sabato, 27 aprile, 2024
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TURANDOT - Libretto di Giuseppe Adami e di Renato Simone

"Turandot" "Turandot"

di Giacomo Puccini
Libretto di Giuseppe Adami e di Renato Simone
Finale di Luciano Berio 
Suada Gjergji, Tso Hanying e Rosa Vingiani  Turandot; Francesco Domenico Doto  Altoum; Giuliano Farina e Marco Gazzini Timur; Dario Di Vietri, Mickael Spadaccini, Hector Lopez Mendoza Calaf; Aloisia de Nardis, Chiara Guerra, Alessia Merepeza Liu’; Davide Peroni e Davide Romeo Ping; Oronzo D'urso e Jesus Hernandez Pong; Paolo Mascari e Roberto Manuel Zangari Pang; Luca Failla e Dario Sogos Un mandarino; Francesco Domenico Doto Il Principe di Persia
Maestri collaboratori: Dahyun Kang, Mauro Presazzi, Pablo Salido Pulido, Lorenzo Tomasini e Antonio Vicentini
Personale tecnico, organizzativo e amministrativo dello Sperimentale Orchestra O.T.Li.S. del Teatro Lirico Sperimentale Direttore Carlo Palleschi
Coro e Piccolo Coro del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto “A. Belli”, Direttore  Mauro Presazzi
Teatro Nuovo Giancarlo Menotti Spoleto, Stagione del teatro lirico sperimentale Belli di Spoleto 18, 19, 20 settembre 2023

www.Sipario.it, 11 settembre 2023

Chi lo avrebbe mai pensato che uno dei teatri più longevi e più in ristrettezze economiche aprisse il tempo delle celebrazioni pucciniane con l’ultima opera del compositore lucchese che per il fatidico finale ha da sempre lasciato una sola ombra e una sola speranza, quella della chiusura. Già, la chiusura di un’opera di Giacomo Puccini. Un dilemma, un problema, una malattia. Quella malattia che portò Puccini a morire disperato, come Tosca, in una clinica di Bruxelles, lui tanto italiano, tanto toscano da decidere di tentare l’ultima mano di Poker, come nella Fanciulla, in un posto così lontano da lui. Eppure Puccini era Puccini. Quando arrivò in clinica accompagnato dal figlio Tonio, perfino la Regina del Belgio voleva essere informata velocemente dell’andamento della salute del  grande Maestro. Si è vero. Ma  è vero anche che il famoso chirurgo sperimentale che si prese in carico la speranza di Puccini forse non aveva fatto i conti con quel proverbiale cuore emotivo del maestro. Lui femmineo incarnato in un eterno uomo, aveva un cuore forte si ma al tempo stesso attento ad ogni cambiamento. Eppure quel tumore che lo aveva relegato in una stanza di ospedale, a lui proprio che viaggiava in automobile o a cavallo o in transatlantico, proprio non andava giù. Eppure è storia vera, lui che era stato voluto ed insignito dell’onore di essere Senatore del Governo Italiano (si autodefiniva ironicamente Sonatore del Regno)  aveva però proprio in quella parte di se talmente importante per tutta la sua vita, lì dove nasce la parola, una frattura lo aveva portato ad ammalarsi seriamente, una frattura interiore non fisica. Quella arrivò con un tumore alla laringe che lo portò ad andarsene tristemente andante il 29 novembre 1924. E nulla fu come prima. Seriamente. Morto Puccini fu come quando Mosè divise le acque. Insomma fu una vera tragedia. E lui uomo con il suo femmineo stupendo dovette lasciare nelle mani di Ricordi Tito che non era il lungimirante, saggio e paterno Giulio, un destino assurdo forse ma necessario. Concludere quella incredibile opera che è Turandot in un mare  di dubbi, incertezze e tanta rabbia e risentimento. Come se il povero Sor Giacomo non dovesse morire. Adesso provate ad immaginare cosa significasse per il più grande editore musicale italiano perdere nel 1901 Giuseppe Verdi e nel 1924 Giacomo Puccini. Due galline dalle uova d’ora. E chi mai poteva sostituire Puccini che aveva rimpiazzato Verdi? Nessuno. Nessuno era alla sua altezza. C’è poco da fare. Insomma il problema è grande. Pertanto non dotato di grande genio Tito, fa la cosa più ovvia, coinvolge Arturo Toscanini e in qualche modo lo costringe ad occuparsi di questo benedetto finale che va compiuto. Questa è una storia. L’altra è che Tonio Puccini si trova fra le mani questi appunti lasciati dal padre e pensa quindi di metterli a disposizione di Ricordi dato che comunque egli rimaneva l’editore del padre. Dunque Puccini lascia la sua infinita Turandot incompiuta. Fra Tito Ricordi e Tonio Puccini nasce questa intesa, quella di trovare qualche anima pia che chiudesse l’opera, dalla morte di Liù fino all’amplesso straussiano fra Calaf e Turandot e con la conclusione nel senso di amore dell’intero lavoro. Viene scelto un bravo compositore come Franco Alfano il quale, poverino, sa di non essere Puccini. Non era Puccini. Quindi dopo una serie di tentativi andati a male, accetta. E non lo no avesse mai fatto. Fu una sciagura, come quelle che avvengono nei romanzi di predestinati e altre cose simili. Toscanini entra in ballo costringendo Alfano ad un lavoro molto stressante, da quanto si rivela dai documenti. Esce il primo finale ma Tito Ricordi non lo trova giusto per l’opera, troppo Alfano, poco Puccini. Il malcapitato Alfano si lacera dai sensi di colpa e imbastisce un secondo finale che tanto che piace a Tito e a Toscanini. Pertanto l’opera con un colpo di grande scena viene rappresentata per la prima volta fino alla morte di Liù il 25 aprile 1926. Due anni dopo la morte di Puccini. Toscanini e il geniale Tito non vogliono problemi quindi presentano il lavoro alla Scala, lì dove il compositore dopo l’insuccesso di Madama Butterfly, aveva deciso di non metterci più piede, almeno con un nuovo lavoro. Toscanini da grande attore conclude l’opera come sappiamo con il funerale di Liù e poi pronuncia la famose frase “qui il maestro è morto” pià o meno. Un grande colpo di teatro. Poi venne Alfano II e il destino dell’opera sembrava definito con lo scoppio di petardi e mortaretti e quella tronfia esaltazione segnata  dal refrain di Nessun Dorma. Oramai Tito Ricordi è morto , la stessa casa editrice è stata ignobilmente venduta, smembrata e lasciata alla gestione americana di Universal. Si pensa bene che c’erano i diritti d’autore da rinnovare e quindi quale ghiotta occasione se non chiedere ad un compositore di creare un nuovo finale? Fu la volta di Luciano Berio che sempre prendendo dai famosi appunti di Puccini crea un finale probabilmente molto più in sintonia con quello che era nel sentimento dell’autore. Di questo finale si è detto e scritto tanto e spesso in maniera poco musicologica, riscontrando una serie di errori, sviste e usi vari inappropriati da parte di Berio. In effetti il compositore ligure riesce a creare un vero segmento d’intesa con Puccini. Ma in Italia, terra del bel canto, questo Turandot con finale Berio vede un paio di rappresentazioni a Genova e a Milano. Poi l’oblio. Non sia mai che qualche teatro si impegni a far conoscere la versione di Berio, per non parlare del famoso primo finale di Alfano, poi riesumato a Londra (è paradossale che su Alfano in Italia non esista una biografia o uno studio degno di tale nome? Tranne un vecchio lavoro di Della Corte e un saggio di Majone) che non viene mai, o quasi mai eseguito nel nostro paese, per non parlare dell’opera così come venne presentata il 25 aprile del 1926. Insomma siamo nel paese del bel canto. Ebbene dopo questo necessario preambolo storico arriviamo a scrivere di quello che è stato un coraggioso intervento dei due direttori artistici del Teatro Lirico Sperimentale Belli di Spoleto, il decano degli storici della musica Michelangelo Zurletti e il più giovane Enrico Girardi. Ebbene, dopo aver messo in piedi un’ottima stagione lirica, decidono di aprire le nozze centenarie di Puccini e coniugare il tutto con l’anniversario della morte di Luciano Berio, scegliendo proprio una esecuzione con quel vituperato finale. L’impresa è titanica, allestire Turandot non è mai cosa facile. Infatti i due storici decidono di affidarsi ad un perfetto regista Alessio Pizzech con la collaborazione del cast tecnico composto da Andrea Stanisci, Clelia De Angelis, Eva Bruno riesce a fare di Turandot una seduta di analisi, manco tanto freudiana ma junghiana. A parte la lettura analitica dei vari personaggi, Pizzech è intensamente umano e sensuale quando mette in scena l’Amore, quello non romantico ma talmente umano da far star male (quello del finale di Berio). La sua lettura appassiona in quello che è uno scenario malato, come quello di un reparto di psichiatria, di una gabbia, di un tumulto interiore che accomuna i due protagonisti. Non si pensi che Calaf non porti con sé quella profonda ferita narcisistica che fa cercare sempre la faccia della morte. Turandot la infligge ma quando incontra l’uomo Principe non riesce a resistere a quella sutura interiore che tanto vorrebbe. Per non parlare di quella perfetta e silente/dolente presenza di Liù e di un padre che non vede. Non vede. Infatti è un caleidoscopico mondo di intenti interiori, di conflitti, di sofferenze e di tantissima dolcezza che Puccini prova per questi pupazzi che usa per raccontare la sua scena interiore. La morte che ha la faccia di Turandot? Forse. O anche quella di Calaf, anche quella di Liù, anche quella di Timur. Insomma Puccini sente già il freddo. E di quest’opera coloro che sanno, scrivono spesso che è l’opera che parla di quella povera donna della Fosca. La cameriera che si uccise per l’onta subita dalla signora Puccini. Che neanche lei stava molto bene, per intenderci. Poi in quella mania di Puccini di rompere il corso del destino, per creare il vero musical, mette in scena l’intervento di Ping, Pong e Pang che il regista trasforma nei Marx Brothers. Ed è Singing in the Rain. Ma questo non si può scrivere perché mai dire che Puccini avesse in qualche modo aperto la propria scrittura a quello che faranno gli americani da lì a poco. Destino. Forse si, forse no. Comunque la macchina messa in scena da Alessio Pizzech funziona benissimo. Fra i capellibianchi che sembrano gli abitanti del Paese dei dannati, fra scimitarre brandite come felci antiche, fra violenze che sanno tanto di semplice dolore inespresso, l’opera svolge il suo intenso compito di mantenere lo spettatore chiuso nel Teatro Nuovo di Spoleto per un bel caldo tempo di tre ore. Ma la mano della musica è quella di un bravissimo direttore come Carlo Palleschi del quale ci hanno raccontato cose belle, come quelle che lo legano al teatro di Spoleto e alla sua fama estera e poco italiana (ovviamente). Conduce come un nocchiero sicuro ed emozionato, sa tenere in piede i bravissimi ragazzi dell’orchestra del lirico spoletino. Insomma è lui il vero deus ex machina. Lo sa bene il regista che trova un’ottima intesa, visto che Pizzech conosce molto bene il linguaggio della musica. Il cast doppio delle prime due sere  a cui abbiamo assistito è ottimo, soprattutto per tutti quei giovani cantanti che escono dai corsi del Belli. Immortale Turandot della prima recita, Suada Gjergji  talmente umile da rendere Turandot persino simpatica, pietosamente simpatica. Insomma il coro, bambini che intonano canti chines mentre un malcapitato principe sta per perdere la testa, nel senso letterale, fanno di queste Turandot (che girano in diverse recite l’Umbria) un vero capolavoro di trionfo di quella infinita ed umana scrittura di Giacomo Puccini. Ci sarebbero tante altre cose da scrivere ma rischieremmo di fare un trattato o un saggio. Lungi da quello che fa un cosiddetto critico musicale ammorbare il lettore con tecnicismi musicologici. Concludiamo quindi con una certezza che nel nostro grande paese del bel canto, spesso, spessissimo si perde la fantasia, la ricerca, lo studio. Poi in quei luoghi che non sono glamour è possibile imbattersi in una fucina di umana musicalità, retta da persone che credono ancora che la musica possa essere il vero motore di questa presenza che chiamiamo vita e che forse Puccini nella sua di incredibile vita ne aveva scoperto lo spaventoso significato. Come in una favola. Con il finale di Luciano Berio. 

Marco Ranaldi

Ultima modifica il Domenica, 24 Settembre 2023 10:19

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