di Giovanni Testori
con Federica Fracassi
regia di Renzo Martinelli
dramaturg Francesca Garolla
assistente alla regia Irene Petra Zani
suono Fabio Cinicola,
luci Mattia De Pace
consulenza artistica Sandro Lombardi
creazione costume d'epoca Cesare Moriggi
consulenza e realizzazione oggetti di scena Laura Claus
Produzione Teatro i
Milano, Teatro i, dal 16 Novembre al 5 Dicembre 2016
La disperata vitalità dell'Erodiàs di Federica Fracassi
Posizionata dentro una grande vetrina in plexiglass – spazio mentale e limbo –, la regina Erodiade, come merce esposta e separata dal nostro mondo attraverso quella lastra dalla quale ci guarda e interpella, sembra svegliarsi da un torpore atavico per la recita che deve compiere. La vediamo nella testa conficcata dentro un manichino decapitato rivestito di un fastoso abito settecentesco striato di sangue, dal quale, all'altezza del ventre, emerge solo il suo viso con una barba posticcia. L'effetto è di identificazione con quel Giovanni Battista del quale chiese, attraverso la figlia Salomè, la testa su un vassoio accecata dal rifiuto che il profeta oppose al suo sentimento, amore insieme carnale e spirituale, di attrazione amorosa e violenta fisicità. Ideata dal regista Renzo Martinelli questa folgorante immagine figurativa e di esposizione - insieme ad altri elementi scenici apportati a sostanziare visivamente il verbo testoriano -, apre lo spettacolo Erodiàs di Giovanni Testori, con una strepitosa Federica Fracassi impegnata in un tour de force a dir poco massacrante nel dare voce corpo e anima alle parole alte, ostiche, contaminate dello scrittore milanese, la cui lingua, neologistica e infarcita di latino e arcaismi, stili e registri diversi, gravita attorno a un lumbard plebeo e degradato, e del quale l'attrice ci restituisce tutta la sua musicalità, il soprassalto emotivo e la temperatura carnale. È il secondo dei Tre lai, i monologhi che l'autore di Novate scrisse poco prima di morire, dedicati a tre donne, Cleopatra, Erodiade e la Madonna e alle diverse forme dell'amore che esse incarnano, divenute, in una trasfigurazione feroce e compassionevole, la lasciva Cleopatràs, l'ampia Erodiàs, e la straziata Mater Strangosciàs. Storie in cui tutto è già successo, tutto è contemplato da una sorta di ribollente distanza, ma in cui si covano ancora passioni smodate, desideri inconfessabili e furiosamente svelati; dove cova un'ansia di Assoluto mista alla colpa e alla bestemmia. Come il delirio lucido di Erodiade la regina adultera e blasfema in preda ad un infoiamento per il Battista, ma che ha per rivale nientemeno che Cristo, quel "Cristo che, non arrivando, l'ha condannata a essere atea", spiega il regista Martinelli. Rimasta in body e con tacchi a spillo, tra schegge musicali della Traviata verdiana, sonorità rock, clangori metallici, rumori di vetri infranti, la ascoltiamo, anche nello sdoppiamento di echi della sua stessa voce, sproloquiare d'amore, di rabbia e di lussuria, scomposta davanti ad una piccola teca-reliquia contenente un fallo di plastica al quale continuamente si rivolge; la osserviamo stordita dalla sua fine, dalla sua forza e coerenza, femmina potente che vede il suo potere vacillare e cadere insieme alla testa del profeta materializzato in una piccola marionetta poggiata in alto sulla parete trasparente e che manovrerà dialogandovi, dondolandola e ballando con essa sulle note di un valzer. La regina, una sciuretta brianzola - come la definì l'autore -, un'eroina di uno strampalato «varieté», uscirà dalla vetrina, per infine rientrarvi, posizionandosi seduta davanti al pubblico a inveire ulteriormente, a porre domande, a urlare la sua condanna, mentre consuma un'attesa, forse di salvezza, senza compimento.
Giuseppe Distefano