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ALLA META - regia Walter Pagliaro

"Alla meta", regia Walter Pagliaro "Alla meta", regia Walter Pagliaro

di Thomas Bernhard
traduzione Eugenio Bernardi
regia Walter Pagliaro
scene Sebastiana Di Gesu
musiche a cura di Ilario Grieco
con Micaela Esdra
e Rita Abela, Diego Florio
produzione Associazione Culturale Gianni Santuccio - Roma
Al Teatro Fabbricone di Prato, dal 28 al 31 gennaio 2016

www.Sipario.it, 30 gennaio 2016

PRATO - I fantasmi familiari, le ipocrisie di una donna snob e arrivista, un rapporto madre-figlia oppressivo e tormentato, e, sullo sfondo, la riflessione sul ruolo dell'intellettuale contemporaneo, sulla sua difficoltà a incidere su una società ormai alla deriva. Con Alla meta (1981), Thomas Bernhard scrive un testo non immediato, dai ritmi lenti e ossessionanti, immerso in una nordica luce crepuscolare, che ricorda l'altrettanto ossessionante Gabbiano di Anton Pavlovič Čechov. Lasciando da parte riferimenti alla filosofia kantiana, il drammaturgo austriaco si cala nella triste quotidianità di una donna, interpretata da Micaela Esdra, che, dalle sue umili origini è riuscita a divenire moglie di un ricco industriale, proprietario di una fonderia, che ha sposato unicamente per interesse. Nel lungo monologo che costituisce quasi interamente la prima parte dello spettacolo, la donna rievoca stralci della sua vita passata, disprezzando un marito - scomparso da ormai venti anni -, dalla personalità scialba, ma comunque a lei fedele e devoto. A disturbare questa donna ipocrita, frivola e ligia alle apparenze - in questo ricordando tanti personaggi femminili di Tennessee Williams -, l'aver partorito, e subito dopo odiato, un figlio deforme, scomparso ad appena due anni. L'attribuirne la responsabilità al marito, altro non ha fatto che acuire la distanza fra i due, fino al momentaneo riavvicinamento per la nascita della secondogenita, cui la madre è adesso morbosamente affezionata, per una sorta di patologico egoismo. È a lei, interpretata da Rita Abela, che la madre si rivolge ora con durezza, ora con aria di comando, ora con disprezzo, ora con un mellifluo accento beffardo.
La scena coglie le due donne impegnate nei preparativi per la partenza per Katwijk, località balneare olandese, dove da decenni le due donne si recano in villeggiatura; un luogo agognato durante il resto dell'anno, per la sensazione di illusoria tranquillità che l'accompagna, per lo scenario fiabesco che lo circonda, per la speranza di una rottura della monotonia cittadina. Il palcoscenico ingombro di valigie, che la figlia riempie di abiti, rende l'idea di un rituale anch'esso ossessivo, che porta in sé i germi di un malessere psicologico non ben definito. A portare, quest'anno, un soffio di novità, il fatto che le due donne ospiteranno un giovane drammaturgo, del quale hanno visto e applaudito lo spettacolo Si salvi chi può, e che hanno conosciuto in quell'occasione. Il lungo monologo della madre, interrotto qua e là dalla figlia con brevi osservazioni, dipinge agli occhi del pubblico una personalità folle, chiusa in un egoismo crudele, interessata soltanto al suo benessere materiale, anaffettiva verso il marito e i figli, intenzionata a tenere legata a sé la figlia superstite. Un fiume di parole che scaturisce con odio viscerale.
Quello che dovrebbe essere un impietoso ritratto di una paradossale borghesia, perde di efficacia per la poco convincente prova di Micaela Esdra, che offre una recitazione eccessivamente enfatizzata, e incentrata su uno sforzato tono di voce gutturale, che rende poco credibile il personaggio. Non la aiuta, comunque, una regia scialba, rispettosa del testo e dei suoi ritmi, ma priva di originalità. Un allestimento in chiaroscuro, che non riesce a raggiungere le note più profonde del complesso testo di Berhnard. Più interessante, invece, l'interpretazione di Rita Abela, che dà vita a una figlia sottomessa, silenziosa, persa nella noia di una vita senza particolari prospettive, sempre sola con la madre, che blocca puntualmente i suoi tentativi di emancipazione. Nella sua imposta fedeltà alla madre, Abela esprime una pietà non scevra di comprensione per questa madre profondamente infelice, capace soltanto di rendere infelici anche gli altri, per i quali nutre scetticismo. Non ne è esente il drammaturgo che dovrà ospitare, del talento del quale dubita con pesante ironia, chiedendosi quanta sincerità ci sia nei suoi scritti. Il testo di Bernhard ammanta d'ambiguità l'interesse che le due donne nutrono per l'uomo: apparentemente, per la figlia potrebbe essere un'occasione d'evasione dall'oppressione materna, eppure lei stessa accusa la madre di averlo invitato per "prendersi un diversivo", mentre la madre risponde che lo ha fatto soltanto per far piacere alla figlia.
La seconda parte dello spettacolo si svolge a Katwijk, in quella che sembra una terrazza sul mare, caratterizzata però da un'architettura singolare, che la fa assomigliare a una fortificazione, a una torre sospesa nel tempo, simbolo dell'isolamento di madre e figlia. Il dialogo si sviluppa adesso fra la madre e il drammaturgo, e diviene una sorta di schermaglia sull'efficacia del ruolo dell'intellettuale nella società, sull'opportunità di fissare concetti sulla carta su cui far riflettere l'individuo, sulla possibilità che questa riflessione abbia davvero luogo, sulla coerenza degli intellettuali, sulla loro efficacia. Un dialogo in cui la donna dispiega il consueto cinismo, la consueta ironia, lasciando cadere qua e là alcuni riferimenti ai suoi antenati circensi, personaggi fuori dagli schemi, dotati di coraggio per condurre quella vita nomade e disordinata. È in questa seconda parte che la recitazione di Esdra si fa più intensa e convincente, riscattando la prova opaca della prima parte. A sorprendere la donna, il fatto che il drammaturgo non si prenda troppo sul serio - anzi ammetta i limiti dell'azione dell'intellettuale sulla società -, e si dimostri persona dalla spiccata umiltà di carattere. Diego Florio interpreta con misura un personaggio interessante, paradigma degli intellettuali del secondo Novecento, costretti a rapportarsi con una società materialista, in crisi di valori, chiusa nell'individualismo. È nel commovente finale sospeso che Bernhard mette in discussione l'idea stessa d'individuo, con le sue presunte certezze: rimasta sola sul palcoscenico, la madre afferra il costume da clown del nonno, che porta sempre con sé ogni estate, e danza sulle note del Bolero di Ravel. È la metafora della vita, bizzarra, farsesca, contraddittoria, vivendo la quale nessuno tocca la felicità. L'essere umano, sembra suggerire Bernhard, merita forse pietà, perché la sua crudeltà deriva dalla mancata capacità di comprendere sé stesso.

Niccolò Lucarelli

Ultima modifica il Domenica, 31 Gennaio 2016 12:18

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