di Luigi Pirandello
adattamento e regia Carlo Cecchi
con Carlo Cecchi, Angelica Ippolito, Gigio Morra, Roberto Trifirò
e con Dario Caccuri, Edoardo Coen, Vincenzo Ferrera, Davide Giordano
Chiara Mancuso, Remo Stella
scene Sergio Tramonti
costumi Nanà Cecchi
luci Camilla Piccioni
foto Matteo Delbò
Produzione Marche Teatro
Roma, Teatro Argentina, dal 12 al 24 febbraio 2019
La chiave per comprendere l'Enrico IV di Pirandello è nella battuta che descrive il protagonista: "A costui non interessa la persona, bensì l'abito che indossa". Questa pièce, al di là del rapporto fra autenticità e falsità nella vita degli individui, è un lavoro interamente dedicato al teatro e ai vantaggi che può portare nell'esistenza comune.
La storia di un uomo che, guarito, si finge pazzo interpretando un personaggio storico – Enrico IV di Germania – per smascherare i veri ipocriti, offre un'ottima opportunità per riflessioni sulla società odierna. Solo i folli possono vivere in modo consapevole. Tutti gli altri – le cosiddette persone normali – non fanno che recitare un ruolo imposto. Sarà la pazzia, l'autenticità vissuta senza costrizioni, a squarciare ogni maschera, mostrando tutti – uomini, avvenimenti e cose – per ciò che sono.
Nella riduzione fatta da Carlo Cecchi – in scena all'Argentina –, tale messaggio si coglie perfettamente. È anche, a dire il vero, fin troppo esplicito, rischiando di perdere vigore. In questo Enrico IV si è voluta attuare la poetica del teatro nel teatro contro lo stesso Pirandello, cercando così di accentuare la dialettica fra finzione e realtà. Condendo per di più il tutto con battute da trivio, l'opera del drammaturgo siciliano non è divenuta metafora di un'epoca disgraziata e sciagurata come la nostra, bensì un semplice canone – un mero lavoro letterario – da citare, in tal modo accentuando l'aspetto fittizio della messinscena.
Attorno a questa idea s'impernia l'intera orditura dello spettacolo, compresa la recitazione di Cecchi che è apparsa stanca, affannata, con poca vivacità e scarse coloriture nel porgere le battute. Il suo Enrico IV è un uomo stanco, forse provato dalle tante falsità ed angherie subite da chi lo circonda. Proprio per questo non è più interessato che gli altri lo credano folle o sano di mente. Probabilmente ritenendo il testo di Pirandello un po' demodé, a tratti retorico, nei momenti topici del dramma – l'uccisione di Belcredi – Cecchi non conferisce al personaggio una emotività ed una forza tali da far sobbalzare lo spettatore sulla poltrona; bensì lo interpreta come se fosse un atto dovuto, consequenziale, insignificante, neppure tragico: da compiere semplicemente perché scritto sul copione. Nulla di più o di meno di una didascalia, un'indicazione di scena ben eseguita. E quando Belcredi cade a terra morente, Enrico IV lo invita a rialzarsi, perché l'indomani si dovrà realizzare ancora un'altra recita.
Indubbiamente il tutto è coerente e ha una sua unità. Ma in tal modo quale efficacia ha acquisito un'opera come Enrico IV? S'è giocato con essa sul filo della metafora cercando di comprendere se una certa idea di teatro sia ancora valida e attuabile? E ammettendo che la finzione imperi e che occorra bandirla con un pizzico di quella spontanea follia di erasmiana memoria, perché non trasmettere lo stesso messaggio senza esagerare così rischiando di deridere il genio di Pirandello?
Pierluigi Pietricola