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MOLTO RUMORE PER NULLA - regia Giancarlo Sepe

Molto rumore per nulla Molto rumore per nulla Regia Giancarlo Sepe

di William Shakespeare
Traduzione, adattamento e regia di Giancarlo Sepe
Con Francesca Inaudi, Giovanni Scifoni, Pino Tufillaro, Leandro Amato, Daniele Monterosi,
Lucia Bianchi, Mauro Bernardi, Daniele Pilli, Valentina Gristina, Claudia Tosoni, Camillo Ventola, Fabio Angeloni
Produzione di Francesco Bellomo
per il Teatro Eliseo di Roma dal 6 al 28 gennaio 2014 (e successiva tournée)

www.Sipario.it, 13 febbraio 2014

Meritava forse maggiore attenzione di quella che –mi pare- abbia suscitato fra critici, spettatori e gli ineffabili 'addetti ai lavori' (definizione sempre vaga e sibillina) lo shakespaeriano "Molto rumore per nulla " andato in scena al Teatro Eliseo di Roma, con la regia di Giancarlo Sepe, la cui 'prima donna' dovrebbe essere (e in qualche modo resta) la soavità fantasmagorica, intrigantemente lirico/onirica del Bardo immaginifico. Elementi di invenzione ed ispirazione ispirati all'affabulazione medievale, declinati su parole, dialoghi, coralità di volta in volta (o simultaneamente) sussurrate, appassionate, rabbiose, menzognere, sublimanti (di sentimenti taciuti).
Tutte " potenzialità performative- leggo dalle note di regia- che riescono a muovere guerra o amore, instillare lo sdegno o il dubbio", quindi capaci di mutar forma e segno alle mirabilia di un'enclave favolistica, "straniandola per poi non riconoscerla", se non a tempo debito, ovvero allo scioglimento (senza demiurgo) di ogni equivoco ed intreccio amoroso. Elevando l'allora ignota (ma chissà perché fascinosa) città di Messina a cornice\vago luogo che ingloba due tramature di narrazione contrapposte, emulsionate e perfettamente equilibrate: nell'una, che lega il giovane Claudio alla bella Hero figlia del governatore della città Leonato, l'amore è macchiato e ostacolato dall'inganno teso da Don John; nell'altra l'amore, che unisce Benedetto e Beatrice, esso giace nascosto da un sentimento bellicoso ('la allegra guerra') che, mediante il dubbio alimentato da Don Pedro, cederà poi il posto alla pura passione.
"Il vano parlare, da un lato infama un sentimento puro e giovane e dall'altro ne alimenta uno già esistente, ma per orgoglio celato"- puntualizza Sepe. Il cui adattamento trasvola gli accadimenti, dominati da Eros e dal Fatto, in un una sorta di campo nomadi, che da agio all'allestimento (dal punto di vista figurativo) di esemplare i suoi 'lari' colti e iconografici, antichi e moderni- che vanno dal "Circo Squeglia" di Viviani a "La recita" di Anghelopous, con tutte le doviziose farciture espunte dalla filmografia di Emir Kusturica. Sicchè i 'gran signori' del testo originale indossano panni tzigani e colorati, fitti di lustrini, giacche a forma di paltò e gonne ampie e 'lussuriose'. La scena , che non ha quinte né fondali (come 'strada' felliniana) è una sorta di 'luogo di sosta e passaggio' dove il team degli interpreti ascolta e partecipa al racconto.
In un habitat così stratificato ciascuno di essi partecipa di un mélange linguistico reso ibrido da inflessioni vocali e dialettali di promiscua provenienza italica, con comprensibile supremazia del gergo siciliano e partenopeo.
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Proseguendo quell'ideale 'laboratorio' di gruppo avviato anni or sono con "Napoletaltango", Giancarlo Sepe sta ancora a capo di inflessioni e scritture sceniche 'affollate' ma puntuali, 'per ordine sparso' ma di ineccepibile orchestrazione: nel senso (semplice e complesso) che ciascun attore ed attrice delinea il proprio ruolo, rispettando quella che Shakespeare 'intendeva' fosse 'la caratterizzazione a tutto tondo' dei personaggi. Non per limitarne le potenzialità, ma per lasciare al 'piacere' dello spettatore ogni connotazione aggiuntiva alla 'visibilità' dei caratteri e delle circostanze. E con lodevole notazione per i due protagonisti. Sdegnosa, petulante, saccente la bella Francesca Inaudi (nel ruolo di Beatrice); impacciato, goffo, debitamente misogino, Giovanni Scifoni che dà variabili (risibili) umori al personaggio di il Benedetto. Ispirandosi, senza farne mistero (e nemmeno plagio) al Kenneth Branagh del suo sapido film datato 1993.
Tutto per bene? No. C'è chi eccepisce, in questa ennesima variante delle 'moralities' shakespeariane, la carenza di grinta, rischio, gusto della sperimentazione e dello spiazzamento (i punti di vista 'multipli' – cangianti tasselli nella creatività del regista) che sono humus e ragion d'essere del teatro 'inventato' da Sepe nel minuscolo (funzionale) spazio trasteverino della "Comunità". Osservazione pertinente ma –crediamo- ingenerosa, che nulla tiene in conto della differenza fra diversi 'contenitori'. Siano essi l'ex underground di 'cantina' o i diktat impliciti del teatro di repertorio con luoghi, abbonati e attese di traduzione. Lavorare su commissione (capita a Sepe, come a qualunque regista) comporta, alla fonte, alcune rinunce 'contrattuali' fissate dalle apprensioni dell' impresariato.
Vogliamo che ciò sia colpa (o peccato veniale) in tempi talmente infelici in cui andare in scena e 'fare borderò' resta un'incognita ad alto rischio pecuniario?

Angelo Pizzuto

Ultima modifica il Giovedì, 13 Febbraio 2014 21:21

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