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ARLECCHINO, SERVITORE DI DUE PADRONI - regia Giorgio Strehler (2017)

"Arlecchino servitore di due padroni", regia Giorgio Strehler. Foto Masiar Pasquali "Arlecchino servitore di due padroni", regia Giorgio Strehler. Foto Masiar Pasquali

di Carlo Goldoni
regia Giorgio Strehler

messa in scena Ferruccio Soleri
con la collaborazione di Stefano de Luca

scene Ezio Frigerio
costumi Franca Squarciapino

luci Gerardo Modica
musiche Fiorenzo Carpi

movimenti mimici Marise Flach
scenografa collaboratrice Leila Fteita

maschere Amleto e Donato Sartori

con Ferruccio Soleri

e con (in ordine alfabetico) Enrico Bonavera, Giorgio Bongiovanni,
Francesco Cordella, Alessandra Gigli, Stefano Guizzi, Sergio Leone,
Lucia Marinsalta, Fabrizio Martorelli, Tommaso Minniti, 
Stefano Onofri, Annamaria Rossano
e
i suonatori Gianni Bobbio, Francesco Mazzoleni, Matteo Fagiani, Celio Regoli, Elisabetta Pasquinelli

produzione Piccolo Teatro di Milano - Teatro d'Europa
Milano, Teatro Grassi Visto il 25 maggio 2017

www.Sipario.it, 15 giugno 2017

Vedere Arlecchino servitore di due padroni al Piccolo vuol dire tante cose: intanto stare al cospetto di un pezzo di storia del teatro italiano e non solo; poi significa vedere all'opera una tradizione vivente e, ancora, contemplare un esemplare significativo del teatro di regia del secondo novecento; inoltre significa trovarsi di fronte a una macchina teatrale tersa come un motore dai meccanismi di cristallo perfettamente funzionante; poi imbattersi in una tradizione d'attore incarnata e viva, e infine significa registrare lo strano paradosso per cui l'effimero del teatro si rovescia in una curiosa forma di permanenza: nella lotta tra il tempo che trasforma e la struttura dell'agire umano cristallizzata in uno spettacolo in genere è quest'ultimo a soccombere. Qui abbiamo davanti agli occhi il caso di un pezzo di arte scenica che sembra conservare certe caratteristiche degli esseri umani: invecchia (70 anni) e non solo non dimostra l'età che porta ma, come certi grandi vecchi di cui non si riesce mai a intuire l'età reale, plasma davanti agli occhi dello spettatore l'illusione dell'eterna giovinezza.

Chissà se è la sapientissima tessitura ritmica a trasmettere quest'impressione, sostenuta com'è dallo spirito di servizio di una compagnia d'attori che non cede nulla all'estro del momento, ma pure vivifica con straordinaria energia ciò che appare muoversi nel binario di partiture trasmesse nel tempo da un attore all'altro. In ciò quest'opera è un esempio che ricorda la struttura tradizionale dei teatri asiatici, dove la trasmissione del ruolo è parte integrante della vita teatrale, e dove il concetto di originalità sfuma nelle pieghe del rispetto delle strutture performative ereditate e la creatività trova margini sufficienti e sorprendentemente fecondi nella ripetizione.

Certo che l'emozione è vivissima, tanto più che i mezzi sono quelli poveri che da sempre il teatro è in grado di far risplendere come si trattasse di rari gioielli: l'umiltà delle maschere, degli accessori: un baule di vestiti; un pezzo di carta; una mollica di pane; il bastone d'ordinanza; le portate di un finto pranzo: è il gioco puro dello snodarsi ritmico di vicenda e personaggi disegnati con pochi tratti sapienti; di una cortina sul fondo che periodicamente si agita e partorisce entrate che ogni volta sono uno sbocco di energia nuova, una vigorosa affermazione di vita e di amore per il teatro. In certe entrate perfette par di vedere al lavoro un'essenza: il tempo giusto delle cose, quando è il momento per loro di apparire al mondo e solo quello è il momento e non un altro, non dà forse agli eventi della vita quello stesso sapore di semplicità, leggerezza ed entusiasmo?

Non ci sembra di scorgere alcuna malinconia in questa edizione, come se dopo il tramonto la notte fosse più luminosa del giorno trascorso - poiché in teatro la notte è giorno e il giorno notte; come se la fiamma delle candele fosse più vibrante e luminosa di tutti i moderni tabelloni pubblicitari a led che trapassano l'occhio per le vie di Milano; come se la vecchiaia da un certo punto in poi cessasse di apparire come l'estremo lido prima del trapasso, ma prendesse le forme di una spiaggia appena scoperta sulla nuova terra di un tempo ritrovato, dove la morte fugge via di fronte all'infante, al puer eternus, a colui che ogni volta pare dimenticare la triste necessità di adeguarsi all'aumento dell'entropia, e tende sempre ad azzerare tutto il sapere predeterminato, il cinismo del savoir vivre, davanti allo stupore di un gag, di un'invenzione sempre nuova.

Sono tante le immagini d'attore consegnate dai biografi alle memorie del teatro italiano di tutti i tempi, immagini spesso emblematiche di un'epoca, o di un modo d'essere attore, di una voglia di appartenere, staccandosi dalla microsocietà parallela e invisa del teatro, alla buona società vigente, quanto meno nel mostrarsi ai posteri nella pompa degli apparati messi in scena dalla ritrattistica o dall'aneddotica; eppure anche noi qui non possiamo non proporne una, di immagine, che forse non significa nulla, e che tuttavia ci è apparsa degna di nota: verso le 18 del giorno 25, fuori dal Piccolo Teatro, tra via Rovello e via Dante in direzione Duomo, vediamo apparire tra la folla pre serale già in buona parte abbigliata con le quattro cose che servono a dare il la all'estate incipiente (canottiere, bermuda, cappellini o occhiale, sandalucci) un uomo con un vestito blu d'antan, giacca pantalone camicia bianca; avanza deciso ma leggermente claudicante; non diamo peso alla figura se non per il fatto che proceda con quella strana andatura; ed ecco che, avvicinandosi, ci si svela agli occhi un signore piuttosto anziano dagli occhietti tondi e dal piccolo naso a patata, svelto e assorto, che sta per infilare deciso l'androne che porta al chiostro del teatro: è proprio Ferruccio Soleri, il solerte Arlecchino ottantasettenne che va a lavorare, a prepararsi per la recita serale, attraversando il portone, ci sembra, quasi col timore di farsi troppo notare, con la dignità sicura dell'operaio o dell'artigiano che va a riprendere in mano il pezzo che aveva lasciato sul tavolo, in bottega, il giorno prima, e giorno dopo giorno ha lavorato, levigato e messo a punto fin quasi a farlo sparire come oggetto delle apparenze, separato dalla profonda verità delle cose, per entrare con esso nel dominio sempre cangiante e vivo della natura.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Domenica, 18 Giugno 2017 20:25

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