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PADMAVATI - regia Sanjay Leela Bhansali

Padmavati Padmavati Regia Sanjay Leela Bhansali

di Albert Roussel
direttore: Emmanuel Villaume
regia: Sanjay Leela Bhansali, coreografia: Tanusree Shankar, scene Omung Kumar Bhandula, costumi Rajesh Pratap Singh
con Nicole Piccolomini, Giorgio Surian, John Bellemer, Philippe Do, Alessia Nadin, Ivan Ludlow, Raphaël Brémard, Jean-Vincent Blot, Alain Gabriel
Orchestra Sinfonica Nazionale di Praga, Coro Châtelet
Festival di Spoleto 2008 - prima italiana
Spoleto, Teatro Nuovo, 27 e 29 giugno 2008

Il Tempo, 30 giugno 2008
Il Messaggero, 28 giugno 2008
Avvenire, 29 giugno 2008
Corriere della Sera, 29 giugno 2008

Atto primo, scena prima per il cinquantunesimo «Festival dei due Mondi» al taglio del nastro di una nuova gestione e dunque di una nuova vita. Al Teatro Nuovo, da poco restituito alla vita dopo un lungo periodo di restauro, si riporta in scena la musica del poco noto compositore francese Albert Roussel, allievo di orchestrazione di D'Indy, maestro di Satie e Martinu, ma soprattutto grande viaggiatore ed ufficiale di marina intorno al mondo. E di lui si propone un'opera rara, che aveva in Italia avuto momenti di episodiche resipiscenze musicologiche sino agli Anni Settanta, prima di un lungo inspiegabile oblio. Si tratta della rutilante opera di ambientazione indiana Padmavati, forse la sua più nota dopo il balletto Le Festin de l'araignée. Iniziata nel 1913 e portata sulle scene solo nel 1923, dunque databile all'indomani del primo conflitto mondiale, l'opera si riconnette al nutrito e fortunato filone di opere liriche di ambientazione esotica, come Butterfly o Turandot, Le Dieu bleu o Shéhérazade, per non dire di Sakuntala di Alfano resuscitata all'Opera di Roma due anni fa.
Quasi un alibi per esorcizzare il colonialismo europeo ancora al suo massimo vigore.
Tuttavia l'opera vista a Spoleto, imperniata sull'amore della bellissima Padmavati per il principe Ratan-Sen suo sposo e culminante nel rogo della fanciulla (come Didone) e nell'uccisione del marito dinanzi alle truppe del sultano Alauddin invaghito follemente della ragazza, è apparsa ricca di colori e di riferimenti iconografici, affidata come era al regista indiano Sanjay Leela Bhansali, protagonista di Bollywood. Tutto è stato usato senza risparmio di idee e di mezzi per raccontare le magie e gli incanti della misteriosa India, dalle sacerdotesse ai Brahmini, dalle danze con le spade o con i nastri rossi ai guerrieri, senza esimersi neppure dall'ingresso in scena di un docile elefante, di una tigre e di un cavallo. Un allestimento, quello già presentato in marzo al Théâtre du Chatelet di Parigi, davvero sfolgorante e avvincente sotto il profilo spettacolare.
A dirigere la musica di Roussel - una partitura ricca e a tratti assordante con dissonanze «roventi» (l'aggettivo è del contemporaneo Paul Dukas), comunque di difficile catalogazione, ma di sicuro anti-impressionistica e spesso percussiva, sulla falsariga di uno Strawinsky o di un Bartok, improntata ad un lungo recitativo lirico - c'era, sul podio della Orchestra Nazionale di Praga, Emmanuel Villaume, capace di dosare colori e umori drammatici di una grandiosa opera-balletto che da atmosfera di fiaba si volge presto in tragico dramma.
Con la finale sublimazione della coppia regale in un Nirvana celestiale e la disperazione del sultano invasore a dare vita immortale ad un episodio realmente accaduto nel XIV secolo in India.
Trionfali alla fine le accoglienze e molti applausi soprattutto per la protagonista Nicole Piccolomini, ma soprattutto per un allestimento da Mille e una notte, desideroso di appagare l'occhio non meno che l'orecchio.

Lorenzo Tozzi

Elefanti, tigri e regine
Spoleto parte dall'India

I più contenti sono i bimbi di Spoleto. Hanno una "amica" con cui giocare. E' Baby, l'elefantessa che nell'opera Padmavati porta in scena il sultano mongolo Alaouddin e poi la ritrovi che se ne va caracollando a prendere il fresco fuori dal Teatro Nuovo, circondata da ragazzini festanti. Ma anche il pubblico di Padmavati è contento perché passa due ore seguendo una storia magari un po' cupa ma ambientata in un mondo che lo riporta alla fanciullezza, all'India immutabile inventata da Salgari o magari agli sceneggiati con Kabir Bedi.
Qui Sandokan e Yanez non ci sono e l'epoca è diversa ma c'è Padmavati, mitica regina, bella e inaccessibile, che si sacrifica per difendere il suo onore minacciato da Alaouddin. Mentre tutt'intorno si danza. Perché la rarità Padmavati (1923), sogno orientale del maestro francese Albert Roussel che per certi aspetti ha anticipato la globalizzazione, non è un melodramma ma un'opéra-ballet. A Parigi in marzo ha avuto molto successo nell'allestimento "stile Bollywood" (la Hollywwod indiana) del regista Sanjay Leela Bhansali: lo stesso spettacolo, ma con direttore e cantanti diversi, ieri ha inaugurato il "nuovo corso" del Festival dei Due Mondi, accolto da applausi calorosi.
Colorata d'oriente soprattutto nella timbrica orchestrale, la musica di Roussel richiama il Debussy dei Notturni e il Rimsky-Korsakov di Sheherazade; la danza dei guerrieri, dal ritmo asimmetrico, può far pensare a Stravinsky. Musica talvolta fragorosa ma più spesso vaporosa ed elegante, densa di cromatismi. Tuttavia, gli episodi di vocalizzi sospirosi, ritmi ipnotici, cori senza testo o a cappella creano un tappeto sonoro prezioso ma danno anche una sensazione di staticità, accentuata dalla scarsa caratterizzazione che la partitura riserva ai personaggi.
O magari questo è l'effetto che può fare a un ascoltatore italiano un'opera dove il canto non predomina ma è alla pari del balletto, quest'ultimo, affidato ad artisti indiani, praticamente onnipresente: dal primo atto quando guerrieri, schiave e fanciulle del palazzo dilettano il sultano con danze che la coreografa Tanusree Shankar ha voluto d'insieme e di taglio cinematografico - sanno un po' di spot o videoclip pop -, fino alla fine, con le messaggere di Shiva, Dourga e Kali, che accompagnano Padmavati al rogo.
Spettacolone in chiave popolare, questa Padmavati comincia in platea con una processione di danzatrici in sari rosa che portano candele a forma di fiore di loto. Si vedono santoni in perizoma, sacerdoti, bramini; nei costumi (di Rajesh Pratat Singh) un tripudio di sete e ori, sullo sfondo di palazzi da mille e una notte col contorno di portantine, ombrellini e di veli rossi che scendono dall'alto (scene di Omung Kumar Bandhula).
Cast di livello notevole. Emmanuel Villaume sul podio di Orchestra Sinfonica Nazionale Ceca e Coro del Théatre du Chatelet ha realizzato un minuzioso equilibrio tra i timbri strumentali. Una scoperta il contralto Nicole Piccolomini (Padmavati), voce potente, ampia estensione, la fierezza di una vera regina. Il perfido bramino ha avuto un interprete efficace e sottile in Philippe Do. La vocalità robusta e aggressiva del baritono Giorgio Surian ben si adattava alla parte del malvagio sultano; John Bellemer era un accorato Ratan-Sen. Alessia Nadin ha intonato con dolcezza il suggestivo canto di Nakamti in onore di Padmavati. Bene gli altri, e ci mettiamo pure il puledro Colonel e la splendida tigre (del Bengala?) Rambo, che ha dato un brivido, benché trattenuta al guinzaglio, quando ha attraversato maestosamente il palcoscenico. Domani l'unica replica.

Alfredo Gasponi

Spoleto si rilancia con Bollywood
Inaugurata con successo, quasi nello stile del suo fondatore, la prima rassegna senza i Menotti

Buon avvio per lo Spoleto del dopo-Menotti. Qualcuno ha notato che Padmavati, l'opera di Albert Roussel che ha aperto la 51ª edizione del Festival dei Due Mondi sarebbe piaciuta molto al vecchio patron. E forse è vero. Intanto la rarità dell'opera (composta negli anni della Grande Guerra e rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1923, conta appena due esecuzioni in Italia, lontane molti decenni), poi il suo coloratissimo allestimento, l'eleganza, il grande impegno spettacolare, la ricchezza dei costumi, delle scene, delle danze, un sapore vagamente circense. Tutti requisiti che si addicono e si consigliano ad un festival.
Il palcoscenico del Teatro Nuovo, che ha ospitato l'allestimento del regista Sanjay Leela Bhansali, uno dei protagonisti dell'iperattiva Bollywood (la Hollywood indiana), si è popolato nel senso più esplicito del termine, offrendo un'India un po' oleografica ma verosimile. L'India del passato, ovviamente, tra fiaba e avventura. «Quando mi arrivò la mail che mi chiedeva se volessi fare la regia dell'opera di Roussel – rivela il regista – ho pensato fosse uno scherzo. Io non avevo mai visto un'opera lirica in vita mia. Si pensi che non ho firmato il contratto sino a quando avevo finito praticamente la messinscena, perché avevo paura e volevo poter scappare in qualsiasi momento». L'opera racconta di una bella regina, Padmavati appunto, che fedele al marito, respinge il potente re dei Mongoli. Questi per tutta risposta dichiara guerra. Il consorte di Padmavati è ferito gravemente. Per sottrarlo alla sconfitta, alla moglie non resta che ucciderlo; poi lo raggiunge tra le fiamme della pira e brucia con lui nell'ansia di continuare nell'aldilà una nuova vita insieme. Da una sintesi delle frequentazioni del Roussel in Oriente e di come la storia della bella regina è qui riproposta, vengono subito in mente i romanzi di Emilio Salgari, con la differenza che lo scrittore in tutta la sua vita non si mosse mai da Verona, mentre Roussel, che da giovane fece il servizio militare nella marina francese, venne per questo spedito da quelle parti nell'ultimo decennio dell'Ottocento.
C'è tutto sul palcoscenico spoletino: bramini e guerrieri, schiave e sbandieratori acrobatici, un cavallo, un elefante, una splendida tigre al guinzaglio. Tutto riprodotto fedelmente, tutto vero. L'unica cosa falsa, paradossalmente, arriva dalla fossa dell'orchestra: la musica. Ma è falsa solo perché non cade in un banale e quasi scontato esotismo, in un orientalismo di maniera. Ci sono, è vero, momenti in cui la presenza dei modi esotici è innegabile: per esempio il canto del bramino o certi cori senza parole, e soprattutto la lunga pantomima del secondo atto, una sorta di veglia funebre percorsa da danze macabre e affascinanti in cui si ha sempre l'impressione che un sitar debba da un momento all'altro farsi largo fra gli arpeggi degli archi. Però nel complesso non si può non tener conto della vera formazione musicale di Roussel, stilisticamente inserito fra impressionismo e neoclassicismo, tra la propensione verso risonanze timbriche quasi raveliane e ritmi serrati che ricordano o addirittura anticipano Strawinski. E anche questo non sarebbe dispiaciuto all'eclettico Menotti, che era solito imparentarsi a Puccini o a Debussy, a Hindemith o anche lui a Strawinski e magari allo stesso Roussel. Quasi opportunamente la musica è stata eseguita (con grande cura) dal francese Emmanuel Villaume, che ha potuto contare sulla precisione dell'Orchestra Nazionale di Praga e su un buona compagnia di canto in cui spiccavano il contralto Nicole Piccolomini (la protagonista, molto brava anche scenicamente), il basso Giorgio Surian e il tenore John Bellemer. Lunghissimo applauso e stasera la sola replica.

Virgilio Celletti

Il medioevo indiano diventa musica

Dotatosi di nuovi dirigenti, il Festival di Spoleto rinasce mantenendo salda la sua specificità. Musica, balletto, prosa, mostre artistiche. E per l' inaugurazione, l' evento più prestigioso di tutto il Festival, è stata scelta l' Opera Padmâvatî di Albert Roussel (1869-1937), uno dei più distinti e fantasiosi compositori francesi della prima metà del secolo, oggi assai di rado presente nel repertorio. Questo Opéra-Ballet, secondo la definizione dell' Autore, tratto dalla Storia indiana dell' Alto Medioevo e poi liberamente rimaneggiato, non solo è intrinsecamente un capolavoro, diciamo pure una delle Opere più importanti del secolo, ma gode di una posizione storica fondamentale. Finita nel 1918 e rappresentata per la prima volta nel 1923, esprime per l' ultima volta il gusto orientalistico, per lo più espresso in sensi decadenti, onde l' arte soprattutto francese era stata presa da un secolo. Dico un secolo se questa voga si vuole principiata col Montezuma di Spontini; col limitarci al 1849, anno dell' Ode sinfonico-corale Le Désert di Félicien David, il periodo si riduce. Or se si pensi che nel giro di due o tre anni vediamo rappresentate La donna senz' ombra di Richard Strauss e La leggenda di Sakuntala di Franco Alfano, ecco Roussel giungere terzo a porre un suggello definitivo a un gusto, in realtà, europeo, che trova riscontri non solo al sommo dell' arte figurativa (Gustave Moreau) ma anche alla base con tutte le cosiddette «arti minori». Altri vorrebbe spostare il confine al 1948, con la Turangalila-Symphonie di Olivier Messiaen: ma qui ci troviamo di fronte alla pretesa d' un' etnologia scientifica che poco ha da fare col nostro soggetto. La definizione di Opéra-Ballet potrebbe trarre in inganno. Non illecito sarebbe l' attenderci un neoclassico rifacimento di un genere propriamente settecentesco, ove «numeri» cantati si alternavano a «numeri» di danza classica. Invece la struttura di Padmâvatî è peculiare. A un canto liberissimo e asimmetrico, onde si vieta il parlare di «numeri», si alternano ben più lunghe danze o addirittura passi d' immobilità statuaria così tipica dell' arte indiana. In codesti luoghi non abbiamo musica di balletto nel senso stretto del termine, ma grande musica sinfonica, sovente combinata col coro interno che non recita parole ma sillabizza vocalicamente usando qui l' Autore anche delle ragas, le prefissate strutture melodiche (non modali, come qualcuno ancor dice!) che da tempo immemorabile consentono al cantore indiano di dar forma alle sue improvvisazioni. Là ove dico «grande musica sinfonica» debbo aggiungere che tutta l' Opera non si basa sull' elaborazione di una struttura tematica, e di qui la sua rottura totale con la tradizione wagneriana: all' esatto contrario del Balletto di Richard Strauss La leggenda di Giuseppe, costruito come una Sinfonia. L' orchestrazione è assolutamente sgargiante, degna di un sommo Maestro; l' armonia audace e raffinata, ma non facente ricorso a estenuazioni della décadence. Insomma la Padmâvatî è Opera di grande forza e pathos, non un vapore d' oppio atto a portarci in stato sognante. L' allestimento spoletino (regista Sanjay Leela Bhansali, un divo della cinematografia del suo Paese, coreografia di Tanusree Shankar, scene di Omung Kumar Bhandula) è completamente indiano (ivi comprese le masse coreutiche che danzano secondo lo stile loro proprio), è colorito e ostende una mescolanza di naturalismo e simbolismo per noi davvero affascinante. Chi va soprattutto ringraziato è il concertatore e direttore Emmanuel Villaume, che al vigore del braccio trascinante unisce l' abilità dell' «a piombo» perfetto con i cori interni e coglie senza preziosismi ma preziosamente i più raffinati spunti ritmici e timbrici della partitura trattenendo infine l' orchestra nei grandi passaggi di pace metafisica. La protagonista, Nicole Piccolomini, è un contralto di forte personalità che i passaggi di tessitura non imbarazzano; accanto a lei fanno, tra gli altri, degnissima figura Giorgio Surian, Philippe Do, Liliana Faraon.

Paolo Isotta

Ultima modifica il Lunedì, 22 Luglio 2013 10:55
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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