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MOBY DICK - regia Stefano Tè

“Moby Dick”, regia Stefano Tè. Foto Chiara Ferrin “Moby Dick”, regia Stefano Tè. Foto Chiara Ferrin

Spettacolo di strada del Teatro dei Venti
Anteprima nazionale
Ideazione e regia Stefano Tè;
adattamento drammaturgico Giulio Sonno;
consulenza alla regia Mario Barzaghi; assistenza alla regia Simone Bevilacqua;
direzione musicale Luca Cacciatore, Igino L. Caselgrandi e Domenico Pizzulo;
costumi a cura di Teatro dei Venti, Luca Degl'Antoni e Beatrice Pizzardo;
disegno luci Alessandro Pasqualini;
audio Nicola Berselli e Andrea Generali;
scenotecnica e realizzazione macchine di scena Dino Serra e Massimo Zanelli;
scenografie Dino Serra in collaborazione con il Teatro dei Venti.
Con Alessio Boni, Oksana Casolari, Marco Cupellari, Daniele De Blasis, Alfonso Domínguez Escribano, Federico Faggioni, Talita Ferri, Francesca Figini, Davide Filippi, Hannes Langanky, Alberto Martinez, Amalia Ruocco, Antonio Santangelo, Felix Pacome Tehe Bly, Mersia Valente, Elisa Vignolo.
E con un gruppo di cittadini, bambini e anziani della comunità modenese; detenuti del Carcere di Modena e di Castelfranco Emilia; richiedenti asilo del Gruppo Marewa - in collaborazione con Caleidos Cooperativa Sociale.
Assistenza di scena a cura di Teatro Ebasko e Ciro Risi.
Una produzione Teatro dei Venti, in co-produzione con Klaipeda Sea Festival (Lituania), realizzata con il sostegno della Regione Emilia-Romagna, del Comune di Modena, della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, con il contributo del Comune di Dolo (VE) in collaborazione con l'Associazione Echidna.
Visto a Modena, in piazza Roma, il 6 giugno 2018

www.Sipario.it, 14 giugno 2018

Ma come faranno i marinai a seguire il capitano nella folle avventura della caccia alla balena bianca? E infatti uno di essi si rivolge aspramente all'Achab del Teatro dei Venti arrampicato sul pennone di poppa della nave-palco Pequod: "siamo qui a seguire la tua ossessione invece di cacciare balene; che diranno gli armatori?", urla, sospeso anch'egli a qualche decina di metri da terra; entrambi stanno issati sulle torri di metallo erette sul palco a figurare l'albero maestro e di poppa della nave; protési nel vuoto davanti alla folla di spettatori che segue, crediamo anche con qualche apprensione, il corso dello spettacolo. E si potrebbe aggiungere: ma come hanno fatto gli attori a seguire il regista Stefano Tè nella quasi titanica costruzione/esecuzione di questo "Moby Dick"? Del resto Tè, in fondo, è pure lui un Achab (si direbbe fin nell'aspetto fisico), che dirige un gruppo dall'energia temibile, piratesca, a caccia della propria personale (sua e forse di tutti) balena bianca; un'impresa che forse ha in comune, con la storia raccontata da Melville, l'amore per l'atto impossibile, gratuito, eseguito sul filo di un pericolo non solo artistico, ma quasi fisico, per gli attori in scena. Con l'aiuto di una "ciurma" di robusti volontari (i detenuti-attori del carcere di Modena e di Castelfranco Emilia) all'inizio vediamo il grande palco con ruote, trainato come fosse un carro dei comici, muoversi e poi posizionarsi di fronte agli spettatori seduti, mentre, sopra, i sedici attori eseguono un'indiavolata sequenza di ritmi e di coreografie (elaborati con la consulenza di Mario Barzaghi), percuotendo una imponente batteria composta da quelli che sembrano tamburi in stile Tai ko do e che sono, in realtà, grandi botti di legno di varie dimensioni. Lo spettacolo è l'atto coraggioso, collettivo, della ricerca di un impossibile, in un'operazione teatrale tutta sbilanciata sul gigantismo della realizzazione macchinistica. E che sia un atto di coraggio e di fiducia nelle possibilità fisiche degli attori quest'opera non cessa di urlarlo dall'inizio alla fine; estremo tentativo di conciliare la tradizione del "teatro in spazi aperti" di più nobile tradizione con le istanze di un teatro che non rinuncia alla drammaturgia testuale, qui estrapolata finemente dal romanzo per opera del critico e drammaturgo Giulio Sonno. Certo, sappiamo quanto i due indirizzi artistici spesso si contrappongano: in un teatro dove l'azione, il montaggio per attrazioni, il lavoro attorale fisico, quasi o del tutto acrobatico, sono preponderanti; dove le esigenze dello spazio architettonico della piazza condizionano il linguaggio, il testo tende a perdere forza in favore della vocalità; i rapporti tra i personaggi a schematizzarsi; l'azione drammatica a tramutarsi nella costruzione di pure immagini teatrali. Qui il dilemma non viene in realtà risolto, malgrado gli attori possano affidare il proprio lavoro vocale alla tronitruante restituzione dell'impianto fonico; tuttavia non ci sembra che lo spettacolo punti a questo. La macchina scenica prende violentemente e volutamente il sopravvento, mentre la presenza del testo è limitata al monologo iniziale (il celebre "Mi chiamo Ismael"); a uno o due dialoghi di uno degli ufficiali con Achab e, se non ricordiamo male, a un paio di monologhi dello stesso capitano. D'altra parte, non è la complessità del romanzo, con la sua febbre digressiva e la sua tensione metafisica, a dettare legge. Qui – ci sembra – importa di più verificare la coincidenza tra lo sforzo erculeo della troupe e l'analoga monomania dei personaggi del romanzo (o meglio di Achab). Se Giulio Sonno, dopo aver ricordato che le fonti del romanzo non stanno solo nella letteratura di mare, ma altresì nello "spirito americano che sognava la democrazia", riesce, nelle sue note di drammaturgia, a fornire un'assai affascinante interpretazione della lotta tra la balena e il capitano affermando: "si può costruire un nuovo modello di società o la massa («the Mob») è condannata alla sopraffazione? Moby Dick diventa allora il «genio della folla», la sintesi impossibile, il leviatano spietato di Hobbes che divora il trascendentalismo di Emerson", nondimeno, nello spettacolo, tutto questo non assume connotati così evidenti. Siamo insomma di fronte a un'opera dove la macchina scenica, che si autoalimenta, si gonfia ed esplode con straripanti effetti nello sforzo di partorire i correlativi oggettivi della propria narrazione (la nave, la balena) esaurisce quasi tutte le possibilità di significazione. La componente "metafisica" è affidata, semmai, all'incontro tra Achab e la balena, sul finale, nel momento in cui l'enorme e stilizzata scultura in legno, meticolosamente costruita fino a quel momento dal gruppo di operai-attori-acrobati, e infine sospesa a mezz'aria sull'albero maestro del palco-chiatta-nave su cui tutta l'azione si consuma, riesce a diventare il personaggio Moby Dick. Nel movimento di avvicinamento che la perizia degli attori riesce a imprimergli, lo vediamo voltarsi maestoso verso l'Achab iracondo e saturnino di Federico Faggioni arrampicato sull'albero, il quale, con un gesto che ci sarebbe piaciuto più esitante, sospeso, trattenuto, evitato, ripreso, interrotto e infine concluso, tocca con la mano la testa del grande mammifero, e gli rivolge la parola, non lo arpiona, semplicemente lo tocca; qualcosa che sembra più un gesto pacificato che un atto di aggressione, una preghiera più che una maledizione.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Giovedì, 14 Giugno 2018 13:47

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