Negli spettacoli della Compagnia della Fortezza c'è qualcosa che va oltre il teatro, qualcosa che sa di rito, di catarsi collettiva o forse semplicemente di atto consolatorio. E' quanto accade alla fine di
Hamlice Saggio sulla fine di una civiltà. Il lancio di lettere di polistirolo dal palco alla platea, dai palchetti alla scena in un rimbalzarsi alfabetico divertito ha qualcosa di liberatorio, gestisce la voglia di dare vita ad un nuovo linguaggio, una nuova semantica che ci liberi dall'empasse di questo presente assurdo e afasico, dai ruoli sociali cui siamo destinati e al tempo stesso ci inviti alla partecipazione e alla condivisione. In questa festosa battaglia letterale sta la consolazione finale dell'affannarsi dei comici/carcerati nello spazio scenico, comici guidati da un Armando Punzo/Amleto e Alice che tiene l'attenzione su di sé per tutto l'arco dello spettacolo. Che le parole, il linguaggio e lo stesso teatro siano materia del discorrere di questa strana crasi fra Amleto e Alice di Carroll è chiaro fin dall'ingresso in sala. La scena si gioca sul contrasto fra bianco e nero, a caratterizzare ogni particolare della scenografia sono fogli scritti fitti fitti, quegli appunti forse che Punzo ha detto di aver peso durante un Amleto visto in Norvegia: parole, parole e ancora parole. Al tempo stesso spettatori sono accolti da Punzo/Amleto che invita da avere coraggio ad entrare, a confrontarsi con un teatro che è scena e corte, che è luogo della finzione e della verità cercata.
Hamlice va avanti per quadri visivi, è a tratti ridondante nel suo insistere sullo spettacolo da farsi, è spiazzante quando alla voce narrante di Punzo si sostituiscono i cammei dei detenuti/attori oppure i tableaux vivants in cui la messinscena offerta dai comici all'usurpatore del trono di Danimarca ha qualcosa di infantile, richiama il clima fiabesco di
Alice nel paese delle meraviglie, un'Alice che è interrogativo e gioco citazionista. In tutto ciò Punzo recupera per sé la parola incarnata della poesia in cui fa capolino l'amato Genet e in cui il richiamo alla realtà carceraria come realtà atemporale, irreale e per sua natura teatrale è persistente. In
Hamlice Saggio sulla fine di una civiltà c'è la voglia di esperire il teatro come festa, ci sono citazioni o influssi che arrivano dal migliore Pippo Delbono, piuttosto che certo gusto figurativo di Bob Wilson, fino a qualche eco da Valter Malosti. Citazioni sottotestuali che sicuramente non sono volute ma che raccolgono e potenziano un'estetica della scena contemporanea che Armando Punzo porta avanti con passione ed energia da venticinque anni su quel palcoscenico di Volterra che è prigione e corte – il cortile del carcere – che è spazio limitato e nella sua limitatezza luogo senza confini per la creatività, che è provocazione di corpi e desiderio di contatto fisico, che è vita da ricostruire e pizzico di morte digerita ogni giorno. Ancora una volta – come è accaduto per I Pescecani e Marat Sade – la Compagnia della Fortezza ha proposto il suo teatro energetico, il suo eccesso estetico per scuoterci dall'apatia e rinunciare ai ruoli precodificati delle parti funzionali affidatici dalla quotidianità e nella festa finale a liberare le parole mai dette, a inventarci una nuova grammatica...
Nicola Arrigoni