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PINOCCHIO - regia Antonio Latella

"Pinocchio", regia Antonio Latella "Pinocchio", regia Antonio Latella

drammaturgia Antonio Latella, Federico Bellini, Linda Dalisi
regia Antonio Latella
assistenti alla regia Brunella Giolivo e Michele Mele
scene Giuseppe Stellato, costumi Graziella Pepe
musiche Franco Visioli, luci Simone De Angelis
con Michele Andrei, Anna Coppola, Stefano Laguni, Christian La Rosa, Fabio Pasquini, Matteo Pennese, Marta Pizzigallo, Massimiliano Speziani
produzione Piccolo Teatro di Milano - Teatro d'Europa
visto al Teatro Strehler, Milano, il 24 gennaio 2017

www.Sipario.it, 26 gennaio 2017

Pinocchio di Antonio Latella non è uno spettacolo per bambini, Pinocchio è uno spettacolo 'per soli adulti', adulti che abbiano voglia di guardarsi in faccia e scoprirsi degli inguaribili bugiardi. Chi è Pinocchio? E' un daimon, una vocina che parla, parla, articola parole appena nato, che possiede la verità della lingua e deve studiare l'abbecedario per imparare a mentire. E' il figlio che Geppetto vorrebbe, è colui o quella cosa che dovrebbe realizzare le attese del padre, ma che subito gli sfugge. Pinocchio è figlio della fatina – la bambina morta dai capelli turchesi - , è burattino che si fa carne, così come Dio si è fatto carne per denunciare le nostre bugie. Pinocchio di Antonio Latella – spettacolo prodotto dal Piccolo Teatro su drammaturgia di Latella, Federico Bellini e Linda Dalisi – è una sfida ai bugiardi, è il teatro che va in cerca di verità e te la caccia in faccia. Pinocchio incita il pubblico a batter le mani trasformando gli spettatori in burattini, siamo nel paese dei balocchi, siamo destinati a diventar tutti ciuchini, se già non lo siamo. Pinocchio è un viaggio nel paese dei morti, è una metamorfosi continua, è l'invito dantesco ad andar fra la perduta gente... che forse siamo noi seduti in platea, sperduti in mille comode falsità e affamati di verità.
Con Pinocchio Latella prosegue con grande coerenza la ricerca della verità insita nella finzione. Latella conferma la volontà destrutturante di interrogare i grandi testi e – perché no – di rifondare il teatro partendo dal una scrittura densa di parole e di immagini in cui centrale è l'attore chiamato a incarnare col suo essere la fragilità illuminante della verità, contrapposta al falso, al rappresentato, alla pentola di fagioli pitta. E' accaduto col Servitore di due padroni, con Natale in Casa Cupiello, accade ora con Pinocchio. In scena un enorme tronco d'albero sospeso, una lamina che viene usata ora come porta della casa di Geppetto (Massimiliano Speziani), piuttosto che porta degli inferi, una sega da cui prende forma Pinocchio. Sul palcoscenico ci sono tutti i personaggi, impossibilitati ad uscir di scena: il grillo parlante (Fabio Pasquini), la Fata dai capelli turchini (Anna Coppola), Pulcinella che è anche la Volpe (Stefano Laguni) e Arlecchino che è anche il Gatto (Michele Andrei), Colombina (Marta Pizzigallo), il musico (Matteo Pennese) e naturalmente Pinocchio. Con il tronco appiccicato sul torso, Christian La Rosa per oltre tre ore parla, salta, cade, gioisce e soffre, muore e resuscita bambino regalando una sublime prova di interprete, incarnazione di un'idea, costruzione sensibile della verità contrapposta alla bugia. Su tutto e tutti piove una pioggia di trucioli che come neve ricopre tutto, che diventa cibo, il cibo di cui è affamato Pinocchio, la miseria che condanna Geppetto alla sussistenza e la speranza di fuggirla grazie a quel figlio fatto, più che generato, figlio che subito gli sfuggirà, come Geppetto fugge verso un nuovo mondo, finendo nella pancia del pescecane. Pinocchio – nella rilettura di Latella – è un portatore sano di verità che viene istradato, irretito dal mondo, dal Grillo che più che essere voce della coscienza è voce del mondo e delle sue falsità. Non è un caso che Pinocchio venga riconosciuto nella sua autenticità da Arlecchino e Colombina, trovi nel teatro di Mangiafuoco la necessità di ribadire l'urgenza di creare la verità.
Antonio Latella lavora su più registri di pensiero. Affida alla lingua, alle parole, alla loro elencazione, sillabazione, la conoscenza di un mondo che è imposto al burattino, e che Pinocchio fugge, ribadendo sempre e comunque la sua libertà, la sua naturaliter forza eversiva. E nel fiume di parole laddove Pinocchio balbetta è nel pronunciare il nome mamma, e non solo perché una mamma Pinocchio non ce l'ha e non solo perché la sua mamma è la Fatina e il riconoscerla è dolore, il dolore della perdita di una mamma morta che ritorna. L'aspetto del linguaggio e dell'educazione, quell'abecedario che non istruisce ma omologa, si intreccia alla riflessione sulla paternità, sull'evaporazione del padre, direbbe Jacques Lacan, su un Geppetto che costruisce il burattino per adempiere a un proprio bisogno di realizzazione, che crea e non genera. Pinocchio procede per immagini, tanto nella prima parte è macchinoso, a tratti disorientante, quanto nella seconda è pura bellezza, un viaggio nella poesia della scena, in cui non tutto deve essere spiegato, ma molto si percepisce. Ciò che accade vive d'un mondo che è oltre, di un braccio teso con la morte, col nostro dissolverci, o forse semplicemente mutar forma per pervenire a nuova consapevolezza e forse a una qualche verità. Ciò che fa Antonio Latella è costruire il viaggio 'oltremondano' del burattino Pinocchio che nella pancia del pescecane non solo scopre la realtà della tavola apparecchiata e del focolare non più dipinto, ma anche la consapevolezza che è troppo facile fare un burattino «come figlio, per giocarci, per muoverlo come volevi tu, per fare il buffone coi figli degli altri, per guadagnare soldi, per andare dove volevi, come e quando volevi, un burattino per girare il mondo – dice Pinocchio al padre dentro la pancia del pescecane -. Guardami, pa', io non sono un burattino, sono tuo figlio, il tuo fottuto figlio in carne ed ossa. Guardami. Dimmi perché mi hai abbandonato». E la risposta di Geppetto: «Fare un figlio, non vuol dire amarlo. Io non posso amarti perché sono morto». E cala il sipario con Pinocchio che chiede al naso del padre di crescere, crescere, crescere... e vengono le lacrime agli occhi, e si esce dal teatro Strehler carichi di emozioni e di pensieri.

Nicola Arrigoni

Ultima modifica il Giovedì, 09 Febbraio 2017 10:11

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