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ALBERO (L') - regia Eugenio Barba

Odin Teatret in "L'albero", regia Eugenio Barba. Foto Rina Skeel Odin Teatret in "L'albero", regia Eugenio Barba. Foto Rina Skeel

con Luis Alonso, Parvathy Baul, I Wayana Bawa, Kai Bredholt, Roberta Carreri, Elena Floris, Donald Kitt, Carolina Pizarro, Fausto Pro, Iben Nagel Rasmussen, Julia Varley.
Scenografia: Luca Ruzza, Odin Teatret
Disegno luci: Luca Ruzza, Openlab Company.

Consulente luci: Jesper Kongshaug
Disegno e realizzazione dell'albero: Giovanna Amoroso e Istvan Zimmermann, Plastikart. Programmazione software: Massimo Zomparelli
Costumi e oggetti: Odin Teatret
Manifesto: Barbara Kaczmarek
Direzione musicale: Elena Floris
Direttore tecnico: Fausto Pro
Marionette: Niels Kristian Brinth, Fabio Butera, Samir Muhamad, I Gusti Made Lod
Teste delle bambole: Signe Herlevsen
Foto: Rina Skeel
Drammaturgo: Thomas Bredsdorff
Consulente letterario: Nando Taviani
Testo: Odin Teatret. Assistenti alla regia: Elena Floris, Julia Varley
Regia: Eugenio Barba

Lecce, Cantieri Teatrali Koreja, dal 4 all'8 ottobre 2017

www.Sipario.it, 9 ottobre 2017

Si entra nello spazio dello spettacolo come in una stanza vuota dove la prima cosa che si vede sono gli altri spettatori già seduti che ci guardano, e il poco tempo che si ha per capire dove andare, guidati dall'indicazione silenziosa e gentile di un'addetta del teatro, serve solo a farci percepire confusamente l'ambiente: una stanza color arancio, due lati lunghi occupati dagli spettatori e due brevi, vuoti, a chiudere il perimetro. E' lo "spazio fiume", il tipico luogo dove tumultuano gli spettacoli dell'Odin Teatret, scorrendo tra due sponde di pubblico; con una sorgente e una foce intercambiabili da cui nasce, muore, ritorna a nascere e morire la corrente di azioni.

Se siamo di fronte all'usuale spazio Odin si potrebbe dire che l'unica sorpresa è data dalle sedute per gli spettatori: alle tipiche panchette disposte lungo i lati lunghi ecco sostituirsi un tubo di plastica nero e turgido, un salsiccione che fornisce una prima e una seconda fila sovrapposte.

Seduti, abbiamo modo di guardare con più attenzione. I lati corti dello spazio, chiusi da quinte arancioni, lasciano intravedere aperture dalle quali è lecito aspettarsi le entrate e le uscite degli attori. Solo su un lato (per noi quello destro) stanno disposti tre parallelepipedi praticabili di diverse altezze; dietro agli spettatori, la lunga teoria arancione del telo che va a congiungersi sui lati brevi e riprendere dall'altra parte, dove i volti degli altri convenuti ci guardano disposti su due ordini di posti, uno rialzato sull'altro.

E' indispensabile descrivere lo spazio di uno spettacolo dell'Odin prima di entrarvi con la memoria e il racconto perché sarebbe impossibile riuscire a dare il senso di quanto accade senza soffermarsi prima su quest'aspetto. La frontalità del teatro all'italiana e la distanza che separa le file di platea dalla scena, annullerebbero l'effetto sensoriale che gli spettacoli del gruppo danese imprimono sugli spettatori: dove la fissità dello sguardo è bandita e la pupilla dello spettatore brucia nel dinamismo della simultaneità. Non fissandosi, l'occhio rimane attivo su più punti, non si lascia assorbire dalla seduzione di quanto vede di fronte a sé, ma ha modo di staccarsi di quando in quando e raffreddare il meccanismo illusivo insito nello sguardo prospettico tradizionale; di cercare un proprio montaggio, che può comprendere anche la reazione degli spettatori seduti davanti, o quella del regista stesso che prende posto tra il pubblico.

Ma eccoci seduti: se si alza la testa, il nostro cielo di spettatori smette i solidi panni di legno e muratura per farsi nuvola e cavi (è il paradosso del teatro: perché si dia la mobilità eterea della nuvola ci debbono essere cavi che ne sospendano lo spirito al trave): così un telo bianco fluttua sulle teste degli attori e in parte sulle nostre e lascia intravedere numerose fessure, tagli, dagli orli robustamente cuciti. Ma non si tratta di nuvole, e lo scopriremo più avanti.

Ad entrare per prima è Iben Nagel Rasmussen, una delle attrici storiche del gruppo; poi, due cantastorie musiciste (Elena Floris e Parvathy Baul). Iben si volge verso i grossi rami disposti al centro della scena pavimentata in color grigio chiaro e si presenta col suo nome di battesimo "Sono Iben, mio padre era poeta. Quando sono nata piantò un pero". L'identità biografica degli attori, per quanto nota ai seguaci del lavoro del gruppo, era sempre stata coperta e insieme manifestata da un personaggio. Questo gioco di rimandi tra biografia dell'attore e tramatura dei personaggi si era manifestato con più folgoranti cortocircuiti proprio nel lavoro di Iben, ma mai, ci sembra, così dichiaratamente – almeno in uno spettacolo del gruppo, mentre ciò era sicuramente avvenuto al livello dei lavori autonomi dell'attrice danese. Ora lo svelamento è dichiarato, ed è anche un ri-velamento: un altro riflesso del complesso gioco di specchi che sostanzia ogni spettacolo dell'Odin. Iben è sé stessa ed è anche una figura aerea, raddoppiata da una bambina che vuole volare (una Iben bambina impersonata da una giovane attrice, Carolina Pizarro) e una donna alla soglia della vecchiaia che cerca ancora il volo, di spiccarsi dai rami dell'albero che il padre piantò per lei.

Ed ecco introdotta la figura centrale dello spettacolo, che fa riferimento a quello che Barba nel libretto di sala chiama "L'albero della storia". Esso "cresce forte e morto". E crescerà materialmente nel corso della performance: i grossi rami troveranno innesto su una base a fusto che darà forma all'albero e consentirà agli attori di salirci, agire e appendervi oggetti. Se Iben incarna uno dei principi positivi dello spettacolo, il cuore vivo e amorevole, l'altro è dato dalla presenza di due buffi e teneri monaci yazidi (Julia Varley e Donald Kitt) che nel deserto della Siria decidono di piantare un albero (sono loro a "montarlo" in scena) perché, una volta cresciuto, i suoi frutti richiamino gli uccelli, che sono tutti scomparsi.

S'intravede subito la filigrana metaforica dietro la situazione: a dominare è il "panorama scheletrico del mondo" per dirla col poeta Campana, che s'impone a partire dalla cronaca del quotidiano sprofondare dell'umano nella ferocia antiumana. Lo "spettacolo che cresce leggendo i giornali" ha attinto alla cronaca delle guerre in varie parti del mondo (ci sono i Balcani, la Liberia, la Nigeria) e da lì ha incontrato sul suo cammino romanzi e biografie, di criminali e di vittime. Sono informazioni che ricaviamo dal libretto di sala (ma i "libretti" dell'Odin sono opere parallele allo spettacolo, sono ipertesti, parte della stessa drammaturgia, e questo conta un centinaio di pagine!).

Al principio positivo si contrappone il principio negativo: ecco presentarsi due signori della guerra: uno europeo e uno africano. Il primo è la controfigura di Arkan, la famigerata "tigre" responsabile del massacro di Srebrenica. Lo vediamo nei panni di Kai Bredholt attaccare un'allucinante arringa a propria difesa, come fosse davanti a un tribunale internazionale, con tanto di segretario, anch'egli in giacca e cravatta come Arkan (Fausto Pro) che in piedi, portatile alla mano, sembra come verbalizzare le parole della tigre, tradotte dal danese in italiano da una calda e morbida voce registrata. L'altro signore della guerra è africano: quel tale che arruolò un esercito di bambini soldato in Liberia e perpetrò stragi inenarrabili, insegnando ai giovanissimi guerrieri a uccidere e torturare "per gioco", indossando maschere di Halloween; lo stesso che per rendere invulnerabile il proprio esercito prima di una battaglia era solito effettuare un sacrificio umano con uno degli stessi "suoi" bambini.
Ma tutto questo nello spettacolo non si vede. I Wayan Bawa, l'attore balinese che impersona il carnefice africano, come lo stesso Bredholt, agiscono in maniera stilizzata; la sequenza della decapitazione eseguita dal primo è condotta come una coreografia, con una spada corta e larga: la trasposizione evoca e rende giocoso un rituale di morte e disturbante quello che sembra un gioco: quando agli orsacchiotti e alle bamboline che Iben ha posto a cavalcioni sui rami vengono staccate le teste, quello che vediamo in azione, a fronte dell'innocenza ludica della sequenza, è l'energia guerriera veicolata dalla tecnica della danza balinese del re Gambuh, con urla e movimenti coreografati. E' il teatro eurasiano, come dice lo stesso I Wayan "C'è una corrispondenza tra tra i principi del teatro-danza balinese e la drammaturgia dell'Odin Teatret. Solo che uno è tradizionale e l'altro contemporaneo". Questo modo di procedere scalda e insieme raffredda l'azione; rende manifesta l'atrocità e insieme la distanzia nel gioco scenico, ma non ne diminuisce l'effetto catartico.

Se uno dei centri dello spettacolo verte sul sacrificio umano e sui bambini-soldato, uno dei gesti che ricorrono è l'atto della decapitazione: "Tutta la mia cultura è piena di teste mozzate. Le ho ammirate in tante opere d'arte nei musei che sono l'orgoglio delle capitali europee" scrive Barba nel "libretto". C'è un fondo oscuro nella bellezza profusa dalla nostra civiltà che è inestricabilmente collegato con un atto atroce come quello dello sgozzamento: ricordiamocelo, pare ammonire il regista. Così il momento in cui il telo bianco in alto viene staccato e calato sugli spettatori, inducendo ciascuno a infilare la testa nella feritoia in modo tale che, a operazione conclusa, tutti possano vedere di fronte a sé qualche decina di teste separate dal corpo è un cortocircuito che addensa di colpo tutti gli stimoli finora registrati in un'immagine che si riversa sul pubblico responsabilizzandolo. O come la forza rabbiosa del personaggio di Roberta Carreri che sputa fuori il proprio veleno immedicabile di madre la cui figlia è stata decapitata sotto l'albero della dimenticanza, e gira con una calabasse nella quale tiene riposta amorevolmente la testa della ragazza: non si può dimenticare l'orrore, esso torna fuori sotto forma di memoria e la memoria alla fine reclama i suoi diritti. Ma la madre di Roberta è ben lontana da questa pacificazione, ella non può parlare che prolungando frasi rabbiose fino alla fine del respiro, con le ultime parole quasi soffocate in gola, e che subito un altro respiro riprende a mordere la carne dei carnefici.

E alla fine tutto questo spazio ci sembra, anche, una stanza dei giochi. I nasi rossi che gli attori portano per tutto lo spettacolo, ad esempio: viene subito in mente il rinvio ai bambini-soldato che si travestono da Halloween per le loro atrocità, il nesso bambini-gioco-crudeltà e poi le bambole appese all'albero, le marionette dei bambini-soldato manovrate da figure in nero che richiamano le silohuette dei miliziani Isis: tolto il riferimento all'infanzia di Iben, sembrano tutti rimandi a un'idea, degradata, di infanzia; l'esatto opposto della stanza dei giochi cechoviana.
Quell'infanzia violata e usata come tabula rasa per impiantarvi il capovolgimento dei valori basilarmente umani sconvolge e fa ribrezzo. "L'albero" è una meditazione profonda su tutto questo condotta con la leggerezza e la forza di una grande opera d'arte.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Lunedì, 09 Ottobre 2017 23:57

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