ASipario Mensile e Portale: scopri il mondo dello spettacolo. Guida ai Teatri, ai Festival, alle Scuole di Danza e di Teatro; Recensioni degli spettacoli, Comunicati stampa, Cyclopedia e molto altro.https://www.sipario.it/recensioniprosaa.feed2024-03-28T20:07:25+01:00Joomla! - Open Source Content Management'A CIRIMONIA – regia Enzo Vetrano e Stefano Randisi2021-11-21T22:31:56+01:002021-11-21T22:31:56+01:00https://www.sipario.it/recensioniprosaa/item/14049-a-cirimonia-regia-enzo-vetrano-e-stefano-randisi.htmlGigi Giacobbe<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/1ddb92763cb1d8fa047ec9b74e5c41d3_S.jpg" alt=""'A cirimonia", regia Enzo Vetrano e Stefano Randisi" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>di Rosario Palazzolo</strong><br /><strong>Regia di Enzo Vetrano e Stefano Randisi interpreti pure di ‘U masculu (Randisi) ‘A fimmina (Vetrano)</strong><br /><strong>Scene e costumi di Mela Dell’Erba</strong><br /><strong>Luci: Max Mugnai</strong><br /><strong>Musiche e suono: Gianluca Misiti. Elettricista: Antonio Rinaldi</strong><br /><strong>Le canzoni dello spettacolo sono cantate da Raffaele Misiti</strong><br /><strong>Le voci registrate sono di Rosario Palazzolo e dei piccoli Alberto Pandolfo e Viola Palazzolo</strong><br /><strong>Produzione: Teatro Biondo di Palermo/ Teatro Stabile di Catania/ERT- Teatro Nazionale/Soc.Coop.”Le tre corde” </strong><br /><strong>in collaborazione con Compagnia Vetrano-Ransisi</strong><br /><strong>Sala Strehler del Biondo di Palermo dal 17 al 28 novembre 2021</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 begin title:<strong>www.Sipario.it, 20 novembre 2021</strong>}</p> <p style="text-align: justify;"><em>‘A cirimonia</em> è un testo di Rosario Palazzolo del 2009, più volte interpretato e messo in scena da lui stesso in varie location compresa quella di Pagliara Rocchenere (paesino collinare a sud di Messina) in un fine luglio di dieci anni fa all’interno del Pubblico Incanto Artheatre Festival diretto da Tino Caspanello, successivamente purtroppo senza avere avuto un seguito, di cui ricordo che trattavasi d’uno spettacolo in dialetto palermitano sulla solitudine e sull’incomunicabilità tra il maschio e la femmina. A rinverdire adesso questa pièce dalle aure beckettiane e scaldatiane c’ha pensato adesso una formidabile coppia di attori palermitani che rispondono ai nomi di Enzo Vetrano e Stefano Randisi che conosco quasi da mezzo secolo, diventati ormai i beniamini di un interessante teatro nazionale sperimentale di ricerca, i quali, sempre in coppia hanno interpretato e messo in scena nella Sala Strehler del Biondo di Palermo il lavoro di Palazzolo, di cui si udrà qui la sua voce registrata assieme a quella dei piccoli Alberto Pandolfo e Viola Palazzolo. La scena di Mela Dell’Erba è composta da un archeggiato centrale guarnito con fiorellini e lucette colorate che talvolta s’illuminano a festa e ai lati spiccano alla rinfusa un’infinità d’oggetti bric-à-brac, compreso una sorta di tavolinetto su cui staziona una torta con candela somigliante invero più ad una pagnotta di casa. I due personaggi sembra che giochino a travestirsi. Vetrano è truccato da donna, indossa una parrucca bionda e un ampio abito bianco da sposa simulando d’essere <em>‘a fimmina</em>. Randisi sembra un clochard con quella giacca e pantaloni consumati, porta in testa un cappello e agli occhi un paio di occhialini neri fingendo d’essere cieco e interpretando il ruolo dell’uomo tout court, <em>‘u masculu</em> insomma. Sono lì adesso in quello spazio, pare per celebrare come ogni anno qualcosa che somigli ad un anniversario, ad una ricorrenza importante che il maschio chiama <em>‘a cirimonia</em>. Il cui cerimoniale si compone d’un ricordo che la femmina deve rievocare per renderlo attuale e presente per passare infine al taglio della torta e poterla mangiare. Vengono alla luce ricordi di morti ammazzati, incesti assurdi e liti violente che evidenziano una vita di miseria di solitudine, di emarginazione, di incomunicabilità, addolcita in parte dalle canzoni cantate da Raffaele Misiti e dalle voci registrate di due bambini che avvolgeranno i due personaggi come un mantra e dalle parole <em>‘u mi ricordu</em>, non mi ricordo, apostrofate quasi per ricordare e tentare di appigliarsi a qualche scheggia di verità, anche quella che i due potevano essere in passsato marito e moglie, ma forse no. Ad un tratto la femmina di Vetrano appallottolando dei giornali incollandoli con dello scotch ne ricava una bambola di carta subito distrutta dal maschio che cambiandosi d’abito farà lui la femmina mentre Vetrano vestirà i panni del maschio, ma i fattori non cambiano perché si rinnoveranno identiche situazioni con quella torta che non verrà né tagliata né mangiata. Alla fine, dopo 65 minuti non sapremo se è meglio ricordare per andare avanti o se è meglio mettere una pietra tombale sui nostri ricordi. Spettacolo potente in cui il tragico e il comico si fondono con una leggerezza calviniana, in cui l’ironia sembra giocare il ruolo più importante, giostrata da una coppia superba di attori che vedremo prossimamente ritornare a vestire e mettere in scena alcuni lavori di Franco Scaldati.</p> <p><strong>Gigi Giacobbe</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 end}</p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/1ddb92763cb1d8fa047ec9b74e5c41d3_S.jpg" alt=""'A cirimonia", regia Enzo Vetrano e Stefano Randisi" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>di Rosario Palazzolo</strong><br /><strong>Regia di Enzo Vetrano e Stefano Randisi interpreti pure di ‘U masculu (Randisi) ‘A fimmina (Vetrano)</strong><br /><strong>Scene e costumi di Mela Dell’Erba</strong><br /><strong>Luci: Max Mugnai</strong><br /><strong>Musiche e suono: Gianluca Misiti. Elettricista: Antonio Rinaldi</strong><br /><strong>Le canzoni dello spettacolo sono cantate da Raffaele Misiti</strong><br /><strong>Le voci registrate sono di Rosario Palazzolo e dei piccoli Alberto Pandolfo e Viola Palazzolo</strong><br /><strong>Produzione: Teatro Biondo di Palermo/ Teatro Stabile di Catania/ERT- Teatro Nazionale/Soc.Coop.”Le tre corde” </strong><br /><strong>in collaborazione con Compagnia Vetrano-Ransisi</strong><br /><strong>Sala Strehler del Biondo di Palermo dal 17 al 28 novembre 2021</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 begin title:<strong>www.Sipario.it, 20 novembre 2021</strong>}</p> <p style="text-align: justify;"><em>‘A cirimonia</em> è un testo di Rosario Palazzolo del 2009, più volte interpretato e messo in scena da lui stesso in varie location compresa quella di Pagliara Rocchenere (paesino collinare a sud di Messina) in un fine luglio di dieci anni fa all’interno del Pubblico Incanto Artheatre Festival diretto da Tino Caspanello, successivamente purtroppo senza avere avuto un seguito, di cui ricordo che trattavasi d’uno spettacolo in dialetto palermitano sulla solitudine e sull’incomunicabilità tra il maschio e la femmina. A rinverdire adesso questa pièce dalle aure beckettiane e scaldatiane c’ha pensato adesso una formidabile coppia di attori palermitani che rispondono ai nomi di Enzo Vetrano e Stefano Randisi che conosco quasi da mezzo secolo, diventati ormai i beniamini di un interessante teatro nazionale sperimentale di ricerca, i quali, sempre in coppia hanno interpretato e messo in scena nella Sala Strehler del Biondo di Palermo il lavoro di Palazzolo, di cui si udrà qui la sua voce registrata assieme a quella dei piccoli Alberto Pandolfo e Viola Palazzolo. La scena di Mela Dell’Erba è composta da un archeggiato centrale guarnito con fiorellini e lucette colorate che talvolta s’illuminano a festa e ai lati spiccano alla rinfusa un’infinità d’oggetti bric-à-brac, compreso una sorta di tavolinetto su cui staziona una torta con candela somigliante invero più ad una pagnotta di casa. I due personaggi sembra che giochino a travestirsi. Vetrano è truccato da donna, indossa una parrucca bionda e un ampio abito bianco da sposa simulando d’essere <em>‘a fimmina</em>. Randisi sembra un clochard con quella giacca e pantaloni consumati, porta in testa un cappello e agli occhi un paio di occhialini neri fingendo d’essere cieco e interpretando il ruolo dell’uomo tout court, <em>‘u masculu</em> insomma. Sono lì adesso in quello spazio, pare per celebrare come ogni anno qualcosa che somigli ad un anniversario, ad una ricorrenza importante che il maschio chiama <em>‘a cirimonia</em>. Il cui cerimoniale si compone d’un ricordo che la femmina deve rievocare per renderlo attuale e presente per passare infine al taglio della torta e poterla mangiare. Vengono alla luce ricordi di morti ammazzati, incesti assurdi e liti violente che evidenziano una vita di miseria di solitudine, di emarginazione, di incomunicabilità, addolcita in parte dalle canzoni cantate da Raffaele Misiti e dalle voci registrate di due bambini che avvolgeranno i due personaggi come un mantra e dalle parole <em>‘u mi ricordu</em>, non mi ricordo, apostrofate quasi per ricordare e tentare di appigliarsi a qualche scheggia di verità, anche quella che i due potevano essere in passsato marito e moglie, ma forse no. Ad un tratto la femmina di Vetrano appallottolando dei giornali incollandoli con dello scotch ne ricava una bambola di carta subito distrutta dal maschio che cambiandosi d’abito farà lui la femmina mentre Vetrano vestirà i panni del maschio, ma i fattori non cambiano perché si rinnoveranno identiche situazioni con quella torta che non verrà né tagliata né mangiata. Alla fine, dopo 65 minuti non sapremo se è meglio ricordare per andare avanti o se è meglio mettere una pietra tombale sui nostri ricordi. Spettacolo potente in cui il tragico e il comico si fondono con una leggerezza calviniana, in cui l’ironia sembra giocare il ruolo più importante, giostrata da una coppia superba di attori che vedremo prossimamente ritornare a vestire e mettere in scena alcuni lavori di Franco Scaldati.</p> <p><strong>Gigi Giacobbe</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 end}</p></div>'A FREVA. LA PESTE AL RIONE SANITÀ - regia Mario Gelardi2020-10-18T23:20:37+02:002020-10-18T23:20:37+02:00https://www.sipario.it/recensioniprosaa/item/13465-a-freva-la-peste-al-rione-sanita-regia-gaetano-migliaccio.htmlGiovanni Luca Montanino<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/98cbba89fbe0565358251a5fe16265fb_S.jpg" alt=""'A Freva. La Peste al Rione Sanità", regia Mario Gelardi" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>testo Fabio Pisano, Mario Gelardi<br /> a partire dal romanzo di Albert Camus <em>La peste</em><br /> regia Mario Gelardi</strong><br /><strong>con Simone Borrelli, Michele Brasilio, Ivan Castiglione, Agostino Chiummariello, <br />Paolo Cresta, Carlo Geltrude, Davide Mazzella, Gaetano Migliaccio, Alessandro Palladino, Beatrice Vento</strong><br /><strong>musiche Alessio Arena<br /> luci e audio Alessandro Messina<br /> costumi Alessandra Gaudioso<br /> aiuto regia Gaetano Migliaccio<br /> foto di scena Marco Ghidelli le <br />musiche registrate sono eseguite da Luigi Esposito (pianoforte e arrangiamenti) e Alessandro de Carolis (flauti) <br />produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale<br /> in collaborazione con Nuovo Teatro Sanità e Fondazione di Comunità San Gennaro</strong><br /><strong>Napoli, Basilica di Santa Maria alla Sanità dal 14 al 18 ottobre 2020</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 begin title:<strong>www.Sipario.it, 16 ottobre 2020</strong>}</p> <p style="text-align: justify;">Napoli, quartiere Sanità: un’epoca imprecisata, ma comunque recente; la vita del quartiere scorre regolare, tra il via vai in Parrocchia, le chiacchiere da bar, gli espedienti della povera gente e l’ordinaria amministrazione di un ambulatorio medico. Fino a quando si fa strada nelle cronache cittadine il caso di una strage di topi: le “zoccole”, in un numero sempre maggiore, scappano via dalle tane sotterranee per andare a morire lungo le strade.<br />Sono queste le premesse di <em>‘A FREVA. LA PESTE AL RIONE SANITA’</em>, lo spettacolo in anteprima di stagione del Teatro di Napoli-Teatro Nazionale (diretto da Roberto Andò), su testo di Fabio Pisano e Mario Gelardi (a partire dal romanzo di Albert Camus La peste), per la regia dello stesso Gelardi. <em>‘A freva</em> è una produzione del Teatro di Napoli-Teatro Nazionale, in collaborazione con Nuovo Teatro Sanità e Fondazione di Comunità San Gennaro.<br />Nonostante qualche piccolo problema di audio – dovuto anche alla scarsa educazione del pubblico, restio nonostante le sollecitazioni a spegnere i telefoni cellulari –, la location scelta per questa rappresentazione, ovvero la splendida Basilica di Santa Maria alla Sanità, rende giustizia a un testo che, mai come in questo momento storico, offre lo spunto per una riflessione importante.<br />I punti focali intorno a cui si snoda la vita nel quartiere Sanità vengono ricostruiti sui gradini dello scalone in marmo che dà accesso alla cripta, attraverso pochi e significativi oggetti: lo scrittorio del medico di base e quello dell’impiegato comunale, il tavolino del caffè, il pulpito della parrocchia e quello del municipio. Della pandemia si rivivono tutte le fasi cruciali: la curiosità iniziale, mista all’indifferenza di chi crede che non sarà mai coinvolto; la successiva ansia di capire cosa stia accadendo e la paura di pronunciare il nome della malattia (perché questo significherebbe ammetterne la pericolosità); il populismo della classe dirigente, che dapprima minimizza i rischi, poi li cavalca a proprio uso e consumo; le certezze degli uomini di chiesa, che vacillano di fronte a prospettive cupe e fumose. Infine, la disperazione dell’isolamento. La separazione: le barriere insormontabili che delineano il confine di una specie di ghetto, dal quale non è possibile uscire né chiedere aiuto. In quel momento tutti appartengono alla Sanità, anche chi si trova lì di passaggio o per puro caso; da lì non si scappa.<br />Al polverone di chiacchiere, accuse e polemiche, fa seguito il silenzio paralizzante di chi è sul punto di arrendersi: il quartiere cade in ginocchio, in un mutismo che è rotto solo dagli sforzi del medico di trovare un siero guaritore e dalle parole di guida e conforto del sacerdote (la cui figura ricorda inevitabilmente quella manzoniana di Frate Cristoforo ne <em>I promessi sposi</em>). <br />Gelardi e Pisano adattano Camus al dialetto napoletano con sensibilità estrema, dunque preservandone l’autenticità: complice la bravura – e la partecipazione emotiva al progetto – del cast. Il romanzo viene modellato soprattutto sulle verità del quartiere Sanità, che nella peste diventa come un’isola dimenticata: l’epidemia, sottovalutata o addirittura ignorata nella fase iniziale, sembra non voler andar via da lì per dispetto; la speranza è che la gente, superata la bufera, trattenga nella memoria quanto fondamentale sia il senso di solidarietà che permette di far fronte unito davanti alle sventure. <br /><em>‘A FREVA. LA PESTE AL RIONE SANITA’</em> era al debutto quando è scoppiata l’emergenza covid; oggi, a maggior ragione, va in scena con spirito di necessità.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Giovanni Luca Montanino</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 end}</p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/98cbba89fbe0565358251a5fe16265fb_S.jpg" alt=""'A Freva. La Peste al Rione Sanità", regia Mario Gelardi" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>testo Fabio Pisano, Mario Gelardi<br /> a partire dal romanzo di Albert Camus <em>La peste</em><br /> regia Mario Gelardi</strong><br /><strong>con Simone Borrelli, Michele Brasilio, Ivan Castiglione, Agostino Chiummariello, <br />Paolo Cresta, Carlo Geltrude, Davide Mazzella, Gaetano Migliaccio, Alessandro Palladino, Beatrice Vento</strong><br /><strong>musiche Alessio Arena<br /> luci e audio Alessandro Messina<br /> costumi Alessandra Gaudioso<br /> aiuto regia Gaetano Migliaccio<br /> foto di scena Marco Ghidelli le <br />musiche registrate sono eseguite da Luigi Esposito (pianoforte e arrangiamenti) e Alessandro de Carolis (flauti) <br />produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale<br /> in collaborazione con Nuovo Teatro Sanità e Fondazione di Comunità San Gennaro</strong><br /><strong>Napoli, Basilica di Santa Maria alla Sanità dal 14 al 18 ottobre 2020</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 begin title:<strong>www.Sipario.it, 16 ottobre 2020</strong>}</p> <p style="text-align: justify;">Napoli, quartiere Sanità: un’epoca imprecisata, ma comunque recente; la vita del quartiere scorre regolare, tra il via vai in Parrocchia, le chiacchiere da bar, gli espedienti della povera gente e l’ordinaria amministrazione di un ambulatorio medico. Fino a quando si fa strada nelle cronache cittadine il caso di una strage di topi: le “zoccole”, in un numero sempre maggiore, scappano via dalle tane sotterranee per andare a morire lungo le strade.<br />Sono queste le premesse di <em>‘A FREVA. LA PESTE AL RIONE SANITA’</em>, lo spettacolo in anteprima di stagione del Teatro di Napoli-Teatro Nazionale (diretto da Roberto Andò), su testo di Fabio Pisano e Mario Gelardi (a partire dal romanzo di Albert Camus La peste), per la regia dello stesso Gelardi. <em>‘A freva</em> è una produzione del Teatro di Napoli-Teatro Nazionale, in collaborazione con Nuovo Teatro Sanità e Fondazione di Comunità San Gennaro.<br />Nonostante qualche piccolo problema di audio – dovuto anche alla scarsa educazione del pubblico, restio nonostante le sollecitazioni a spegnere i telefoni cellulari –, la location scelta per questa rappresentazione, ovvero la splendida Basilica di Santa Maria alla Sanità, rende giustizia a un testo che, mai come in questo momento storico, offre lo spunto per una riflessione importante.<br />I punti focali intorno a cui si snoda la vita nel quartiere Sanità vengono ricostruiti sui gradini dello scalone in marmo che dà accesso alla cripta, attraverso pochi e significativi oggetti: lo scrittorio del medico di base e quello dell’impiegato comunale, il tavolino del caffè, il pulpito della parrocchia e quello del municipio. Della pandemia si rivivono tutte le fasi cruciali: la curiosità iniziale, mista all’indifferenza di chi crede che non sarà mai coinvolto; la successiva ansia di capire cosa stia accadendo e la paura di pronunciare il nome della malattia (perché questo significherebbe ammetterne la pericolosità); il populismo della classe dirigente, che dapprima minimizza i rischi, poi li cavalca a proprio uso e consumo; le certezze degli uomini di chiesa, che vacillano di fronte a prospettive cupe e fumose. Infine, la disperazione dell’isolamento. La separazione: le barriere insormontabili che delineano il confine di una specie di ghetto, dal quale non è possibile uscire né chiedere aiuto. In quel momento tutti appartengono alla Sanità, anche chi si trova lì di passaggio o per puro caso; da lì non si scappa.<br />Al polverone di chiacchiere, accuse e polemiche, fa seguito il silenzio paralizzante di chi è sul punto di arrendersi: il quartiere cade in ginocchio, in un mutismo che è rotto solo dagli sforzi del medico di trovare un siero guaritore e dalle parole di guida e conforto del sacerdote (la cui figura ricorda inevitabilmente quella manzoniana di Frate Cristoforo ne <em>I promessi sposi</em>). <br />Gelardi e Pisano adattano Camus al dialetto napoletano con sensibilità estrema, dunque preservandone l’autenticità: complice la bravura – e la partecipazione emotiva al progetto – del cast. Il romanzo viene modellato soprattutto sulle verità del quartiere Sanità, che nella peste diventa come un’isola dimenticata: l’epidemia, sottovalutata o addirittura ignorata nella fase iniziale, sembra non voler andar via da lì per dispetto; la speranza è che la gente, superata la bufera, trattenga nella memoria quanto fondamentale sia il senso di solidarietà che permette di far fronte unito davanti alle sventure. <br /><em>‘A FREVA. LA PESTE AL RIONE SANITA’</em> era al debutto quando è scoppiata l’emergenza covid; oggi, a maggior ragione, va in scena con spirito di necessità.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Giovanni Luca Montanino</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 end}</p></div>'A VILANZA - regia Federico Magnano San Lio2012-05-07T02:00:00+02:002012-05-07T02:00:00+02:00https://www.sipario.it/recensioniprosaa/item/1850-sipario-recensioni-a-vilanza.htmlGigi Giacobbe<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/ecf37b9ee2f9f30add4846f9d8b9615d_S.jpg" alt="'A vilanza" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p><strong>di Nino Martoglio e Luigi Pirandello</strong><br /><strong>Regia di Federico Magnano San Lio</strong><br /><strong>Scene di Angela Gallaro. Costumi di Giovanna Giorgianni. Musiche di Aldo Giordano. Luci di Franco Buzzanca</strong><br /><strong>Con Mimmo Mignemi, Angelo Tosto, Margherita Mignemi, Luana Toscano, Olivia Spigarelli, Egle Doria, Clelia Piscitello</strong><br /><strong>Prod.: Teatro Stabile di Catania</strong><br /><strong>Teatro Musco dal 5 aprile al 6 maggio 2012</strong></p> <p>{2jtoolbox_content tabs id:1 begin title:<strong>www.Sipario.it, 7 maggio 2012</strong>}</p> <p style="text-align: justify;"><em>'A vilanza</em> (1917) è un termine catanese che indica la bilancia, quella che s'intravede in bassorilievo nelle aule dei tribunali e che nella vita di tutti i giorni dovrebbe bilanciare fra gli umani il bene e il male e definire chi ha torto e chi ha ragione. Qui in questa commedia scritta a quattro mani da Nino Martoglio e Luigi Pirandello (autori pure di quel capolavoro di drammaturgia che è <em>Cappiddazzu paga tuttu</em>) "possiamo cogliere – come scrive Sarah Zappulla Muscarà nell'introduzione a <em>Tutto il teatro in dialetto</em> di Pirandello in due volumi edito da Bompiani) – l'abilità tecnica martogliana e la dialettica razionalità pirandelliana". Come dire, gli stilemi comici e tragici caratterizzanti i loro singoli percorsi drammaturgici, sottolineati da Federico Magnano San Lio nella sua divertente e abile messinscena al Musco di Catania, facendo muovere tutti i protagonisti, ben caratterizzati nei loro ruoli, attraverso una serie di velatini trasparenti raffiguranti maschere grottesche (la scena era di Angela Gallaro) e inserendovi alcune allusioni erotiche come quelle d'infilare, alcuni personaggi, il dito nella bocca d'un fiasco di vino. Si racconta di due coppie legate dal vincolo del comparatico. La prima coppia è formata da Oraziu Pardu (Mimmo Mignemi) e Ninfa, la seconda da Saru Pardu (Angelo Tosto) e Anna. Nella versione tragica i ruoli di Ninfa e Anna sono ricoperti rispettivamente da Egle Doria e Luana Toscano, in quella comica da Olivia Spigarelli e Margherita Mignemi. I ruoli maschili rimangono gli stessi per entrambe le versioni, mentre ad arricchire lo scilinguagnolo etneo ci pensa la Donna Rachele della simpatica Clelia Piscitello. Succede che Saru è travolto dalla passione per comare Ninfa e che del tradimento s'accorgano sia sua moglie Anna che compare Oraziu, il quale con grande lucidità progetta un piano che gli si rivolterà contro. Infatti volendo rendere pan per focaccia giusto per equilibrare i piatti della bilancia, anche lui giacerà con la comare Anna. Ma non gli basta violarne la moglie. Vuole che suo compare Saru sappia del tradimento della moglie e che soffra intensamente. Succede invece che Saru tornando a casa spari due colpi di lupara ad Orazio freddandolo all'istante. Nessun equilibrio dei piatti della bilancia può esserci - dichiarerà rivolto al cadavere in un momento di furore e disperazione – tra chi è stato sedotto (lui) da una sgualdrina tentatrice (Ninfa) e chi (Oraziu) ha violentato una moglie santa (Anna). " Le coordinate che sottendono al delitto – suggerisce ancora la Muscarà – sono il duplice modello muliebre della lupa insaziabile e della "madre santa", custode dei valori familiari; e il retaggio di una cultura arcaica che intende l'onore come privilegio indiscusso d'incontaminazione sessuale".</p> <p><strong>Gigi Giacobbe</strong></p> <p>{2jtoolbox_content tabs id:1 end}</p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/ecf37b9ee2f9f30add4846f9d8b9615d_S.jpg" alt="'A vilanza" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p><strong>di Nino Martoglio e Luigi Pirandello</strong><br /><strong>Regia di Federico Magnano San Lio</strong><br /><strong>Scene di Angela Gallaro. Costumi di Giovanna Giorgianni. Musiche di Aldo Giordano. Luci di Franco Buzzanca</strong><br /><strong>Con Mimmo Mignemi, Angelo Tosto, Margherita Mignemi, Luana Toscano, Olivia Spigarelli, Egle Doria, Clelia Piscitello</strong><br /><strong>Prod.: Teatro Stabile di Catania</strong><br /><strong>Teatro Musco dal 5 aprile al 6 maggio 2012</strong></p> <p>{2jtoolbox_content tabs id:1 begin title:<strong>www.Sipario.it, 7 maggio 2012</strong>}</p> <p style="text-align: justify;"><em>'A vilanza</em> (1917) è un termine catanese che indica la bilancia, quella che s'intravede in bassorilievo nelle aule dei tribunali e che nella vita di tutti i giorni dovrebbe bilanciare fra gli umani il bene e il male e definire chi ha torto e chi ha ragione. Qui in questa commedia scritta a quattro mani da Nino Martoglio e Luigi Pirandello (autori pure di quel capolavoro di drammaturgia che è <em>Cappiddazzu paga tuttu</em>) "possiamo cogliere – come scrive Sarah Zappulla Muscarà nell'introduzione a <em>Tutto il teatro in dialetto</em> di Pirandello in due volumi edito da Bompiani) – l'abilità tecnica martogliana e la dialettica razionalità pirandelliana". Come dire, gli stilemi comici e tragici caratterizzanti i loro singoli percorsi drammaturgici, sottolineati da Federico Magnano San Lio nella sua divertente e abile messinscena al Musco di Catania, facendo muovere tutti i protagonisti, ben caratterizzati nei loro ruoli, attraverso una serie di velatini trasparenti raffiguranti maschere grottesche (la scena era di Angela Gallaro) e inserendovi alcune allusioni erotiche come quelle d'infilare, alcuni personaggi, il dito nella bocca d'un fiasco di vino. Si racconta di due coppie legate dal vincolo del comparatico. La prima coppia è formata da Oraziu Pardu (Mimmo Mignemi) e Ninfa, la seconda da Saru Pardu (Angelo Tosto) e Anna. Nella versione tragica i ruoli di Ninfa e Anna sono ricoperti rispettivamente da Egle Doria e Luana Toscano, in quella comica da Olivia Spigarelli e Margherita Mignemi. I ruoli maschili rimangono gli stessi per entrambe le versioni, mentre ad arricchire lo scilinguagnolo etneo ci pensa la Donna Rachele della simpatica Clelia Piscitello. Succede che Saru è travolto dalla passione per comare Ninfa e che del tradimento s'accorgano sia sua moglie Anna che compare Oraziu, il quale con grande lucidità progetta un piano che gli si rivolterà contro. Infatti volendo rendere pan per focaccia giusto per equilibrare i piatti della bilancia, anche lui giacerà con la comare Anna. Ma non gli basta violarne la moglie. Vuole che suo compare Saru sappia del tradimento della moglie e che soffra intensamente. Succede invece che Saru tornando a casa spari due colpi di lupara ad Orazio freddandolo all'istante. Nessun equilibrio dei piatti della bilancia può esserci - dichiarerà rivolto al cadavere in un momento di furore e disperazione – tra chi è stato sedotto (lui) da una sgualdrina tentatrice (Ninfa) e chi (Oraziu) ha violentato una moglie santa (Anna). " Le coordinate che sottendono al delitto – suggerisce ancora la Muscarà – sono il duplice modello muliebre della lupa insaziabile e della "madre santa", custode dei valori familiari; e il retaggio di una cultura arcaica che intende l'onore come privilegio indiscusso d'incontaminazione sessuale".</p> <p><strong>Gigi Giacobbe</strong></p> <p>{2jtoolbox_content tabs id:1 end}</p></div>@NTIGONE - regia Michele di Mauro2015-02-10T10:23:05+01:002015-02-10T10:23:05+01:00https://www.sipario.it/recensioniprosaa/item/9138-ntigone-regia-michele-di-mauro.htmlGigi Giacobbe<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/75a2232b75adf9035a45db9626e63313_S.jpg" alt="Federica Genovese in "@ntigone", regia Michele Di Mauro" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p><strong>da Sofocle, Anouilh, Cocteau</strong><br /><strong>elaborazione drammaturgica in un atto unico e regia di Michele di Mauro<br />con <span style="text-align: justify;">Federica Genovese, <span style="text-align: justify;">Mariasole Mansutti, <span style="text-align: justify;">Giuseppe Manuel De Diomenico, <span style="text-align: justify;">Carola Colajanni, <span style="text-align: justify;">Fulvio Cauteruccio,<br /></span></span></span></span></span>e con <span style="text-align: justify;">Livio Bisignano, Simone Corso, Gabriele Crisafulli, Francesco Tozzi, <br />Lucia Cammalleri, Stefania Di Pietro, Valentina Illuminati, Maria Marinio</span></strong><br /><strong>scene e costumi Giulia Drogo</strong><br /><strong>Barcellona Pozzo di Gotto (ME) nel nuovo Teatro Mandanici, 7 – 8 febbraio 2015</strong></p> <p>{2jtoolbox_content tabs id:1 begin title:<strong>www.Sipario.it, 10 febbraio 2015</strong>}</p> <p style="text-align: justify;">L'ultima volta che avevo messo piede nel costruendo Teatro Mandanici di Barcellona Pozzo di Gotto, ancora a cantiere aperto, era l'agosto del 1986 e lo spettacolo in programma, Didone Asdonais Domine, era stato ideato dal pittore-drammaturgo Emilio Isgrò originario di quelle parti, messo in scena da Memè Perlini con la scenografia di Antonello Aglioti e interpretato da una grande attrice che di nome fa Francesca Benedetti. Adesso, dopo quasi trent'anni, quel Teatro che ricordo rustico e dalle pareti imbrattate di cemento grigio, è stato ultimato e ha ripreso a vivere in tutto il suo splendore, disponendo di quasi mille posti tappezzati di rosso e sistemati a guisa di semiluna con la platea collocata in quell'area inizialmente prevista per la scena centrale. E' stato un ConcertoOpera con sinfonie e cori di opere liriche italiane ad inaugurare la struttura il 6 dicembre scorso, cui ha fatto seguito una vera e propria stagione teatrale, allestita dagli stessi dirigenti del Teatro di Messina. Ecco dunque l'<em>@ntigone</em> (si proprio con "A" diventata una chiocciola), in un bel lavoro di regia compiuto da Michele Di Mauro, sua pure l'elaborazione drammaturgica attinta dal testo di Sofocle per ciò che riguarda il Coro, utilizzando come impalcatura portante la versione di Anouilh e piluccando da quel libretto d'opera di Cocteau, sul medesimo argomento, scritto per l'opera lirica in tre atti di Arthur Honegger. Certo qui, al Teatro Mandanici, le scene non erano di Picasso e i costumi di Coco Chanel, come nella versione di Cocteau-Honegger, ma semplicemente di Giulia Drogo (suoi pure i costumi) che rendevano ugualmente in modo efficace l'idea del dramma - neon in fondo alla scena nuda popolata da un nugolo di sedie tutte diverse e di varie dimensioni - trattato calviniamente da Di Mauro con molta "leggerezza", con tanto di canzoni di Frank Sinatra, una colonna musicale da thriller tipo <em>Velluto blu</em> di David Lynch, innesti jazz e rock. Un atto unico di quasi due ore, con un epilogo da suspense per quei tre suicidi finali compiuti da<em> @ntigone</em>, dal suo fidanzato Emone e dalla madre di quest'ultimo, Euridice, moglie di Creonte re di Tebe. Le varianti apportate da Di Mauro (con l'aiuto di Annibale Pavone) riguardano alcuni episodi che si svolgono secondo il classico plot di Sofocle ma con i personaggi che assumono una connotazione psicologica più vicina ai giorni nostri. Così <em>@ntigone,</em> interpretata da un piccolo talento a me sconosciuto che si chiama Federica Genovese, è una ragazza selvaggia, ribelle, piccola e scontrosa, inquieta e insoddisfatta, desiderosa sola di dare un senso alla propria vita. Dice d'essere gelosa della sorella Ismene (Mariasole Mansutti), e non sa perché vuole sposarsi con Emone (Giuseppe Manuel De Diomenico) manifestando un infantilismo irriducibile, evidenziato chiaramente da Di Mauro inserendo in scena una bambina (Carola Colajanni) quale segno di purezza della nostra eroina, che ad un tratto bisticcerà col fidanzato cacciandolo via in modo irragionevole. Creonte, vestito superbamente con voce calda, ironica e suadente da Fulvio Cauteruccio, rappresenta la ragion di stato, l'uomo di governo, incline al compromesso e a quell'arte della mediazione e della menzogna, rinvenibile tanto in Platone quanto in Machiavelli, secondo cui il fine giustifica i mezzi e le masse, ottuse ma irrazionalmente sensibili, devono essere manipolate. Non è un tiranno Creonte, sembra piuttosto un uomo di spettacolo, un lavoratore che persegue le ragioni della realtà e del buon senso. Di fronte alla notizia che il corpo di Polinice è stato seppellito "con una paletta da bambino vecchia e tutta arrugginita", sospetta una macchinazione dell'opposizione democratica. Questo sovrano fratello di Giocasta, e zio di <em>@ntigone</em>, non vede le ragioni per uccidere la nipote che ha voluto bene e alla quale da bambina ha regalato "la sua prima bambola" e sa che il sangue di una fanciulla potrebbe fare insorgere il partito avverso. La sua reazione ha toni paternalistici, giocando sulla giovane età e sulla magrezza della ragazza, più indicata a farlo diventare nonno che non a farsi uccidere. Il Coro intanto, quattro ragazzi e quattro ragazze con occhiali da sole (Livio Bisignano, Simone Corso, Gabriele Crisafulli, Francesco Tozzi, Lucia Cammalleri, Stefania Di Pietro, Valentina Illuminati, Maria Marinio) agghindati con una sorta di tuta nera, sopra la quale a tratti adageranno vestiti color rosso-sangue, funge da collante con i dialoghi dei protagonisti, allestendo in pochi secondi siparietti e luoghi appartati, stendendo a terra larghi drappi colorati, fissandoli sulle tavole del palcoscenico con delle cucitrici metalliche perché non provochino grinze. Ad un tratto Creonte si prende gioco del rito della sepoltura, per lui solo un "passaporto ridicolo" per l'aldilà, e per salvare la nipote le dice che se fosse dipeso da lui avrebbe già fatto seppellire suo fratello, ma non può farsi canzonare dai suoi rozzi sudditi che s'aspettano solo che quel corpo puzzi per tutta Tebe almeno per un mese. Al culmine del contrasto Creonte distrugge l'immagine dei due fratelli, di fatto svuotando di senso il gesto ingenuo e stupido di <em>@ntigone</em>, dicendole che i due fratelli, simmetrici nella violenza e nell'inganno, nient'altro erano che due ladroni che si sono uccisi in un volgare regolamento di conti e che dei loro corpi, ridotti in poltiglia, ne ha fatto raccogliere uno, il meno rovinato per i funerali nazionali, e ha dato l'ordine di fare marcire l'altro dov'era, non sapendo nemmeno quale fosse dei due. <em>@ntigone</em> sembra turbata e confusa, ma non si fa convincere dalle retorica dello zio e alla domanda del perché del suo gesto, risponde che l'ha compiuto solo per se stessa. Bello il dialogo tra i due, quando Creonte parlerà del senso della vita fatta di piccole cose e <em>@ntigone</em> rilancerà chiedendogli quali sacrifici dovrà compiere per raggiungere uno scampolo di felicità e se per riuscire ad acchiapparlo dovrà ipotecare se stessa, allora non vorrà più né la vita né la felicità, anche perché avendo un animo da bambina vuole tutto e subito, altrimenti è preferibile la morte. Anche il confronto tra Creonte-padre e Emone-figlio vive gli stessi sentimenti di rifiuto adolescente-adulto, illusione-disincanto, scoprendo Emone che suo padre non è onnipotente e che non potrà salvare la giovane promessa sposa dalla sua stessa ostinazione. Creonte cercherà di consolare il figlio, invitandolo ad accettare l'inevitabilità della situazione, dicendogli che essere uomo vuol dire vedere cadere tutte le illusioni e che nelle decisioni si è completamente soli. <em>@ntigone</em> diviene suo malgrado una figura cristologica e sacrificale. La tragedia si conclude con il Coro che, dopo aver steso per terra, con la stessa tecnica di prima, un lungo lembo di stoffa, sistemerà su dei supporti metallici una cinquantina di piccoli grembiuli rosa, celesti e bianchi, e la voce registrata di Gianna Nannini intonerà forte la canzone <em>Sei nell'anima</em>. Moltissimi applausi per i giovani protagonisti, parecchi al loro primo debutto, e successo per l'Ente Teatro di Messina che ha prodotto lo spettacolo.</p> <p><strong>Gigi Giacobbe</strong></p> <p style="text-align: justify;"><span style="line-height: 1.8em;">{2jtoolbox_content tabs id:1 end}</span></p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/75a2232b75adf9035a45db9626e63313_S.jpg" alt="Federica Genovese in "@ntigone", regia Michele Di Mauro" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p><strong>da Sofocle, Anouilh, Cocteau</strong><br /><strong>elaborazione drammaturgica in un atto unico e regia di Michele di Mauro<br />con <span style="text-align: justify;">Federica Genovese, <span style="text-align: justify;">Mariasole Mansutti, <span style="text-align: justify;">Giuseppe Manuel De Diomenico, <span style="text-align: justify;">Carola Colajanni, <span style="text-align: justify;">Fulvio Cauteruccio,<br /></span></span></span></span></span>e con <span style="text-align: justify;">Livio Bisignano, Simone Corso, Gabriele Crisafulli, Francesco Tozzi, <br />Lucia Cammalleri, Stefania Di Pietro, Valentina Illuminati, Maria Marinio</span></strong><br /><strong>scene e costumi Giulia Drogo</strong><br /><strong>Barcellona Pozzo di Gotto (ME) nel nuovo Teatro Mandanici, 7 – 8 febbraio 2015</strong></p> <p>{2jtoolbox_content tabs id:1 begin title:<strong>www.Sipario.it, 10 febbraio 2015</strong>}</p> <p style="text-align: justify;">L'ultima volta che avevo messo piede nel costruendo Teatro Mandanici di Barcellona Pozzo di Gotto, ancora a cantiere aperto, era l'agosto del 1986 e lo spettacolo in programma, Didone Asdonais Domine, era stato ideato dal pittore-drammaturgo Emilio Isgrò originario di quelle parti, messo in scena da Memè Perlini con la scenografia di Antonello Aglioti e interpretato da una grande attrice che di nome fa Francesca Benedetti. Adesso, dopo quasi trent'anni, quel Teatro che ricordo rustico e dalle pareti imbrattate di cemento grigio, è stato ultimato e ha ripreso a vivere in tutto il suo splendore, disponendo di quasi mille posti tappezzati di rosso e sistemati a guisa di semiluna con la platea collocata in quell'area inizialmente prevista per la scena centrale. E' stato un ConcertoOpera con sinfonie e cori di opere liriche italiane ad inaugurare la struttura il 6 dicembre scorso, cui ha fatto seguito una vera e propria stagione teatrale, allestita dagli stessi dirigenti del Teatro di Messina. Ecco dunque l'<em>@ntigone</em> (si proprio con "A" diventata una chiocciola), in un bel lavoro di regia compiuto da Michele Di Mauro, sua pure l'elaborazione drammaturgica attinta dal testo di Sofocle per ciò che riguarda il Coro, utilizzando come impalcatura portante la versione di Anouilh e piluccando da quel libretto d'opera di Cocteau, sul medesimo argomento, scritto per l'opera lirica in tre atti di Arthur Honegger. Certo qui, al Teatro Mandanici, le scene non erano di Picasso e i costumi di Coco Chanel, come nella versione di Cocteau-Honegger, ma semplicemente di Giulia Drogo (suoi pure i costumi) che rendevano ugualmente in modo efficace l'idea del dramma - neon in fondo alla scena nuda popolata da un nugolo di sedie tutte diverse e di varie dimensioni - trattato calviniamente da Di Mauro con molta "leggerezza", con tanto di canzoni di Frank Sinatra, una colonna musicale da thriller tipo <em>Velluto blu</em> di David Lynch, innesti jazz e rock. Un atto unico di quasi due ore, con un epilogo da suspense per quei tre suicidi finali compiuti da<em> @ntigone</em>, dal suo fidanzato Emone e dalla madre di quest'ultimo, Euridice, moglie di Creonte re di Tebe. Le varianti apportate da Di Mauro (con l'aiuto di Annibale Pavone) riguardano alcuni episodi che si svolgono secondo il classico plot di Sofocle ma con i personaggi che assumono una connotazione psicologica più vicina ai giorni nostri. Così <em>@ntigone,</em> interpretata da un piccolo talento a me sconosciuto che si chiama Federica Genovese, è una ragazza selvaggia, ribelle, piccola e scontrosa, inquieta e insoddisfatta, desiderosa sola di dare un senso alla propria vita. Dice d'essere gelosa della sorella Ismene (Mariasole Mansutti), e non sa perché vuole sposarsi con Emone (Giuseppe Manuel De Diomenico) manifestando un infantilismo irriducibile, evidenziato chiaramente da Di Mauro inserendo in scena una bambina (Carola Colajanni) quale segno di purezza della nostra eroina, che ad un tratto bisticcerà col fidanzato cacciandolo via in modo irragionevole. Creonte, vestito superbamente con voce calda, ironica e suadente da Fulvio Cauteruccio, rappresenta la ragion di stato, l'uomo di governo, incline al compromesso e a quell'arte della mediazione e della menzogna, rinvenibile tanto in Platone quanto in Machiavelli, secondo cui il fine giustifica i mezzi e le masse, ottuse ma irrazionalmente sensibili, devono essere manipolate. Non è un tiranno Creonte, sembra piuttosto un uomo di spettacolo, un lavoratore che persegue le ragioni della realtà e del buon senso. Di fronte alla notizia che il corpo di Polinice è stato seppellito "con una paletta da bambino vecchia e tutta arrugginita", sospetta una macchinazione dell'opposizione democratica. Questo sovrano fratello di Giocasta, e zio di <em>@ntigone</em>, non vede le ragioni per uccidere la nipote che ha voluto bene e alla quale da bambina ha regalato "la sua prima bambola" e sa che il sangue di una fanciulla potrebbe fare insorgere il partito avverso. La sua reazione ha toni paternalistici, giocando sulla giovane età e sulla magrezza della ragazza, più indicata a farlo diventare nonno che non a farsi uccidere. Il Coro intanto, quattro ragazzi e quattro ragazze con occhiali da sole (Livio Bisignano, Simone Corso, Gabriele Crisafulli, Francesco Tozzi, Lucia Cammalleri, Stefania Di Pietro, Valentina Illuminati, Maria Marinio) agghindati con una sorta di tuta nera, sopra la quale a tratti adageranno vestiti color rosso-sangue, funge da collante con i dialoghi dei protagonisti, allestendo in pochi secondi siparietti e luoghi appartati, stendendo a terra larghi drappi colorati, fissandoli sulle tavole del palcoscenico con delle cucitrici metalliche perché non provochino grinze. Ad un tratto Creonte si prende gioco del rito della sepoltura, per lui solo un "passaporto ridicolo" per l'aldilà, e per salvare la nipote le dice che se fosse dipeso da lui avrebbe già fatto seppellire suo fratello, ma non può farsi canzonare dai suoi rozzi sudditi che s'aspettano solo che quel corpo puzzi per tutta Tebe almeno per un mese. Al culmine del contrasto Creonte distrugge l'immagine dei due fratelli, di fatto svuotando di senso il gesto ingenuo e stupido di <em>@ntigone</em>, dicendole che i due fratelli, simmetrici nella violenza e nell'inganno, nient'altro erano che due ladroni che si sono uccisi in un volgare regolamento di conti e che dei loro corpi, ridotti in poltiglia, ne ha fatto raccogliere uno, il meno rovinato per i funerali nazionali, e ha dato l'ordine di fare marcire l'altro dov'era, non sapendo nemmeno quale fosse dei due. <em>@ntigone</em> sembra turbata e confusa, ma non si fa convincere dalle retorica dello zio e alla domanda del perché del suo gesto, risponde che l'ha compiuto solo per se stessa. Bello il dialogo tra i due, quando Creonte parlerà del senso della vita fatta di piccole cose e <em>@ntigone</em> rilancerà chiedendogli quali sacrifici dovrà compiere per raggiungere uno scampolo di felicità e se per riuscire ad acchiapparlo dovrà ipotecare se stessa, allora non vorrà più né la vita né la felicità, anche perché avendo un animo da bambina vuole tutto e subito, altrimenti è preferibile la morte. Anche il confronto tra Creonte-padre e Emone-figlio vive gli stessi sentimenti di rifiuto adolescente-adulto, illusione-disincanto, scoprendo Emone che suo padre non è onnipotente e che non potrà salvare la giovane promessa sposa dalla sua stessa ostinazione. Creonte cercherà di consolare il figlio, invitandolo ad accettare l'inevitabilità della situazione, dicendogli che essere uomo vuol dire vedere cadere tutte le illusioni e che nelle decisioni si è completamente soli. <em>@ntigone</em> diviene suo malgrado una figura cristologica e sacrificale. La tragedia si conclude con il Coro che, dopo aver steso per terra, con la stessa tecnica di prima, un lungo lembo di stoffa, sistemerà su dei supporti metallici una cinquantina di piccoli grembiuli rosa, celesti e bianchi, e la voce registrata di Gianna Nannini intonerà forte la canzone <em>Sei nell'anima</em>. Moltissimi applausi per i giovani protagonisti, parecchi al loro primo debutto, e successo per l'Ente Teatro di Messina che ha prodotto lo spettacolo.</p> <p><strong>Gigi Giacobbe</strong></p> <p style="text-align: justify;"><span style="line-height: 1.8em;">{2jtoolbox_content tabs id:1 end}</span></p></div>A + A STORIA DI UNA PRIMA VOLTA - regia Giuliano Scarpinato2022-06-02T10:12:23+02:002022-06-02T10:12:23+02:00https://www.sipario.it/recensioniprosaa/item/14458-a-a-storia-di-una-prima-volta-regia-giuliano-scarpinato.htmlRoberto Canavesi<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/39c2d3a3046cfd1fc035030560f184bb_S.jpg" alt=""A + A Storia di una prima volta”, regia Giuliano Scarpinato" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p><strong>di Giuliano Scarpinato<br />drammaturgia di Giuliano Scarpinato e Gioia Salvatori<br />con Emanuele Del Castillo e Beatrice Casiroli <br />regia di Giuliano Scarpinato<br />scene Dina Ciufo<br />disegno luci e suono Giacomo Agnifili <br />video Stefano Bergomas e Marco Falanga <br />Produzione CSS Teatro Stabile dell’Innovazione FVG–Udine con il sostegno dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi in collaborazione con COOP Alleanza 3.0<br />Casa del Teatro Ragazzi e Giovani, Torino, sabato 28 maggio 2022</strong></p> <p>{2jtoolbox_content tabs id:1 begin title:<strong>www.Sipario.it, 1 giugno 2022</strong>}</p> <p style="text-align: justify;">Se il parlar d’amore spesso sconfina nelle retorica e nel già detto, figuriamoci quale possa essere il rischio del riflettere a teatro sul sesso: materia certo non semplice da affrontare, il rapporto adolescenza-sessualità è al centro di<em> A + A Storia di una prima volta</em>, <em>piéce</em> diretta da Giuliano Scarpinato, sua anche la drammaturgia a quattro mani con Gioia Salvatori, che i giovani e bravi Emanuele Del Castillo e Beatrice Casiroli presentano sotto forma di viaggio esperienziale nella cosiddetta età di mezzo, stagione della vita dove non si è più bambini ma non ancora adulti. <br />E che sia una fase di passaggio lo si intuisce dalla bianca scena ondulata di Dina Ciufo, struttura che ricorda uno scivolo da cui lasciarsi trasportare e su cui vivere le parole di un racconto da leggersi come resoconto della vita di tanti nostri figli: e si, a ben vedere, Emanuele e Beatrice potrebbero proprio essere parenti a noi prossimi, protagonisti di un testo la cui drammaturgia sono interviste e testimonianze reali riferite dalle voci fuori scena di ragazzi e ragazze chiamati a confrontarsi con parole come sesso e prima volta, rapporto, pornografia o autoerotismo. Parole che gli attori in scena fanno diventare gesti, trasformano in azioni ora prossime a coreografie danzate, ora esplicite rappresentazioni di stati di animi in fermento che, giorno dopo giorno, vivono un processo di iniziazione alla vita: i primi approcci ed il primo bacio, i primi appuntamenti ed i primi giochi alla scoperta del proprio e dell’altrui corpo, ma soprattutto la prima volta, esperienza vissuta non senza paure ed ansie che chiude il cerchio di un racconto attraversato da una grande e sincera umanità.<br />Più impacciato e timoroso lui, spugna umana nell’assorbire quanto raccontato da amici e conoscenti, in apparenza più decisa e coraggiosa lei, i due giovani protagonisti sono simboli di una generazione chiamata a svoltare e dove ci si imbatte in termini come confronto ed inadeguatezza, invidia e paura: il desiderio di una misura in più o di qualche chilo in meno, il voler emulare immaginari modelli, spesso frutto della propria fantasia, sono le possibili spie di un disagio che potremmo sintetizzare nell’idea di non sentirsi adeguati, il famoso “non essere all’altezza” che se rapportato all’agognato contesto della fatidica prima volta può diventare un vero e proprio incubo esistenziale.<br />Ed allora ci piace leggere <em>A + A Storia di una prima volta</em> non tanto alla stregua di resoconto del rito iniziatico alle gioie del sesso, semmai come la cronaca dell’incontro tra due metà destinato, nel prosieguo della vita di tutti i giovani Emanuele e Beatrice, a riproporsi nelle possibili sfaccettature in cui ogni uomo ed ogni donna potranno imbattersi nell’inevitabile percorso delle loro esistenze, tutte umanamente diverse l’una dall’altra.</p> <p><strong>Roberto Canavesi</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 end}</p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/39c2d3a3046cfd1fc035030560f184bb_S.jpg" alt=""A + A Storia di una prima volta”, regia Giuliano Scarpinato" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p><strong>di Giuliano Scarpinato<br />drammaturgia di Giuliano Scarpinato e Gioia Salvatori<br />con Emanuele Del Castillo e Beatrice Casiroli <br />regia di Giuliano Scarpinato<br />scene Dina Ciufo<br />disegno luci e suono Giacomo Agnifili <br />video Stefano Bergomas e Marco Falanga <br />Produzione CSS Teatro Stabile dell’Innovazione FVG–Udine con il sostegno dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi in collaborazione con COOP Alleanza 3.0<br />Casa del Teatro Ragazzi e Giovani, Torino, sabato 28 maggio 2022</strong></p> <p>{2jtoolbox_content tabs id:1 begin title:<strong>www.Sipario.it, 1 giugno 2022</strong>}</p> <p style="text-align: justify;">Se il parlar d’amore spesso sconfina nelle retorica e nel già detto, figuriamoci quale possa essere il rischio del riflettere a teatro sul sesso: materia certo non semplice da affrontare, il rapporto adolescenza-sessualità è al centro di<em> A + A Storia di una prima volta</em>, <em>piéce</em> diretta da Giuliano Scarpinato, sua anche la drammaturgia a quattro mani con Gioia Salvatori, che i giovani e bravi Emanuele Del Castillo e Beatrice Casiroli presentano sotto forma di viaggio esperienziale nella cosiddetta età di mezzo, stagione della vita dove non si è più bambini ma non ancora adulti. <br />E che sia una fase di passaggio lo si intuisce dalla bianca scena ondulata di Dina Ciufo, struttura che ricorda uno scivolo da cui lasciarsi trasportare e su cui vivere le parole di un racconto da leggersi come resoconto della vita di tanti nostri figli: e si, a ben vedere, Emanuele e Beatrice potrebbero proprio essere parenti a noi prossimi, protagonisti di un testo la cui drammaturgia sono interviste e testimonianze reali riferite dalle voci fuori scena di ragazzi e ragazze chiamati a confrontarsi con parole come sesso e prima volta, rapporto, pornografia o autoerotismo. Parole che gli attori in scena fanno diventare gesti, trasformano in azioni ora prossime a coreografie danzate, ora esplicite rappresentazioni di stati di animi in fermento che, giorno dopo giorno, vivono un processo di iniziazione alla vita: i primi approcci ed il primo bacio, i primi appuntamenti ed i primi giochi alla scoperta del proprio e dell’altrui corpo, ma soprattutto la prima volta, esperienza vissuta non senza paure ed ansie che chiude il cerchio di un racconto attraversato da una grande e sincera umanità.<br />Più impacciato e timoroso lui, spugna umana nell’assorbire quanto raccontato da amici e conoscenti, in apparenza più decisa e coraggiosa lei, i due giovani protagonisti sono simboli di una generazione chiamata a svoltare e dove ci si imbatte in termini come confronto ed inadeguatezza, invidia e paura: il desiderio di una misura in più o di qualche chilo in meno, il voler emulare immaginari modelli, spesso frutto della propria fantasia, sono le possibili spie di un disagio che potremmo sintetizzare nell’idea di non sentirsi adeguati, il famoso “non essere all’altezza” che se rapportato all’agognato contesto della fatidica prima volta può diventare un vero e proprio incubo esistenziale.<br />Ed allora ci piace leggere <em>A + A Storia di una prima volta</em> non tanto alla stregua di resoconto del rito iniziatico alle gioie del sesso, semmai come la cronaca dell’incontro tra due metà destinato, nel prosieguo della vita di tutti i giovani Emanuele e Beatrice, a riproporsi nelle possibili sfaccettature in cui ogni uomo ed ogni donna potranno imbattersi nell’inevitabile percorso delle loro esistenze, tutte umanamente diverse l’una dall’altra.</p> <p><strong>Roberto Canavesi</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 end}</p></div>A CAUSA MIA - regia Francesco Saponaro2008-06-22T02:00:00+02:002008-06-22T02:00:00+02:00https://www.sipario.it/recensioniprosaa/item/1936-a-causa-mia-regia-francesco-saponaro.htmlEnrico Fiore<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/f8962b38d084bb71422c647212a76f57_S.jpg" alt="A causa mia" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong><span style="font-size: 10pt;">di Antonio Vladimir Marino, Antonio Marfella, Luciano Saltarelli, Francesco Saponaro </span></strong><br /><strong><span style="font-size: 10pt;">regia: Francesco Saponaro<br />con Gianfelice Imparato, Gigio Morra, Luciano Saltarelli, Peppe Servillo, Andrea Renzi, Fortunato Cerlino, Gino Curcione e con Enzo Moscato, Marino Niola </span></strong><br /><strong><span style="font-size: 10pt;">Napoli Teatro Festival Italia</span></strong><br /><strong><span style="font-size: 10pt;">Castel Capuano, Napoli dal 18 al 21 giugno 2008</span><br /></strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>{2jtoolbox_content tabs id:1 begin title:<strong>Il Mattino, 22 giugno 2008</strong>}</strong><br /><span style="font-size: 10pt;"><strong>D'Annunzio e Scarpetta, che guapparia Saponaro ricostruisce con efficacia la vicenda giudiziaria che oppose il Vate al commediografo. Ottima prova di Imparato e Peppe Servillo</strong></span></p> <p style="text-align: justify;">Ma non fu Eduardo Scarpetta che, reinventando il vaudeville in dialetto napoletano, si fece tramite presso la borghesia del modello di vita e di cultura, per l'appunto di derivazione francese, imposto dalla conquista capitalistica del Mezzogiorno? E non fu per effetto di tale imposizione che decaddero i valori espressivi, linguistici e letterari del teatro dialettale popolare e chiuse il San Carlino, che di quel teatro (e di Pulcinella e del suo più grande interprete, Antonio Petito) era stato il tempio? Queste ed altre consimili domande retoriche mi giravano per la testa mentre, a Castelcapuano, vedevo «A causa mia»: giacché si tratta di uno spettacolo centrato proprio su Scarpetta e, dunque, incongruamente arruolato dal Napoli Teatro Festival Italia nella sezione «I Teatri del Popolo». Tanto più che gli autori del testo (Antonio Marfella, Antonio Vladimir Marino, Luciano Saltarelli e Francesco Saponaro, che firma anche la regia) accolgono una non meno incongrua arringa difensiva in cui, addirittura, Don Eduardo si atteggia a martire del teatro, dimenticando i soldi e il potere che il teatro gli aveva dato e non esitando a dichiarare al pubblico: «Pe' vvuje saglio ogni sera 'ncopp' 'a croce!».</p> <p style="text-align: justify;">Ciò detto, aggiungo subito che lo spettacolo in questione è ben strutturato e assai godibile. Viene rievocato il processo che oppose Scarpetta, autore della parodia «Il figlio di Jorio», e D'Annunzio, secondo il quale si trattava, invece, di una contraffazione della propria, celeberrima «Figlia». E Saponaro padroneggia con disinvoltura ed efficacia l'interazione fra i diversi linguaggi qui adoperati: a parte il teatro, ovviamente, il cinema, la televisione, il disegno (quello dello scenografo Lino Fiorito), la pittura e la musica. Valga per tutte, in proposito, la sequenza in cui la supplica per ottenere il permesso di rappresentare la sua parodia Scarpetta la indirizza al Vate, che lo guarda dai fotogrammi di un film muto, cantandola in perfetto stile da posteggia, e debitamente accompagnato da chitarra e mandolino, sulle note di classici della canzone partenopea che vanno da «Guapparia» a «'E spingole frangese». Molto divertente. Ed anche molto intelligente, poiché, nella circostanza, si dà luogo a una parodia nella parodia: facendo coincidere la magniloquenza dannunziana con i pleonasmi della famigerata «cartolina» di Napoli. All'altezza anche la prova degl'interpreti: primi fra tutti, naturalmente, il sempre irresistibile Gianfelice Imparato nei panni di Eduardo Scarpetta, un sorprendente Peppe Servillo, che davvero (per riferirci, appunto, alle citazioni d'arte visiva) sembra D'Annunzio «pittato», Gigio Morra nel ruolo del procuratore Giuseppe Lustig e Andrea Renzi in quello di Marco Praga, direttore della Siae. E funzionano, in video, pure Enzo Moscato e Marino Niola, che danno volto e voce ai due periti di parte, rispettivamente Salvatore Di Giacomo per D'Annunzio e Benedetto Croce per Scarpetta.</p> <p style="text-align: justify;">Infine, un augurio: dal momento che lo spettacolo viene dichiarato come un «work in progress», non sarebbe male se lungo il suo cammino tenesse conto della lezione impartita da Ugo Gregoretti, che nell'85, sotto il titolo «I figli di Jorio», fece impagabilmente reagire fra loro Mila di Codra e Torillo.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Enrico Fiore</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 end}</p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/f8962b38d084bb71422c647212a76f57_S.jpg" alt="A causa mia" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong><span style="font-size: 10pt;">di Antonio Vladimir Marino, Antonio Marfella, Luciano Saltarelli, Francesco Saponaro </span></strong><br /><strong><span style="font-size: 10pt;">regia: Francesco Saponaro<br />con Gianfelice Imparato, Gigio Morra, Luciano Saltarelli, Peppe Servillo, Andrea Renzi, Fortunato Cerlino, Gino Curcione e con Enzo Moscato, Marino Niola </span></strong><br /><strong><span style="font-size: 10pt;">Napoli Teatro Festival Italia</span></strong><br /><strong><span style="font-size: 10pt;">Castel Capuano, Napoli dal 18 al 21 giugno 2008</span><br /></strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>{2jtoolbox_content tabs id:1 begin title:<strong>Il Mattino, 22 giugno 2008</strong>}</strong><br /><span style="font-size: 10pt;"><strong>D'Annunzio e Scarpetta, che guapparia Saponaro ricostruisce con efficacia la vicenda giudiziaria che oppose il Vate al commediografo. Ottima prova di Imparato e Peppe Servillo</strong></span></p> <p style="text-align: justify;">Ma non fu Eduardo Scarpetta che, reinventando il vaudeville in dialetto napoletano, si fece tramite presso la borghesia del modello di vita e di cultura, per l'appunto di derivazione francese, imposto dalla conquista capitalistica del Mezzogiorno? E non fu per effetto di tale imposizione che decaddero i valori espressivi, linguistici e letterari del teatro dialettale popolare e chiuse il San Carlino, che di quel teatro (e di Pulcinella e del suo più grande interprete, Antonio Petito) era stato il tempio? Queste ed altre consimili domande retoriche mi giravano per la testa mentre, a Castelcapuano, vedevo «A causa mia»: giacché si tratta di uno spettacolo centrato proprio su Scarpetta e, dunque, incongruamente arruolato dal Napoli Teatro Festival Italia nella sezione «I Teatri del Popolo». Tanto più che gli autori del testo (Antonio Marfella, Antonio Vladimir Marino, Luciano Saltarelli e Francesco Saponaro, che firma anche la regia) accolgono una non meno incongrua arringa difensiva in cui, addirittura, Don Eduardo si atteggia a martire del teatro, dimenticando i soldi e il potere che il teatro gli aveva dato e non esitando a dichiarare al pubblico: «Pe' vvuje saglio ogni sera 'ncopp' 'a croce!».</p> <p style="text-align: justify;">Ciò detto, aggiungo subito che lo spettacolo in questione è ben strutturato e assai godibile. Viene rievocato il processo che oppose Scarpetta, autore della parodia «Il figlio di Jorio», e D'Annunzio, secondo il quale si trattava, invece, di una contraffazione della propria, celeberrima «Figlia». E Saponaro padroneggia con disinvoltura ed efficacia l'interazione fra i diversi linguaggi qui adoperati: a parte il teatro, ovviamente, il cinema, la televisione, il disegno (quello dello scenografo Lino Fiorito), la pittura e la musica. Valga per tutte, in proposito, la sequenza in cui la supplica per ottenere il permesso di rappresentare la sua parodia Scarpetta la indirizza al Vate, che lo guarda dai fotogrammi di un film muto, cantandola in perfetto stile da posteggia, e debitamente accompagnato da chitarra e mandolino, sulle note di classici della canzone partenopea che vanno da «Guapparia» a «'E spingole frangese». Molto divertente. Ed anche molto intelligente, poiché, nella circostanza, si dà luogo a una parodia nella parodia: facendo coincidere la magniloquenza dannunziana con i pleonasmi della famigerata «cartolina» di Napoli. All'altezza anche la prova degl'interpreti: primi fra tutti, naturalmente, il sempre irresistibile Gianfelice Imparato nei panni di Eduardo Scarpetta, un sorprendente Peppe Servillo, che davvero (per riferirci, appunto, alle citazioni d'arte visiva) sembra D'Annunzio «pittato», Gigio Morra nel ruolo del procuratore Giuseppe Lustig e Andrea Renzi in quello di Marco Praga, direttore della Siae. E funzionano, in video, pure Enzo Moscato e Marino Niola, che danno volto e voce ai due periti di parte, rispettivamente Salvatore Di Giacomo per D'Annunzio e Benedetto Croce per Scarpetta.</p> <p style="text-align: justify;">Infine, un augurio: dal momento che lo spettacolo viene dichiarato come un «work in progress», non sarebbe male se lungo il suo cammino tenesse conto della lezione impartita da Ugo Gregoretti, che nell'85, sotto il titolo «I figli di Jorio», fece impagabilmente reagire fra loro Mila di Codra e Torillo.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Enrico Fiore</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 end}</p></div>A CORPO MORTO - regia Marco Sciaccaluga2009-04-27T02:00:00+02:002009-04-27T02:00:00+02:00https://www.sipario.it/recensioniprosaa/item/1926-sipario-recensioni-a-corpo-morto.htmlEtta Cascini<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/5f1edc5f0d6d6465a30b267802485710_S.jpg" alt="A corpo morto" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>di Vittorio Franceschi</strong><br /><strong>Regia: Marco Sciaccaluga<br />Scene: Matteo Soltanto, Maschere e Costumi: Werner Strub, Musiche: Andrea Nicolini, Luci: Sandro Sussi</strong><br /><strong>Interprete: Vittorio Franceschi</strong><br /><strong>Teatro Stabile di Genova<br />Teatro Duse, Genova dal 15 aprile al 3 maggio 2009<br /></strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>{2jtoolbox_content tabs id:1 begin title:<strong>Sipario, 27 aprile 2009</strong>}</strong><br />Un tema inquietante come la morte diventa nello spettacolo di Vittorio Franceschi un tema quotidiano, ed è lo spunto per cinque racconti di vita vissuta con un corollario di considerazioni e lampi di verità sull’uomo e la sua natura. Rappresentata con giusto risalto ed equilibrio da Marco Sciaccaluga, la storia ha un sorprendente interprete unico al posto di cinque personaggi e un coro.<br />Vittorio Franceschi li riunisce in sé e li trasmette attraverso le maschere di Werner Strub, maschere speciali, un piccolo capolavoro di confezione artigianale e di espressività scenica, che, animate abilmente dall’attore, prendono il carattere dei vari personaggi. Il volto di Franceschi si esprime attraverso gli occhi e la voce filtrata dalla maschera ha il tono adeguato al ragazzo col motorino, poi a quello della vedova, a quello del padre di un figlio suicida, della ragazza con la madre assassinata e infine del barbone, che è forse il carattere più vivo e sentito, dal risvolto ironico e un po’ buffo. L’interpretazione eccellente di Franceschi, attore – autore, non fa sentire la fatica reale di vivere da solo cinque protagonisti, ma ci offre uno spettacolo affascinante, punteggiato di humour e di riflessioni filosofiche. Ben intonata la scena di Matteo Soltanto, le musiche di Andrea Nicolini e le luci di Sandro Sussi.</p> <p style="text-align: justify;"><strong><strong>Etta Cascini</strong></strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong><strong>{2jtoolbox_content tabs id:1 end}</strong></strong></p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/5f1edc5f0d6d6465a30b267802485710_S.jpg" alt="A corpo morto" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>di Vittorio Franceschi</strong><br /><strong>Regia: Marco Sciaccaluga<br />Scene: Matteo Soltanto, Maschere e Costumi: Werner Strub, Musiche: Andrea Nicolini, Luci: Sandro Sussi</strong><br /><strong>Interprete: Vittorio Franceschi</strong><br /><strong>Teatro Stabile di Genova<br />Teatro Duse, Genova dal 15 aprile al 3 maggio 2009<br /></strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>{2jtoolbox_content tabs id:1 begin title:<strong>Sipario, 27 aprile 2009</strong>}</strong><br />Un tema inquietante come la morte diventa nello spettacolo di Vittorio Franceschi un tema quotidiano, ed è lo spunto per cinque racconti di vita vissuta con un corollario di considerazioni e lampi di verità sull’uomo e la sua natura. Rappresentata con giusto risalto ed equilibrio da Marco Sciaccaluga, la storia ha un sorprendente interprete unico al posto di cinque personaggi e un coro.<br />Vittorio Franceschi li riunisce in sé e li trasmette attraverso le maschere di Werner Strub, maschere speciali, un piccolo capolavoro di confezione artigianale e di espressività scenica, che, animate abilmente dall’attore, prendono il carattere dei vari personaggi. Il volto di Franceschi si esprime attraverso gli occhi e la voce filtrata dalla maschera ha il tono adeguato al ragazzo col motorino, poi a quello della vedova, a quello del padre di un figlio suicida, della ragazza con la madre assassinata e infine del barbone, che è forse il carattere più vivo e sentito, dal risvolto ironico e un po’ buffo. L’interpretazione eccellente di Franceschi, attore – autore, non fa sentire la fatica reale di vivere da solo cinque protagonisti, ma ci offre uno spettacolo affascinante, punteggiato di humour e di riflessioni filosofiche. Ben intonata la scena di Matteo Soltanto, le musiche di Andrea Nicolini e le luci di Sandro Sussi.</p> <p style="text-align: justify;"><strong><strong>Etta Cascini</strong></strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong><strong>{2jtoolbox_content tabs id:1 end}</strong></strong></p></div>A COSE SERVONO GLI UOMINI? - regia Lina Wertmüller2019-12-25T17:29:10+01:002019-12-25T17:29:10+01:00https://www.sipario.it/recensioniprosaa/item/12954-a-cose-servono-gli-uomini-regia-lina-wertmueller.htmlPierluigi Pietricola<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/41e1df87efab43fa1dd68637d38f1e82_S.jpg" alt="Nancy Brilli e Daniele Antonini in "A che servono gli uomini?", regia Lina Wertmüller" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>una commedia di Jaja Fiastri<br />con le musiche di Giorgio Gaber e Jacopo Fiastri<br />adattamento di Lina Wertmüller, Valerio Ruiz, Nancy Brilli<br />con Nancy Brilli, Daniele Antonini, Nicola D’Ortona, Giulia Gallone, Igi Meggiorin<br />con la partecipazione di FIORETTA MARI <br />luci Iuraj Saleri<br />scene Sissy Granata <br />costumi Andrea Sorrentino <br />coreografie Irma Cardano<br />coordinamento artistico Pierluigi Iorio<br />regista assistente Valerio Ruiz<br />direzione artistica Nancy Brilli<br />regia Lina Wertmüller <br />personaggi e interpreti in ordine di apparizione<br />Teodolinda Rosselli Nancy Brilli<br />Samantha Giulia Gallone<br />Giovanni Padovan Igi Meggiorin<br />Markus Nicola D’Ortona<br /> Osvaldo Menicucci Daniele Antonini<br />Carmela Menicucci Fioretta Mari<br />Produzione Primoatto Produzioni<br />Roma, Teatro Quirino – Vittorio Gassman dal 23 dicembre al 6 gennaio 2019</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 begin title:<strong>www.Sipario.it, 24 dicembre 2019</strong>}</p> <p style="text-align: justify;">Nancy Brilli veste allegramente i panni di una zitella gaudente e raffinata, che si ostina a voler rimanere da sola ma, nonostante tutto, desidera più di ogni altra cosa al mondo avere un figlio. È questa, detta succintamente, la storia che anima la commedia musicale <em>A che servono gli uomini?</em>, scritta da Jaja Fiastri e diretta da Lina Wertmüller. <br />Un insieme di scenette alternate a momenti musicali, che di battuta in battuta e di situazione in situazione, tracciano la storia di Teodolinda Rosselli – Teo per gli amici – e della sua idiosincrasia per la vita coniugale. Lei è una donna creativa: dipinge, realizza fotografie, crea fumetti e tutto vuole fuorché un marito che le gironzoli per casa, limitandola nella sua libertà. Nancy Brilli impersona una Teodolinda non così aspra e che la solitudine e, si presuppone, un’infinita serie di scottanti delusioni hanno reso severa e implacabile verso tutti. Al contrario, ci troviamo di fronte a un personaggio che, a suo modo, esprime una dolcezza ed una certa fragilità. Sentimenti che esterna nei confronti di quelli che finiscono per formare la sua famiglia: l’amica Samantha (Giulia Gallone) e il vicino Giovanni (Igi Meggiorin).<br />Il punto è: come diventare mamma pur non avendo un uomo accanto? Teo trova la soluzione: ricorrere alla fecondazione assistita. E come? Rubando una provetta dal laboratorio specialistico dove lavora Giovanni. Ma questo non le basta. Contravvenendo alla legge, Teo vuole sapere anche l’identità del donatore del seme. Ciò che renderà possibile l’incontro con il dongiovanni Osvaldo (Daniele Antonini), il quale tra un’indecisione e una conquista, finirà per innamorarsi di Teo e desidererà essere padre del bambino che lei farà nascere.<br />Lavoro dall’ironia leggera, non sferzante e corrosiva, sul fenomeno odierno delle famiglie allargate e che tuttavia finisce per essere godibile e donare due ore di spensierata allegria; con una Nancy Brilli disinvolta, che pare trovarsi a suo perfetto agio nella commedia musicale. Ma su tutti gli interpreti, per bravura ha svettato Fioretta Mari nei panni della mamma di Osvaldo. Una recitazione, quella della Mari, giocata su tempi comici perfetti mai precostruiti in prova, ma che davano l’idea di adattarsi al modo con cui i vari compagni di scena le offrivano, al momento, la giusta situazione e la battuta ideale per far innescare la risata tra il pubblico. I siparietti che hanno visto protagonista Fioretta Mari sono stati tra i più esilaranti, ed hanno conferito a questa commedia quelle sfumature e quelle pieghe drammaturgiche degne di rammentare i lavori migliori di Garinei e Giovannini.<br />Buona anche la scrittura di Jaja Fiastri: sempre ironica ed equilibrata. Così come la direzione di Lina Wertmüller, che pur inserendo gli interpreti in un preciso disegno registico, ha saputo lasciarli liberi di esprimersi e divertirsi, chiedendo loro di essere spontanei leggeri e lievemente goliardici, e di mostrare una tenera simpatia per i personaggi via via interpretati.</p> <p><strong>Pierluigi Pietricola</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 end}</p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/41e1df87efab43fa1dd68637d38f1e82_S.jpg" alt="Nancy Brilli e Daniele Antonini in "A che servono gli uomini?", regia Lina Wertmüller" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>una commedia di Jaja Fiastri<br />con le musiche di Giorgio Gaber e Jacopo Fiastri<br />adattamento di Lina Wertmüller, Valerio Ruiz, Nancy Brilli<br />con Nancy Brilli, Daniele Antonini, Nicola D’Ortona, Giulia Gallone, Igi Meggiorin<br />con la partecipazione di FIORETTA MARI <br />luci Iuraj Saleri<br />scene Sissy Granata <br />costumi Andrea Sorrentino <br />coreografie Irma Cardano<br />coordinamento artistico Pierluigi Iorio<br />regista assistente Valerio Ruiz<br />direzione artistica Nancy Brilli<br />regia Lina Wertmüller <br />personaggi e interpreti in ordine di apparizione<br />Teodolinda Rosselli Nancy Brilli<br />Samantha Giulia Gallone<br />Giovanni Padovan Igi Meggiorin<br />Markus Nicola D’Ortona<br /> Osvaldo Menicucci Daniele Antonini<br />Carmela Menicucci Fioretta Mari<br />Produzione Primoatto Produzioni<br />Roma, Teatro Quirino – Vittorio Gassman dal 23 dicembre al 6 gennaio 2019</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 begin title:<strong>www.Sipario.it, 24 dicembre 2019</strong>}</p> <p style="text-align: justify;">Nancy Brilli veste allegramente i panni di una zitella gaudente e raffinata, che si ostina a voler rimanere da sola ma, nonostante tutto, desidera più di ogni altra cosa al mondo avere un figlio. È questa, detta succintamente, la storia che anima la commedia musicale <em>A che servono gli uomini?</em>, scritta da Jaja Fiastri e diretta da Lina Wertmüller. <br />Un insieme di scenette alternate a momenti musicali, che di battuta in battuta e di situazione in situazione, tracciano la storia di Teodolinda Rosselli – Teo per gli amici – e della sua idiosincrasia per la vita coniugale. Lei è una donna creativa: dipinge, realizza fotografie, crea fumetti e tutto vuole fuorché un marito che le gironzoli per casa, limitandola nella sua libertà. Nancy Brilli impersona una Teodolinda non così aspra e che la solitudine e, si presuppone, un’infinita serie di scottanti delusioni hanno reso severa e implacabile verso tutti. Al contrario, ci troviamo di fronte a un personaggio che, a suo modo, esprime una dolcezza ed una certa fragilità. Sentimenti che esterna nei confronti di quelli che finiscono per formare la sua famiglia: l’amica Samantha (Giulia Gallone) e il vicino Giovanni (Igi Meggiorin).<br />Il punto è: come diventare mamma pur non avendo un uomo accanto? Teo trova la soluzione: ricorrere alla fecondazione assistita. E come? Rubando una provetta dal laboratorio specialistico dove lavora Giovanni. Ma questo non le basta. Contravvenendo alla legge, Teo vuole sapere anche l’identità del donatore del seme. Ciò che renderà possibile l’incontro con il dongiovanni Osvaldo (Daniele Antonini), il quale tra un’indecisione e una conquista, finirà per innamorarsi di Teo e desidererà essere padre del bambino che lei farà nascere.<br />Lavoro dall’ironia leggera, non sferzante e corrosiva, sul fenomeno odierno delle famiglie allargate e che tuttavia finisce per essere godibile e donare due ore di spensierata allegria; con una Nancy Brilli disinvolta, che pare trovarsi a suo perfetto agio nella commedia musicale. Ma su tutti gli interpreti, per bravura ha svettato Fioretta Mari nei panni della mamma di Osvaldo. Una recitazione, quella della Mari, giocata su tempi comici perfetti mai precostruiti in prova, ma che davano l’idea di adattarsi al modo con cui i vari compagni di scena le offrivano, al momento, la giusta situazione e la battuta ideale per far innescare la risata tra il pubblico. I siparietti che hanno visto protagonista Fioretta Mari sono stati tra i più esilaranti, ed hanno conferito a questa commedia quelle sfumature e quelle pieghe drammaturgiche degne di rammentare i lavori migliori di Garinei e Giovannini.<br />Buona anche la scrittura di Jaja Fiastri: sempre ironica ed equilibrata. Così come la direzione di Lina Wertmüller, che pur inserendo gli interpreti in un preciso disegno registico, ha saputo lasciarli liberi di esprimersi e divertirsi, chiedendo loro di essere spontanei leggeri e lievemente goliardici, e di mostrare una tenera simpatia per i personaggi via via interpretati.</p> <p><strong>Pierluigi Pietricola</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 end}</p></div>A CUORE APERTO - regia Gianni Clementi2021-11-04T17:46:13+01:002021-11-04T17:46:13+01:00https://www.sipario.it/recensioniprosaa/item/14014-a-cuore-aperto-regia-gianni-clementi.htmlPierluigi Pietricola<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/eae68528a7a0c416e2bdb0631a7307d5_S.jpg" alt="Massimo Wertmüller in "A cuore aperto", regia Gianni Clementi" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>Testo e regia di Gianni Clementi</strong><br /><strong>con Massimo Wertmüller <br />musiche M° Pino Cangialosi <br />musicisti Pino Cangialosi e Mario De Meo<br /> luci e fonica Marco Laudando</strong><br /><strong>Produzione Milleluci Entertainment</strong><br /><strong>Stagione 2021-2022 Teatro Vittoria – Roma dal 2 al 7 novembre 2021</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 begin title:<strong>www.Sipario.it, 3 novembre 2021</strong>}</p> <p style="text-align: justify;">I più credono che appartenere ad un cultura voglia dire condividerne ogni cosa, esasperare i suoi pregi e celare – in modo più o meno goffo – i difetti. Si finisce così per esprimere un campanilismo di stinta fattura, a tratti fazioso e tutt’altro che simpatico. Ma si può anche esprimere la propria appartenenza ad una cultura osservandone, con leggera severità, i suoi difetti, mostrandoli senza indulgenza, in modo schietto ed ironico. È la strada scelta dallo spettacolo scritto e diretto da Gianni Clementi, <em>A cuore aperto</em>, interpretato da uno straordinario Massimo Wertmüller.<br />Questo attore di talento veramente straordinario, man mano che passano gli anni diventa sempre più meticoloso, attento alla sfumature. Il suo volto somiglia ad una grande maschera teatrale; ed è un miracolo che avviene senza trucchi: basta uno strabuzzare gli occhi, un leggero rigonfiamento delle gote per esprimere disappunto o irritazione, inarcare il sopracciglio quasi a voler dire: “sono superiore rispetto a ciò che sto dicendo, che è poca cosa”: un repertorio mimico essenziale, ma così difficile da perfezionare e che rende grande un interprete. Il tutto associato ad una capacità esemplare nel porgere le battute: con precisione, scandendo i vari ritmi senza far loro perdere fluidità. E che dire del gesticolare delle sue mani: discreto ma espressivo ed eloquente al massimo grado, al punto da ricordare quello di un Eduardo o un Peppino De Filippo? Questo è Massimo Wertmüller.<br />In un’ora e mezza di monologo, si passano in rassegna tutti i difetti dei romani e che possono infastidire per primi proprio i cittadini della Capitale: la sintesi brutale del dialetto associata alla sua incisività; le particolarità della sua arte culinaria; la trasandatezza, davvero ingiustificata, con la quale i romani maltrattano la loro città. Ma anche la generosità di Roma, che si dimostra soprattutto nell’accogliere coloro che, pur non essendovi nati, hanno espresso le sue intime particolarità con grazia e autenticità: Pier Paolo Pasolini, Trilussa. E come dimenticare Carlo Emilio Gadda? Impossibile. E le canzoni romane? Talvolta melense, spesso piene di sottintesi maliziosi.<br />Fra una risata e l’altra, si finisce per scoprire una Roma la cui cultura appare agli occhi dello spettatore nuova, inattesa. E questo perché, purtroppo, nessuno si preoccupa più di esprimere attraverso l’arte l’intima essenza di una città sulla falsariga di quanto, secoli or sono ormai, fecero Carlo Goldoni con la sua Venezia o Raffaele Viviani con la sua Napoli.<br />Massimo Wertmüller, forse riprendendo implicitamente la lezione di Dario Fo, con questo spettacolo ha inteso fermare per sempre – il “per sempre” del teatro, castello di sabbia esposto all’erosione dei venti, come diceva Angelo Maria Ripellino – la Tradizione romana, sfrondandola dai falsi tradizionalismi che tanto l’hanno banalizzata.<br />Ne è emerso uno spettacolo divertentissimo, bellissimo, leggero ed a suo modo profondo. Una perla autentica di grazia ed eleganza.</p> <p><strong>Pierluigi Pietricola</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 end}</p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/eae68528a7a0c416e2bdb0631a7307d5_S.jpg" alt="Massimo Wertmüller in "A cuore aperto", regia Gianni Clementi" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>Testo e regia di Gianni Clementi</strong><br /><strong>con Massimo Wertmüller <br />musiche M° Pino Cangialosi <br />musicisti Pino Cangialosi e Mario De Meo<br /> luci e fonica Marco Laudando</strong><br /><strong>Produzione Milleluci Entertainment</strong><br /><strong>Stagione 2021-2022 Teatro Vittoria – Roma dal 2 al 7 novembre 2021</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 begin title:<strong>www.Sipario.it, 3 novembre 2021</strong>}</p> <p style="text-align: justify;">I più credono che appartenere ad un cultura voglia dire condividerne ogni cosa, esasperare i suoi pregi e celare – in modo più o meno goffo – i difetti. Si finisce così per esprimere un campanilismo di stinta fattura, a tratti fazioso e tutt’altro che simpatico. Ma si può anche esprimere la propria appartenenza ad una cultura osservandone, con leggera severità, i suoi difetti, mostrandoli senza indulgenza, in modo schietto ed ironico. È la strada scelta dallo spettacolo scritto e diretto da Gianni Clementi, <em>A cuore aperto</em>, interpretato da uno straordinario Massimo Wertmüller.<br />Questo attore di talento veramente straordinario, man mano che passano gli anni diventa sempre più meticoloso, attento alla sfumature. Il suo volto somiglia ad una grande maschera teatrale; ed è un miracolo che avviene senza trucchi: basta uno strabuzzare gli occhi, un leggero rigonfiamento delle gote per esprimere disappunto o irritazione, inarcare il sopracciglio quasi a voler dire: “sono superiore rispetto a ciò che sto dicendo, che è poca cosa”: un repertorio mimico essenziale, ma così difficile da perfezionare e che rende grande un interprete. Il tutto associato ad una capacità esemplare nel porgere le battute: con precisione, scandendo i vari ritmi senza far loro perdere fluidità. E che dire del gesticolare delle sue mani: discreto ma espressivo ed eloquente al massimo grado, al punto da ricordare quello di un Eduardo o un Peppino De Filippo? Questo è Massimo Wertmüller.<br />In un’ora e mezza di monologo, si passano in rassegna tutti i difetti dei romani e che possono infastidire per primi proprio i cittadini della Capitale: la sintesi brutale del dialetto associata alla sua incisività; le particolarità della sua arte culinaria; la trasandatezza, davvero ingiustificata, con la quale i romani maltrattano la loro città. Ma anche la generosità di Roma, che si dimostra soprattutto nell’accogliere coloro che, pur non essendovi nati, hanno espresso le sue intime particolarità con grazia e autenticità: Pier Paolo Pasolini, Trilussa. E come dimenticare Carlo Emilio Gadda? Impossibile. E le canzoni romane? Talvolta melense, spesso piene di sottintesi maliziosi.<br />Fra una risata e l’altra, si finisce per scoprire una Roma la cui cultura appare agli occhi dello spettatore nuova, inattesa. E questo perché, purtroppo, nessuno si preoccupa più di esprimere attraverso l’arte l’intima essenza di una città sulla falsariga di quanto, secoli or sono ormai, fecero Carlo Goldoni con la sua Venezia o Raffaele Viviani con la sua Napoli.<br />Massimo Wertmüller, forse riprendendo implicitamente la lezione di Dario Fo, con questo spettacolo ha inteso fermare per sempre – il “per sempre” del teatro, castello di sabbia esposto all’erosione dei venti, come diceva Angelo Maria Ripellino – la Tradizione romana, sfrondandola dai falsi tradizionalismi che tanto l’hanno banalizzata.<br />Ne è emerso uno spettacolo divertentissimo, bellissimo, leggero ed a suo modo profondo. Una perla autentica di grazia ed eleganza.</p> <p><strong>Pierluigi Pietricola</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 end}</p></div>A HUNGER ARTIST, UN DIGIUNATORE - regia Eimuntas Nekrošius2017-04-22T12:35:14+02:002017-04-22T12:35:14+02:00https://www.sipario.it/recensioniprosaa/item/10680-a-hunger-artist-un-digiunatore-regia-eimuntas-nekrosius.htmlDomenico Colosi<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/5bd66c941ac7c17a430254b0dcd9269e_S.jpg" alt=""A hunger artist - Un digiunatore", regia Eimuntas Nekrošius" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>di Franz Kafka</strong><br /><strong>Regia Eimuntas Nekrošius</strong><br /><strong>Con Viktorija Kuodyté, Vygandas Vadeiša, Vaidas Vilius, Genadij Virkovskij</strong><br /><strong>Scene Marius Nekrošius</strong><br /><strong>Costumi Nadežda Gultiajeva</strong><br /><strong>Aiuto regia Tauras Čižas</strong><br /><strong>Musiche Arvydas Dūkšta</strong><br /><strong>Luci Audrius Jankauskas</strong><br /><strong>Attrezzista Genadij Virkovskij</strong><br /><strong>Produzione Meno Fortas Theatre</strong><br /><strong>con il sostegno del Consiglio di Cultura Lituano</strong><br /><strong>Organizzazione Aldo Miguel Grompone, Roma</strong><br /><strong>Teatro Bellini di Napoli, 19 aprile 2017</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 begin title:<strong>www.Sipario.it, 22 aprile 2017</strong>}</p> <p style="text-align: justify;">La cena perfetta: il digiuno. Le pareti domestiche come gabbia che stringe l'artista nella sua esibizione di disciplina, mentre alcuni guardiani divengono benevoli aguzzini o custodi di una fiamma eterna per offrire al pubblico risposte adeguate a legittimi sospetti. Ascesa e declino, come è necessario, per il virtuoso della fame, prima sommerso da premi e diplomi, poi costretto a trascinarsi stancamente, al culmine della sua arte, in un degradato circo di periferia. Per raggiungere la vetta più lucente, vittoria di Pirro in un mondo scostante e indifferente.<br />Un allestimento superbo per lo stratificato testo finale di Franz Kafka, <em>Un digiunatore</em>: dopo la prima italiana al Festival di Spoleto, è il Bellini di Napoli ad ospitare l'ultimo lavoro firmato dal genio lituano Eimuntas Nekrošius, laboriosa ricerca - fuor di banalità - sul senso stesso dell'attività teatrale e del lavoro culturale. Allargate le maglie dell'insoddisfacente <em>routine</em> commerciale, le evoluzioni del digiunatore segnano una distanza incolmabile con un pubblico ammaliato da comicità demente e ferinità adrenalinica, crudele e primitiva: come un sacerdote pagano, rimasto ancorato ad un culto in dismissione, l'artista raggiunge un inutile nirvana che sfocia inevitabilmente nell'oblio. Dopo le scanzonate battute iniziali, quando la digiunatrice Viktorija Kuodyté percepisce il vento di un favore che non è ancora autentica venerazione, il percorso attraversa luoghi comuni (i premi, la richiesta di applausi), rinunce, spiegazioni scientifiche e tragicomiche ritualità, preludio al divorzio con l'impresario Vaidas Vilius, generoso carceriere con movenze da gangster <em>à la</em> Kaurismaki. L'approdo al circo, un contesto di gruppo in cui il singolo è costretto a condividere l'ultimo bagliore di gloria, è la tappa finale di un tragitto che solo all'esterno può apparire claustrofobico e insensato: necessario invece, forse un <em>memento mori</em> che regola i conti nella prometeica sfida per la conoscenza. In questo senso il giaciglio di diplomi, oramai superati in una corsa verso l'assoluto che non può essere scandita da istituzioni umane.<br />Solo umili oggetti in scena, piccole intuizione che fanno emergere l'universale dall'infimo particolare: a nobilitare l'insieme la prova dell'attrice lituana, brillante folgorazione di un Nekrošius che regala ad un testo kafkiano una protagonista degna delle suggestioni del Balzac più sensuale. Tra un charleston e irridenti gestualità <em>slapstick</em>, l'omaggio al cinema muto riecheggia l'incanto di un mondo al tramonto: l'arte, vanità di vanità.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Domenico Colosi</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 end}</p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/5bd66c941ac7c17a430254b0dcd9269e_S.jpg" alt=""A hunger artist - Un digiunatore", regia Eimuntas Nekrošius" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: justify;"><strong>di Franz Kafka</strong><br /><strong>Regia Eimuntas Nekrošius</strong><br /><strong>Con Viktorija Kuodyté, Vygandas Vadeiša, Vaidas Vilius, Genadij Virkovskij</strong><br /><strong>Scene Marius Nekrošius</strong><br /><strong>Costumi Nadežda Gultiajeva</strong><br /><strong>Aiuto regia Tauras Čižas</strong><br /><strong>Musiche Arvydas Dūkšta</strong><br /><strong>Luci Audrius Jankauskas</strong><br /><strong>Attrezzista Genadij Virkovskij</strong><br /><strong>Produzione Meno Fortas Theatre</strong><br /><strong>con il sostegno del Consiglio di Cultura Lituano</strong><br /><strong>Organizzazione Aldo Miguel Grompone, Roma</strong><br /><strong>Teatro Bellini di Napoli, 19 aprile 2017</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 begin title:<strong>www.Sipario.it, 22 aprile 2017</strong>}</p> <p style="text-align: justify;">La cena perfetta: il digiuno. Le pareti domestiche come gabbia che stringe l'artista nella sua esibizione di disciplina, mentre alcuni guardiani divengono benevoli aguzzini o custodi di una fiamma eterna per offrire al pubblico risposte adeguate a legittimi sospetti. Ascesa e declino, come è necessario, per il virtuoso della fame, prima sommerso da premi e diplomi, poi costretto a trascinarsi stancamente, al culmine della sua arte, in un degradato circo di periferia. Per raggiungere la vetta più lucente, vittoria di Pirro in un mondo scostante e indifferente.<br />Un allestimento superbo per lo stratificato testo finale di Franz Kafka, <em>Un digiunatore</em>: dopo la prima italiana al Festival di Spoleto, è il Bellini di Napoli ad ospitare l'ultimo lavoro firmato dal genio lituano Eimuntas Nekrošius, laboriosa ricerca - fuor di banalità - sul senso stesso dell'attività teatrale e del lavoro culturale. Allargate le maglie dell'insoddisfacente <em>routine</em> commerciale, le evoluzioni del digiunatore segnano una distanza incolmabile con un pubblico ammaliato da comicità demente e ferinità adrenalinica, crudele e primitiva: come un sacerdote pagano, rimasto ancorato ad un culto in dismissione, l'artista raggiunge un inutile nirvana che sfocia inevitabilmente nell'oblio. Dopo le scanzonate battute iniziali, quando la digiunatrice Viktorija Kuodyté percepisce il vento di un favore che non è ancora autentica venerazione, il percorso attraversa luoghi comuni (i premi, la richiesta di applausi), rinunce, spiegazioni scientifiche e tragicomiche ritualità, preludio al divorzio con l'impresario Vaidas Vilius, generoso carceriere con movenze da gangster <em>à la</em> Kaurismaki. L'approdo al circo, un contesto di gruppo in cui il singolo è costretto a condividere l'ultimo bagliore di gloria, è la tappa finale di un tragitto che solo all'esterno può apparire claustrofobico e insensato: necessario invece, forse un <em>memento mori</em> che regola i conti nella prometeica sfida per la conoscenza. In questo senso il giaciglio di diplomi, oramai superati in una corsa verso l'assoluto che non può essere scandita da istituzioni umane.<br />Solo umili oggetti in scena, piccole intuizione che fanno emergere l'universale dall'infimo particolare: a nobilitare l'insieme la prova dell'attrice lituana, brillante folgorazione di un Nekrošius che regala ad un testo kafkiano una protagonista degna delle suggestioni del Balzac più sensuale. Tra un charleston e irridenti gestualità <em>slapstick</em>, l'omaggio al cinema muto riecheggia l'incanto di un mondo al tramonto: l'arte, vanità di vanità.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Domenico Colosi</strong></p> <p style="text-align: justify;">{2jtoolbox_content tabs id:1 end}</p></div>