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PRO PATRIA - regia Ascanio Celestini

pro patria pro patria Regia Ascanio Celestini

di e con Ascanio Celestini
Teatro Puccini, Firenze 12, 13 novembre 2011
Teatro Bellini, Napoli dal 2 al 4 dicembre 2011

www.Sipario.it, 24 novembre 2011
Sere fa Pippo Del Bono, a proposito del porto delle nebbie in cui s'è arenata la vicenda nazionale, fra ricatti incrociati, pescecani finanziari e povertà di ritorno, esprimeva (ospite di Gad Lerner su La 7) un pensiero, di derivazione shakespaeriana, che lì per lì suonava apocalittico, inappellabile, altamente tossico. Ovvero che "l'uomo nasce con dolore" e che si aggira, sperduto, tra baratro e sentimento dell'assurdo.

Sembrerebbe un'affermazione nichilista, irreversibile, da "dismissione del vivere"- invece è ad essa che (con stoicismo filosofico applicato alla prassi della quotidiana fatica) ci siamo rapportati per meglio comprendere l'ultimo monologo di Ascanio Celestini-"pro patria", a caratteri minuscoli- di scena al Puccini di Firenze, e successivamente in altri teatri insulari.

Rapportarsi, in che senso? Assimilando la dimensione dell'assurdo alla sola modalità in grado di riscattarla, che è il soffio vitale del teatro, l'unico in grado di "renderla sopportabile", di "prenderla a sberle" per tutte le dolorose banalità che –quell' inverarsi dell'assurdo nella vicenda umana- vampirizza su ogni Storia, sia che la si scriva con la consonante maiuscola, sia che ci si rannicchi nel suo patimento mattinale e singolare (come Elsa Morante ci insegnò a distinguere).

In cosa consiste la genialità di Celestini? Nell'affrontare (prendere per le corna) la dimensione dell'assurdo con la leggerezza, l'agilità di un indolenzimento collettivo non dissimile dalle poesie di Saba o Palazzeschi: lievi, surreali, fitte di una "lieta tragedia" percepibile in controluce, ma mai declamata con foga elisabettiana, né disponibile a "dare sazio" alla famelicità del dio Saturno: sempre "maneggiato" con il distacco, il cordoglio burlesco che furono di Beckett e Jonesco. Anzi aggredito- quel non sense del resistere- da una parlantina proletaria, frenetica, feconda di memoria e fantasia, di invettiva piegata al sorriso, che è scherno di renitenza e saggezza plebea. Immaginate adesso questa strategia di approccio, contro l'assurdo, applicata alle rimembranze coatte, celebrative di una finta unità nazionale di cui si festeggiano (a scadenza dicembre, per fortuna) trame, antefatti, compiuti misfatti: nella verosimiglianza di una condizione carceraria che Celestini decide di "indossare" quale premessa di libertà, essenzialità, fuga all'aria aperta.

"Cavour, Mazzini, Garibaldi, Vittorio Emanuele II. Ora quei padri noi dobbiamo dimenticarli, dobbiamo smentirli. Quelli non furono nostri padri. Furono i seduttori di nostra madre e l'abbandonarono malamente e povera al margine delle loro strade; la buttarono fuori dalle loro carrozze e dai loro letti" sosteneva Paolo Volponi, scrittore e poeta, nel 1984, in un appassionato discorso al Senato italiano (di cui fu membro per poco tempo). Affermazioni mai più smentibili, in un' Italia perennemente incompiuta e dilaniata da faide interne, "figlia di relazioni adultere, clericali e immorali", meticcia dei cromosomi di ciascun Potere, forte o velato, che l'ha divorata, prima ancora che nascesse. Una nazione reclamante la propria "discendenza illustre" (?), ma costretta ad accusare le sue "rivoluzioni tradite" (Risorgimento, Repuppbica Romana, Lotta partigiana)- per non tacere delle troppe viltà che stanno a suo fondamento, dai Savoia in progressione.

Dopo la fabbrica, i manicomi, i call center, Celestini completa il suo circuito di non riconciliati con quel che, nell'immaginario collettivo, è l'universo più cupo ed insormontabile che possa "esistere ed annientarci", ma dal quale si può "venir via" con lavoro di talpa e metodologia di delirio.

Immaginando di preparare un discorso in pubblico, l'attore-scrittore si rivolge a Mazzini quale prioritario interlocutore di un intelletto nazionale presente e latitante, nell'estremo paradosso di una condizione illuministico- borghese, sospesa tra profezia (di ciò che perniciosamente accadrà) ed esilio strumentale (dal coinvolgimento in prima persona). Servitù e grandezza di una specifica classe di (nocivi) pensatori "affacciati alla finestra della storia" per interpretarne mistificazioni, vertigini, opportunismi, menzogne. Ma incapaci di dare nerbo alla crescita di un Paese dei Balocchi, dove il Pinocchio che è in noi finisce puntualmente in bocca al pescecane. Ritrovandoci dentro papà Geppetto e l'insospettabile, sventurata progenie.

Angelo Pizzuto

Ultima modifica il Lunedì, 23 Settembre 2013 18:47

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