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DUE GENTILUOMINI DI VERONA (I) - regia Giorgio Sangati

"I due gentiluomini di Verona”, regia Giorgio Sangati "I due gentiluomini di Verona”, regia Giorgio Sangati

di William Shakespeare
versione italiana e regia di Giorgio Sangati
scene di Alberto Nonnato, luci di Cesare Agoni, costumi di Gianluca Sbicca
con Fausto Cabra, Ivan Alovisio, Camilla Semino Favro, Antonietta Bello,
Luciano Roman, Gabriele Falsetta, Paolo Giangrasso, Ivan Olivieri,
Giovanni Battista Storti, Chiara Stoppa, Alessandro Mor, Diego Facciotti
e con la partecipazione straordinaria di Charlie
assistente alla regia Valeria De Santis
produzione Ctb Centro Teatrale Bresciano, Teatro Stabile Del Veneto-Teatro Nazionale
al teatro Sociale, Brescia, 28 ottobre 2017, prima nazionale
Padova, Teatro Verdi dal 24 al 28 gennaio 2018

www.Sipario.it, 26 gennaio 2018
www.Sipario.it, 2 novembre 2017

Come un esploratore premuroso, Giorgio Sangati si inoltra nella regia di un testo di William Shakespeare poco violato dal teatro, rivelando certe primizie che ne abitano la giovane mente.
I due gentiluomini di Verona, prodotto dal Centro Teatrale Bresciano in comunione con il Teatro Stabile del Veneto, si presenta come un'opera puberale dai toni intermittenti. La struttura e la caratterizzazione dei personaggi, in forma di bozza, possono essere osservate con la tenera benevolenza che si rivolge ad adolescenti nel pieno del talento e della carica emozionale.
Una messa al varo con qualche rischio, dunque, trattandosi di un lavoro che si avvicina al non finito, in cui predominano inevitabili fragilità e debolezze, che pongono interrogativi intorno alla reale esigenza di una sua riesumazione. Legata al riverbero della potenza vivifica del suo autore, alla volontà di farne conoscere i primi passi o a ragioni stilistiche connaturate al regista?
Nelle note di regia Sangati descrive la commedia come "acerba, instabile, irregolare, che procede per salti (apparenti), incongruenze (...)" ma anche "spigolosa e sorprendente". In essa Shakespeare "dimostra tutta la sua mirabile abilità nel portare in scena la realtà senza semplificazioni, senza etichette, senza stereotipi" e proprio per questa ragione "oggi, probabilmente più che in altri momenti storici e culturali, in un mondo che ha perso ogni equilibrio e armonia, abbiamo di nuovo gli strumenti per riscoprire e leggere in profondità quest'opera senza pregiudizi romantici".
Protagonista assoluta di questo paesaggio shakespeariano è infatti una perturbazione sentimentale che investe amore, amicizia e, per quanto qui poco dilatato e in fase sperimentale, disinganno.
Il soggetto è reso manifesto dal titolo: due giovani uomini veronesi di alto lignaggio, Valentino e Proteo, uniti da un'amicizia longeva, si separano, il primo per recarsi al servizio del Duca di Milano, il secondo per rimanere legato all'amor cortese di una donna di Verona, Giulia. Nella località lombarda Valentino si scopre innamorato della figlia del Duca, Silvia, che ben presto sarà oggetto delle attenzioni anche di Proteo, giunto in visita presso l'amico. Dediti alle comodità familiari e ancora ben poco attrezzati alla vita – secondo il regista assomigliano a perdigiorno dell'oggi (bamboccioni) trattenuti a lungo dai padri – i due giovani conosceranno il significato del chiacchierato nome "esperienza", che si annuncia attraverso tensioni e languori disseminati lungo il cammino. Per uno scioglimento finale che riscatta e lava precarietà emotiva e contrasti in favore di un amore condiviso.
Parallelamente alle peripezie amorose si intersecano gli espedienti giocosi dei due servitori dei gentiluomini, Svelto e Lanciotto, quest'ultimo con fedele cane al seguito, rappresentanti della povera gente e responsabili di dialoghi vivaci quanto vistosi nell'impianto della commedia.
Il copione è stato pensato e proposto sulla scena con un pastume di elementi buffoneschi e tragici molto ben proporzionati e rivelatori del volto sfaccettato della vita. Trasformando la ritmica agitata e confusa dell'autore, la regia volge lo spettacolo a proprio vantaggio grazie ad un susseguirsi di toni; farseschi e giocosi quando si tratta dei due interpreti principali, Proteo e Valentino, più smaccati e gaglioffi per i rispettivi servitori, Lanciotto e Svelto. Lo stesso bilanciamento espressivo è impiegato dalle donne della commedia, le gentildonne Silvia e Giulia, e l'impettita servetta di Giulia, Lucetta, mediante registri che si allineano per vitalità alle performance maschili.
Presenza unica nel suo genere è il cane Charlie, qui impersonato da se stesso. La scelta di un reale quadrupede stante al seguito di Lanciotto (e della compagnia tutta, con cui affronta una impegnativa tournée) non è soltanto una brillante astuzia (che non va certo confusa con furberia) registica ma anche una piacevolissima incognita, che porta buonumore senza per questo rubare la scena agli umani interpreti.
Il giovane cast, particolarmente energico negli sketches comici, non solo non esonda nella sfumatura caricaturale ma favorisce l'emersione dei tratti ilari dei personaggi. Spiccano, in questo senso, la bravissima Chiara Stoppa (Lucetta) che, insieme a Camilla Semino Favro (Giulia), Paolo Giangrasso (Lanciotto) e Gabriele Falsetta (Svelto), si guadagna il plauso e il divertimento del pubblico. Fausto Cabra (Proteo) e Ivan Alovisio (Valentino) si propongono invece interpretando con pacata signorilità i rispettivi ruoli, per poi traboccare, di contro, in un andamento di gesti scomposto, con tanto di audaci acrobazie. L'abilità fisica effervescente messa in campo svela la componente stilistica del regista Sangati, fine conoscitore degli ingranaggi della commedia dell'arte, che innesta con disinvoltura e criterio.
La scenografia, curata da Michele Sabattoli, raddensa matericamente l'atmosfera dell'opera, divisa tra esuberanza e inquietudine. I colori lividi dell'allestimento  – le mura color sabbia per le città (Verona e Milano), la lamiera per il confine – sono illuminati da un fondale che dirama luci più o meno calde. Questo cromatismo si rabbuia nei cambi scenici, accompagnati da una musica tesa e quasi spettrale. Pungente e degna di nota l'allusiva attribuzione della lettera A cerchiata alla scritta "foresta", topos shakespeariano che abbraccia, in questa rappresentazione, una forma di suggestivo anarchismo anzitempo, indicato come possibile non-luogo portatore di una pacificazione umana per gli astanti sul palcoscenico.
Come a dire che, per recuperare il significato primigenio dell'amore per l'amicizia, cuore palpitante di quest'opera, sia necessario prendere le distanze dal centro del potere e addentrarsi nella naturalità del gesto e della parola (nella foresta) per acquisirne il senso e ricostituire una nuova società.
Come probabilmente accade al pubblico, che si rifugia a teatro per trovare un respiro diverso, lungo ed espansivo, quello della vita.

Stefania Landi

Ne I due gentiluomini di Verona di William Shakespeare c'è quella tendenza di ogni giovane scrittore di mettere nelle sue prime opere tutto lo scibile e il raccontabile, c'è nei Due gentiluomini una materia magmatica di racconto che sa di antico, che è sovrabbondante e che per tutta risposta il regista Giorgio Sangati traduce con pulita essenzialità scenografica. Una serie di pareti mobili definisce e muta lo spazio, costruendo una sorta di labirinto; le scene sono di Alberto Nonnato. Basta una scritta luminosa: Verona o Milano per indicare dove si svolge l'azione: un fuggir continuo dei due gentiluomini Proteo (Fausto Cabra) e Valentino (Ivan Alovisio), amici fraterni che si ritrovano rivali a causa dello stesso oggetto d'amore: la bella aristocratica Silvia (Antonietta Bello). Tutto ciò per buona pace di Giulia (Camilla Semino Favro) che si vede sottratta l'amato Valentino, ma che poi avrà l'ardire e la forza di andarselo a riprendere, travestita da uomo. Verrebbe da pensare che Valentino e Proteo siano l'io e l'es della medesima persona, sono speculari, gemelli, uniti da un'amicizia di sangue; Gianluca Bicca veste i due in maniera identica. Fausto Cabra e Ivan Aloviso sono uno il riflesso dell'altro, agitati, quasi spiritati, sudati ed eccitati in quel loro correr dietro le passioni, in quello sfidare le convenzioni, il fuggir di casa, il negare le promesse d'amore fino a rompere la loro amicizia. I due gentiluomini di Verona è la storia di un'ansia passionale che vede coinvolti tutti: dai due gentiluomini mossi da amore, agli interessi del duca di Milano che vorrebbe la figlia destinata ad un altro e più nobile partito. A questo si aggiungano gli amori fra i servi, imboscate improbabili in foreste alla Sherwood nel bel mezzo della Pianura Padana. Giorgio Sangati domina questa eccedenza di materia narrativa con piglio rispettoso della vicenda, affidandosi a una recitazione eccitata, a tratti caricata, ma necessaria per definire personaggi che in certi passaggi appaiono più come funzioni narrative che altro. E se la vicenda è destinata ad un ovvio quanto un po' macchinoso lieto fine, il gioco sottile che si scorge ne I due gentiluomini di Verona è quello di uno Shakespeare in nuce, è quello di offrire una sorta di centone giovanile che contiene in sé tutte le opere della maturità del bardo. Si avvertono eco da Romeo e Giulietta, il gioco del travestimento richiama la Dodicesima notte, l'agnizione nel bosco il Sogno di una notte di mezza estate. Solo per citare alcune suggestioni che regalano alcuni passaggi drammaturgici dei Due gentiluomini, di cui la regia di Sangati fornisce un'allusiva e mai banale sottolineatura, almeno così è parso a chi scrive. In tutto ciò a conquistare la simpatia del pubblico è il cane Charlie con tanto di gorgiera e come sempre in teatro, cani e bambini rischiano di avere la meglio sugli attori, almeno nel consenso emotivo che arriva dalla platea. Così è per Charlie che divide con il numeroso cast gli applausi finali per uno spettacolo giovane, ritmato ma con una tentazione alla tradizione del grande teatro borghese fatto del piacer di recitare, di gesti ampi e plateali.

Nicola Arrigoni

Ultima modifica il Venerdì, 26 Gennaio 2018 08:35

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