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GIUSTO LA FINE DEL MONDO - regia Luca Ronconi

Giusto la fine del mondo Giusto la fine del mondo Regia Luca Ronconi

di Jean-Luc Lagarde
traduzione: Franco Quadri
regia: Luca Ronconi
impianto scenografico a cura di Marco Rossi
costumi: Margherita Baldoni, luci: Claudio De Pace
con Riccardo Bini, Melania Giglio, Pierluigi Corallo, Francesca Ciocchetti, Bruna Rossi
Milano, Studio Piccolo Teatro, dal 27 marzo al 9 aprile 2009

www.Sipario.it, 30 giugno 2009
Il Manifesto, 29 marzo 2009

Tutto si svolge ‘una domenica, evidentemente, o forse ancora durante quasi un anno intero’, la didascalia dà conto di una sorta di cortocircuito temporale che si ritrova anche nell’intermezzo – posto nel cuore della pièce – in cui Louis, 34 anni (Riccardo Bini) parla da morto, ovvero rende esplicito, vedibile allo spettatore il motivo per cui quella domenica è tornato a casa della Madre (Brunan Rossi) e della sorella Suzanne (Melania Giglio). Louis ha un segreto da confessare ed è tornato a casa per questo: ‘Più tardi, l’anno dopo – sarebbe il mio turno di morire – ho quasi trentaquattro anni e questa è l’età in cui morirò’. In realtà questa confessione – confidata al pubblico nel Prologo – non sarà mai espressa ai familiari, Louis torna a casa per un addio che non riesce a dare. Giusto la fine del mondo parte da qui ed è un testo che procede per punti di vista, per monologhi che ruotano intorno alla figura di Louis. Ogni personaggio, in un apparente relazionarsi con Louis, andato via di casa che vive in una imprecisata grande città, fornisce la sua idea che ha di Louis, lo tratteggia e ne dialoga secondo la propria immaginazione, seguendo il proprio sentire, dando spazio al proprio disagio di fronte a quell’uomo tornato a casa dal fratello Antoine (Pierluigi Corallo), dalla sorella Suzanne, dalla madre e dalla cognata Catherine (Francesca Ciocchetti) che vive un imbarazzo esilarante nei confronti di quel cognato dichiaratamente omosessuale. Frammenti di relazioni, proiezioni di un Louis forse già morto nelle parole di quei familiari a cui il protagonista dovrebbe preannunciare la propria morte… In questo gioco di specchi incrinati, di riflessi sgembi a farla da padrona è la solitudine e l’impossibilità delle relazioni. Luca Ronconi se possibile accresce, estremizza le non-relazioni, è come se volesse rendere non solo visibile ma quasi lapalissiana la struttura di Giusto la fine del mondo. Quei monologhi camuffati da dialoghi si realizzano in una sequenza di scene l’una indipendente dall’altra, sequenze di un film che lo spettatore deve comporre a suo piacimento. La recitazione scelta da Ronconi non fa nulla per rendere condivisibile quanto si dice e quanto non accade in scena, adotta toni estranianti che fanno di quei personaggi delle anime, dei fantasmi, delle proiezioni relazionali piuttosto che persone in tutto e per tutto. L’effetto complessivo è di assoluta coerenza, di grande rigore, ma al tempo stesso la struttura ronconiana rischia di rendere ridondante – esplicitando i meccanismi drammaturgici del testo – i sottintesi ellittici di una pièce che vive soprattutto per la libertà che concede allo spettatore nel farsi la sua immagine di Louis. Luca Ronconi a tratti dà l’impressione di voler ridurre questa libertà e forse l’indeterminatezza del testo di Jean-Luc Lagarce.

Nicola Arrigoni

Trappole familiari per cuori rinsecchiti

Torna in palcoscenico Luca Ronconi, con molte presenze attorno a lui a festeggiare la sua capacità di superare egregiamente una malattia. E ci sorprende ancora una volta, dopo l'exploit dell'autunno scorso in cui aveva reiventato in modo mirabile e molto godibile un classico shakespeariano, Sogno di una notte di mezza estate.
Quanto lì il regista aveva investito in un fuoco di fila di invenzioni visive (le grandi lettere dell'alfabeto al neon che componevano e scomponevano le indicazioni geografiche del testo facendosi paesaggio), ora la sorpresa sta invece principalmente nell'austerità sobria con cui ci propone il peso delle parole di un autore contemporaneo già avviato a divenire in Francia un classico.
Giusto la fine del mondo (allo Studio del Piccolo Teatro, fino al prossimo giovedì 9 aprile) è una delle opere di Jean-Luc Lagarce che l'autore non riuscì a far andare in scena prima della propria morte, avvenuta per Aids, lui trentottenne, nel 1995. Le situazioni che lo scrittore racconta ogni volta sono quelle di un gruppo, sociale o familiare, a confronto nella propria piccola quotidianità con eventi che lo trascendono.
Succede anche qui quando forse un suo alter ego, un protagonista malato senza appello, torna a casa per comunicare alla famiglia, da cui si è da tempo allontanato, la propria fine imminente. Nell'arco temporale chiuso in una giornata, in cui arriva e riparte da «casa», ha modo però di assistere, in un confronto sconsolato, a miserie e «grandezze» di cui quel piccolo gruppo sociale è portatore, non sano e non innocente.
Proprio su questo scatta, prima vaga poi sempre più stringente per quanto difficile da accettare ed ammettere, la «complicità» o il coinvolgimento dello spettatore. Perché ognuno di noi avrà avuto modo di conoscere, più o meno direttamente, quanto in una famiglia ci si possa odiare ed amare, spesso con una alternanza di causa ed effetto delle due azioni.
Grettezza e generosità, affetto e gelosia si scoprono anche sul palcoscenico come segmenti ingovernabili di uno stesso, ferreo percorso. Ma le trame e i gonfiori che vanno a disegnare, rimangono ostinatamente e ineluttabilmente esterni al protagonista che pure ne fa parte. Anzi lui, Louis (un Riccardo Bini che l'estraneità progressiva rende freddo analista scientifico di quei diagrammi dolorosi più della propria malattia) è il figlio maggiore, scrittore. A casa trova la vecchia madre di funereo e accattivante buon senso (Bruna Rossi) e la sorella rinsecchita soprattutto nel cuore oltre che nello stridìo della voce. (Melania Giglio). Poi c'è il fratello che più generosamente si sporge nell'affetto e nella gentilezza più si tuffa nelle gaffes e nei paradossi. E il fatto di essere il personaggio più reattivo e «raziocinante» permette a Pierluigi Corallo di dare la prova più convincente assieme alla sua goffa mogliettina piccoloborghese che è Francesca Ciocchetti.
Solo cinque dunque i personaggi, e severo l'impianto scenografico che Marco Rossi ha disposto come una cornice mobile al cui interno si dislocano da angolature diverse il soggiorno con le sue poltroncine di salotto. In quell'alternarsi di luce e buio le scene si succedono come stazioni di una laica via crucis. Un oratorio contemporaneo sulla famiglia e la sua impossibilità a salvarsi, tra la vita sognata e la morte impellente, tra un dentro e un fuori da sé che è destinato a rivelarsi solo una prigione. Tutto il resto sono solo illusioni, o variazioni velleitarie di un destino già segnato, o meglio di destini rivali e in lotta per elidersi a vicenda.
Lagarce non ha forse la brillantezza sarcastica dei Parenti terribili di Cocteau, o il respiro tragico antico di Koltès, nella sua visione del mondo. Ha però un occhio irriverente sull'universo dei rapporti interpersonali, cui pure non mancano birichinate e dubbi, a cominciare da quelli di lessico o di sintassi che continuamente mette in bocca ai suoi personaggi, in questo come in suoi altri testi.
La lingua attraverso la quale ci porge tutto questo (tradotta in questo caso da Franco Quadri) è insinuante e a noi molto contemporanea, tendente alla complessità ma disseminata di scarti continui, quasi per impedire che l'orecchio finisca per assuefarvisi per abitudine. E perché la coscienza del pubblico rimanga vigile, fino all'epilogo sconsolato che ammette che quella comunicazione familiare, per quanto decisiva, è irrimediabilmente impossibile.

Gianfranco Capitta

Ultima modifica il Sabato, 21 Settembre 2013 08:02

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