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regia Gigi Dall'Aglio

VILLON - 
regia Gigi Dall'Aglio

Raffaele Esposito in "Villon", regia Gigi Dall'Aglio Raffaele Esposito in "Villon", regia Gigi Dall'Aglio

di Roberto Mussapi,
regia Gigi Dall'Aglio
con Raffaele Esposito
collaborazione musicale Alessandro Nidi
luci Luca Bronzo
produzione Fondazione Teatro Due
A Parma, Spazio Grande del Teatro Due, dal 3 al 7 aprile 2019

www.Sipario.it, 19 aprile 2019

È una grande prova d'attore quella che vede protagonista Raffaele Esposito dare corpo e voce a un personaggio storico del Medioevo, le cui gesta ne hanno fatto l'antesignano del "poeta maledetto", tutto genio e sregolatezza, ispiratore di tanti epigoni. Considerato uno dei padri della poesia lirica dell'epoca, François Villon, alias François de Montcorbier o anche des Loges, prese il nome dal canonico e cappellano Guillame Villon suo protettore, preso da giovinetto povero e orfano. Poco si conosce della sua vita. Nato a Parigi nel 1431, si laureò presso la facoltà delle Arti. Nell'estate del 1455, durante una rissa assassinò un prete, anche se per legittima difesa. Un anno dopo partecipò al furto di cinquecento scudi d'oro nel ricco Collegio di Navarra. Ma questo è solo uno dei numerosi reati che gli vengono attribuiti. Finì, dopo vari vagabondaggi, in prigione. Condannato alla pena capitale vi sfuggì perché ottenne la commutazione della pena in un esilio decennale da Parigi. Condannato a morte per una seconda volta all'ultimo momento venne graziato, e a 31 anni Villon scomparve e non se ne seppe più nulla. Questo è quanto di sicuro si sa dei fatti esteriori della sua esistenza. Fiumi d'inchiostro sono stati scritti sull'opera di questo innovatore, anarchico, delinquente, moralista e malinconico personaggio che, a distanza di più di cinque secoli, continua ad affascinare ogni generazione. Fra questi c'è Roberto Mussapi autore di "Villon", un testo per il teatro del 1989, ora ripubblicato, che ha trovato eco nel regista Gigi Dall'Aglio realizzando una messa in scena per il Teatro Due di Parma, con interprete calzante Raffaele Esposito. Il testo di Mussapi si focalizza sulle ultime cinque ore di prigionia di Villon in attesa della decapitazione, quelle che lo vedono confessare le sue colpe e le sue vicende, come fosse un definitivo esame di coscienza, ad un guardiano invisibile di cui udiamo solo la voce e poche parole. Quelle giuste, per dare il pretesto al prigioniero di aprire le sue memorie, di raccontare e di parlare forse alla sua stessa coscienza, o forse a quel Dio cui chiederà misericordia rivolgendo spesso lo sguardo in alto. Perché Villon, pur manifestando un attaccamento alla vita in tutti i suoi aspetti, condivise il senso del peccato e l'ossessione della morte. Scriveva in una Ballata del suo "Testament" considerato il suo capolavoro: «Peccatore lo sono, lo so bene, ma Dio pertanto mia morte non vuole, che mi converta vuole e viva al bene. Ben altro che al peccato Dio dà morso; e, sebbene in peccato morto io sia, vivente è Dio: la sua misericordia, se della mia coscienza sento il morso, mi darà, con sua grazia, anche il perdono». Grazie che ottenne. Esposito conferisce un'energia visionaria, oltre che fisica, di grande potenza, facendo risuonare il fiume di parole che escono dalla sua bocca di echi quasi ascetici che attingono dal buio dell'anima, dalla rabbia e dal delirio, dal grido imploso e dallo smarrimento placato: un magma inarrestabile che sale dalle viscere come una liberazione. La sua è un'appassionata partitura fisica e vocale che fa del corpo in azione o nella sua pacificazione, nel movimento come nella stasi, una mappa di segni carnali che forano lo spazio della scena e la quarta parete. Esposito, esuberante e malinconico, restituisce tutta la gamma espressiva del leggendario personaggio, il ritratto di un uomo beffardo, cinico, brutale, chiassoso, volgare, ma anche triste, amaro, accorato, tenero, lirico, disperato nel cantare la giovinezza perduta, i rimpianti e le persone che l'hanno amato. I tormenti lo agitano nella bella realistica scena costituita da un tombino dal quale sbuca, sosta e vi ritorna, e da un'enorme tubatura sospesa, illuminata da dentro, da dove proviene la voce dell'enigmatico guardiano. Da qui scenderanno dei fiocchi di neve; calerà del pane e del vino; cadranno le corde che lo legheranno e un cappio premonitore; e scivolerà quel rotolo di pergamena dov'è vergata la commutazione della condanna, la "grazia" di cui, all'annuncio di essa, Villon risponderà, con le ultime parole: «C'è sempre stata, Roger. C'è sempre stata. Solo che non ce ne eravamo accorti». Villon-Esposito passando dal riso burlesco alla violenza dell'ironia, dagli accenti velenosi al lirismo, si dibatte con sé stesso alternando energia e pacatezza, inquietudine e sensi di colpa, impotenza e furia, sfumando impercettibilmente da un linguaggio basso a uno alto di versi che Mussapi attinge dai suoi poemi. Parla di amore, di morte, di povertà, di pietà; dell'adolescenza, della madre, e, nell'enfasi del racconto, delle scorribande, dei furti, del sesso consumato. E quando tutta la narrazione sarà compiuta, con un bel colpo di teatro Dall'Aglio farà aprire il sipario del palcoscenico dentro il quale siede il pubblico, aprendo la visione sulla platea vuota da dove provengono gli applausi di spettatori immaginari rivolti a Villon di spalle a noi. Il regista ha immaginato così il finale della vicenda del poeta di cui, storicamente, non si conosce il proseguimento della sua vita dopo la libertà ricevuta. Lo vediamo ricomparire in abiti giullareschi, il volto di biacca e un lungo naso alla Cyrano de Bergerac o di Pinocchio, tra farsa e bugia, stringendo un cuore in mano col quale parla e che farà pulsare mentre reciterà la sua ultima commedia – dalla Ballata "Contrasto tra il cuore e il corpo di Villon" –, ritornato così al suo essere, forse, l'attore che è sempre stato. Ezra Pound amava dire che la poesia di Villon è reale perché egli la visse. E noi lo crediamo perché lo spettacolo ci restituisce l'intenso realismo della sua vita.

Giuseppe Distefano

Ultima modifica il Sabato, 20 Aprile 2019 11:20

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