testi sollecitando la magica alchimia che fa della parola teatrale una parola incarnata dall'attore e offerta al pubblico con l'onestà, lo scrupolo e il rispetto nei confronti dell'autore, degli interpreti e dello spettatore. In questo Arturo Cirillo è un maestro.

Nicola Arrigoni

Ultima modifica il Giovedì, 19 Maggio 2016 17:40

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