di Athol Fugard, John Kani e Winston Nitshona
adattamento in francese di Marie – Hélène Estienne
regia: Peter Brook
con Habin Dembélè, Pitcho Womba Konga
luci: Philippe Vialatte
elementi di scena: Abdou Ouologuem
produzione Cict Théatre des Boufes du Nord, al teatro Studio, Milano (prima nazionale), 2007
Lunedì, alla «prima» di «Sizwe Banzi est mort» - lo spettacolo di Peter Brook che la Galleria Toledo e l'Associazione Alf Laila presentano ancora oggi al Politeama - c'erano centocinquanta spettatori paganti. E martedì, alla seconda recita, arrivavano appena a duecento. E a parte Mariano Rigillo, Anna Teresa Rossini e Giuseppe Sollazzo, non c'era nessun altro dei teatranti che lunedì sera avevano affollato il San Ferdinando. Dunque, non c'entra la concomitanza fra la «prima» di «Sizwe Banzi est mort» e la riapertura del San Ferdinando. L'episodio, più che l'ennesima brutta figura fatta dalla città e dal suo ambiente teatrale, costituisce lo specchio in cui si riflettono i gravi problemi (politici e culturali) che stanno sul tappeto da decenni senza che i continui proclami trionfalistici riescano a nasconderli. E semmai, c'entra il fatto che il Politeama, una volta il tempio napoletano della prosa di giro, è da anni praticamente chiuso. Ma basta, veniamo allo spettacolo. Si tratta di un gran pezzo di teatro, e di un'altra applicazione probante delle teorie che da sempre presiedono alle messinscene di un maestro (autentico) come Brook. Il testo - firmato dai neri John Kani e Winston Ntshona insieme con il bianco Athol Fugard - si riferisce al teatro delle «township», le baraccopoli in cui, ai tempi dell'apartheid, vennero segregati i sudafricani di colore. E narra di un giovane, appunto Sizwe Banzi, che riesce a procurarsi il «pass» concesso dai bianchi, e senza il quale non può né risiedere in città né lavorare, solo togliendolo a Robert, un altro derelitto nero trovato morto in strada. Quindi - su suggerimento di Styles, un fantaccino tutto pepe che prima ha fatto l'operaio alla Ford e poi s'è improvvisato fotografo - muore (giusto il titolo) come Sizwe e rinasce come Robert. Per quanto poi riguarda l'allestimento, qui Brook sembra richiamare la tecnica propria di Kantor, l'uso degli «oggetti di rango inferiore» per sottolineare lo splendore della realtà: vedi, poniamo, quegli appendiabiti che si trasformano in porte. A differenza del maestro polacco, però, Brook utilizza la «povertà» dell'insieme (niente scene, pochissimi arredi, costumi ridotti al minimo) per esaltare al massimo la parola: la quale, in quello spazio pressoché nudo, diventa addirittura esplosiva; e deve diventarlo, perché è una parola politica. Basta considerare il passo relativo a Bass Bradley, il direttore della fabbrica che si preoccupa dell'incolumità degli operai soltanto scrivendo sul pavimento: «Proteggete i vostri occhi, indossate gli occhiali». Inutile soffermarsi sull'ironia dissacrante che connota simili momenti dello spettacolo. Giova, invece, insistere sulla giovanissima felicità espressiva ancora una volta messa in campo dal grande vecchio della regia mondiale: e intendo il termine «felicità» nel doppio senso di perfezione tecnica e gioia creativa. Penso, tanto per fare un altro esempio, a quella catena di montaggio che procede al ritmo della tipica musica nera sudafricana. E il resto è affidato ai due formidabili interpreti: Pitcho Womba Konga (Sizwe Banzi) e Habib Dembélé (Styles). Lunghissimi, e convinti come raramente capita di rilevare, gli applausi che l'altra sera hanno salutato questo piccolo capolavoro. Peggio per chi non c'era.
Enrico Fiore
Da alcuni anni Peter Brook, dopo aver esplorato il substrato delle più antiche civiltà del mondo, ha concentrato ogni sforzo nella disamina del Continente Nero. Dedicandosi in particolare al Sudafrica, culla a suo dire del primitivo insediamento umano. Nacque così Le costume, l'affascinante introspezione nella cultura della magia ancestrale, che formava un dittico con la solitudine dei protagonisti di Woza Albert!. Erano spettacoli desunti dalla viva parlata e dal mitico background di civiltà condannate dalla storia come la si pratica nel nostro privilegiato emisfero. Mentre ora, alla svolta degli ottant'anni, il regista si volge alla vera drammaturgia degli esclusi scegliendo una pièce scritta da John Kani e Winston Ntshona con l'essenziale contributo di Athol Fugard, da tempo sensibile ai problemi dell'emarginazione dei neri nelle township del Sudafrica.
Il titolo prescelto, Sizwe Banzi est mort riguarda l'alienazione dell'individuo non tanto dal gruppo etnico originario ma addirittura dal nome che porta fin dalla nascita. Infatti sulla scena spoglia dove vivono in disarmonia i rari oggetti essenziali all'azione, incontriamo un operaio della Ford (lo straordinario Habib Dembélé) che, dopo aver mimato il lavoro coatto che è obbligato ad adempiere si riscatta diventando fotografo perché crede che i corpi immortalati dalla lastra costituiscano il lasciapassare per un'analisi del comportamento, condizione essenziale per la liberazione dell'anima. Purtroppo il malcapitato presto comprenderà che il prezzo della libertà si riduce all'isolamento e che la cosiddetta libera impresa comporta il rischio di un'alienazione peggiore, quella della totale assenza di interlocutori, vale a dire clienti. Finché non si presenta alla sua porta un massiccio alter ego (Pitcho Womba Konga) che, nella sua lotta accanita per la sopravvivenza, ha preso il posto (e il nome) di un morto. In un audace rovesciamento prospettico di sapore pirandelliano destinato a risolversi in una partita a due che non avrà mai fine. I cultori dell'happy end obietteranno che Brook si limiti a scendere con straziante delicatezza nei meandri dell'anima. Ma a noi pare un segno di grande maturità espressiva che un artista, invece di predicare la rivolta s'incammini sulla stessa via del Conrad di Cuore di tenebra.
Enrico Groppali
Nicola Arrigoni