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GRAND MACABRE (LE) - regia Alex Ollé

Le Grand Macabre Le Grand Macabre Regia Alex Ollè

libretto: György Ligeti e Michael Mescheke
musica: György Ligeti, direttore: Zoltan Pesko
regia: Alex Ollè (La Fura dels Baus) con la collaborazione di Valentina Carrasco
scene: Alfons Flores, costumi: Lluc Castels, luci: Peter Van Praet, video: Franc Aleu
con Chris Merritt, Annie Vavrille, Ilse Eerens, Willard White, Nicholas Isherwood
Orchestra e Coro del Teatro dell'Opera di Roma
Roma, Teatro dell'Opera, dal 18 al 23 giugno 2009

Corriere della Sera, 21 giugno 2009
Il Messaggero, 19 giugno 2009
Il Messaggero, 19 giugno 2009
Il Tempo, 19 giugno 2009
Fura dels Baus: Roma applaude l' opera-scandalo

A leggere le cronache romane di questi giorni sembrava che il debutto al Teatro dell' Opera del Grand macabre di György Ligeti nella messinscena di quei mattacchioni della Fura dels Baus avrebbe provocato una guerra civile. Da una parte la fazione irritata al vedere i personaggi fuoruscire dagli orifizi della gigantesca bambola icona dello spettacolo. Dall' altra i paladini del «teatro di regia», pronti a ironizzare sulla decisione, ridicola e ipocrita, di consigliarne la visione a un pubblico adulto. Ma come spesso accade, la guerra annunciata s' è risolta nella scaramuccia di una dozzina di maleducati che litigavano a voce alta mentre la stragrande maggioranza del pubblico ha seguito con curiosità la rappresentazione e le ha tributato un successo assai caloroso. Nulla di scandaloso, in effetti. L' idea dei registi catalani muove dal presupposto, questo sì discutibile, che la morte (tale è il tema portante del libretto, che si ispira a una pièce anni Trenta di De Ghelderode: le ultime ore di una serie di personaggi, grotteschi come nelle tele di Brueghel, ai quali è stata annunciata la fine del mondo) sia un «privilegio» del corpo, e non dello spirito. Di qui l' idea della megabambola (un corpo femminile elevato a potenza) e del suo deperire, degradarsi, scomporsi, rilasciare le viscere. La scenotecnica che anima l' immensa statua è tale peraltro da lasciare a bocca aperta e distoglie dal pensare che i riferimenti a Brueghel, qui doverosi, lasciano il posto a un' iconografia da Iperrealismo tedesco anni Trenta, pure legittima. Spettacolo dunque discutibile ma perfettamente realizzato. E di tale dominio tecnologico da coprire anche i limiti di una partitura che ha momenti sontuosi, ma che non è il luogo dove il compositore transilvano, tra i più geniali di secondo Novecento, abbia dato il suo meglio; che non manca, cioè, di momenti in cui l' ispirazione non basta a reggere del tutto la «meccanica» dell' azione. E ciò l' ha confermato il fatto che nulla va imputato a questa esecuzione romana, davvero di buon livello. Zoltán Peskó del resto conosce questa musica come pochi altri, ne diresse anche la prima italiana nel 1979 a Bologna. Ha guidato un' orchestra duttile e un cast capace di dar vita ai vari tipi d' isteria che caratterizzano la vocalità dei vari personaggi. Cantanti tutti da elogiare ma c' è spazio solo per Willard White, Nicholas Isherwood, Ning Liang, Chris Merritt, Annie Vavrille e Ilse Eerens.

Enrico Girardi

La ballata dell’Apocalisse

ROMA Due atti e quattro quadri. Liberamente tratti da quel gran visionario privo di complessi che risponde a un nome-ritratto, Michel de Ghelderode, belga di lingua francese scomparso nel 1962. La balade du Grand Macabre (1934), trasformata in partitura musicale, 44 anni più tardi, da György Ligeti, librettista e compositore, con il titolo abbreviato Le Grand Macabre, ha debuttato ieri sera al Teatro dell’Opera (repliche il 19, 20, 21 e 23 giugno) nell’allestimento di Alex Ollé (del celebre gruppo catalano La Fura dels Baus) e Valentina Carrasco. Scene di Alfons Flores; costumi di Lluc Castels.
Scelta migliore non poteva esser fatta quanto ad operatori dell’immagine: Ollé e i suoi sanno offrire alla presunta notte della “fine del mondo” di cui tratta l’opera un’azzeccatissima congerie di segni e contesti. Domina il palcoscenico la figura di una femmina immensa, popputa e smodata, che fa da tomba collettiva al popolo corrotto, votato al vizio e alla perdizione. E’ una gigantessa dagli occhi fosforescenti che ruota il capo, all’occorrenza, di 360 gradi, apre i seni all’ingresso di chicchessìa e, soprattutto, si trasforma in molte altre entità: uno scheletro terrifico e ghignante, un mostro peloso, un maschio occhialuto, una massa indistinta pullulante di corpi martoriati che agitano le membra come i dannati di Hieronymus Bosch. Da buon mostro apre il corpaccio impudìco alle penetrazioni. Viene profanata da armati in tuta con la maschera antigas, ospita nel deretano una discoteca folle dove l’ubriachezza sconfina nel delitto, squaderna gli intestini in palcoscenico e si fa montagna di carne infetta che l’Angelo della morte scala inseguito da una ninfomane assatanata. Il tutto con ironia e invenzioni pirotecniche.
La musica trova corrispondenza in ogni esagerazione visiva, fino alla reificazione dell’Apocalisse che tutto ammette, scene sadomaso e crapula infetta, cupio dissolvi e blasfemia, menzogna e funebri carnevali. E’ proprio il caso di dire che l’immaginario catalano, nutrito di fumi, volute e mostri alla scuola di Gaudì, serve qui a meraviglia il fantasmagorico Ligeti. Particolarmente ad effetto l’incendio che a un certo punto avvolge tutto e tutti, mentre la superfemmina dagli occhi di brace si stravolge, rovescia e torce il capo come gl’indemoniati, orbite rosse al cielo, invocando l’epilogo eterno. Bella anche la graduale “resurrezione” dei personaggi che rimette in moto il mondo: gli amanti, i pervertiti, il principe/dittatore, la dea Afrodite, i ministri venduti... Alla fine il pubblico della “prima” ha salutato lo spettacolo con vivi applausi e alcune proteste (all’inizio del secondo atto le più aperte). Libretto in inglese, sovratitoli in italiano.

Rita Sala

{2jtoolbox_content tabs id:1 title:Il Messaggero, 19 giugno 2009}Eclettismo e gioco della citazione

ROMA - Di Ligeti, mito delle avanguardie, il grande pubblico conosce soprattutto brani del Requiem, usati da Stanley Kubrick in 2001, odissea nello spazio: polifonie angosciose, schianti improvvisi, terribili silenzi. Ma nella sua unica opera lirica, Le Grand Macabre (1978), la ricerca sul suono si attenua a favore della varietà stilistica e dell’eclettismo.
Le Grand Macabre si basa sulla citazione: ce ne sono centinaia, da Monteverdi ai minimalisti, da Beethoven al Cancan di Offenbach. Ma Ligeti, che odiava ciò che sa di commerciale, non cita quasi mai in modo scoperto: elabora, camuffa, distorce. Una babele di suoni (ne fanno parte clacson e sirene) che corrisponde alla caotica varietà della vicenda, anche se talvolta affiora la sensazione di un gioco un po’ forzato e fine a se stesso, come nei “nonsense” e nelle tiritere. In tarda età Ligeti manifestò dubbi su questo concetto di drammaturgia musicale.
Tuttavia, i momenti di forte impatto non mancano. C’è il personaggio di Piet l’ubriaco, caricatura di Leporello; il sinistro Nekrotzar con i suoi annunci gregorianeggianti della fine del mondo; il livido duetto degli amanti al finale della prima scena e il possente episodio di Nekrotzar contrapposto alle voci del coro in platea e agli squilli delle trombe, in un’apocalittica stereofonia.
Ad ogni modo il Grand Macabre è tra le poche partiture teatrali del secondo ’900 che abbiano avuto un’ampia circolazione: era giusto farla conoscere al pubblico romano (l’aveva programmata l’ex direttore artistico Nicola Sani). L’Opera l’ha proposta in una coproduzione Bruxelles-Roma-Barcellona-Londra con un cast di tutto rispetto. Zoltan Pesko (preparò la prima italiana con Ligeti) ha diretto con sicurezza, cogliendo sonorità diaboliche e accenti ironici; ok coro e orchestra in una partitura mai prima affrontata. A Nekrotzar, il baritono nero Willard White ha dato la terribilità necessaria; Chris Merritt è un Piet efficacemente grottesco e Nicholas Isherwood un beffardo Astramadors. Cantano con trasporto Annie Vavrille e Ilse Eerens (Amando e Amanda); Ning Liang è una provocante Mescalina. Ottimo il soprano di agilità Caroline Stein (Gepopo e Venus); il bravo Brian Asawa ben rende, bamboleggiando, il principe Go-Go.

Alfredo Gasponi{2jtoolbox_content tabs id:1 title:Il Tempo, 19 giugno 2009}«Le grand macabre» a Caracalla divide il pubblico tra nudità e marionette somiglianti agli umani

Era inevitabile che «Le grand macabre» di Ligeti all'Opera di Roma dividesse il pubblico. Da una parte c'era la musica, non certo agevole per chi non è avvezzo agli stilemi contemporanei, dall'altra la messinscena ad opera della Fura dels Baus, celebre per produzioni a dir poco anticonvenzionali. Del resto «Le grand macabre» racconta della paura della fine del mondo, preannunciata dall'angelo della morte Nekrotzar in una collocazione spazio-temporale indeterminata, ma surrealista. La bislacca storia, che si risolve in un happy-end solo perché il diabolico Nek ha bevuto e l'ora fissata scade, vede in scena più goffe marionette che reali personaggi: il sempre alticcio Piet, la coppia sado-maso con il travestito Astradamors e la ninfomane Mescalina, il principe Go-Go assillato dagli scontri delle opposte fazioni e due estraniati amanti . La scena vede protagonista una enorme bambola nuda (meglio un agonizzante gesso umano come quelli di Pompei) destinata a ruotare su se stessa e a mettere in vista tutte le sue intimità. Dai suoi seni, dalla sua vagina sciorinata come un siparietto, dalle sue viscere fuoriescono i figuri di questa umanità apocalittica in un crescendo davvero efficace nella parte finale. Una vera scommessa, motivata dal nome indiscusso del compositore, garantita dalla bacchetta esperta di Zoltan Pesko, da un cast valente di cantanti come il carismatico del Chris Merrit (Nekrotzar) e dal visionario allestimento di Ollé destinato a suscitare consensi ma anche proteste rumorose . Insomma, ancora una produzione che lascerà dietro di sé strascichi e polemiche

La ballata dell’Apocalisse

ROMA Due atti e quattro quadri. Liberamente tratti da quel gran visionario privo di complessi che risponde a un nome-ritratto, Michel de Ghelderode, belga di lingua francese scomparso nel 1962. La balade du Grand Macabre (1934), trasformata in partitura musicale, 44 anni più tardi, da György Ligeti, librettista e compositore, con il titolo abbreviato Le Grand Macabre, ha debuttato ieri sera al Teatro dell’Opera (repliche il 19, 20, 21 e 23 giugno) nell’allestimento di Alex Ollé (del celebre gruppo catalano La Fura dels Baus) e Valentina Carrasco. Scene di Alfons Flores; costumi di Lluc Castels.
Scelta migliore non poteva esser fatta quanto ad operatori dell’immagine: Ollé e i suoi sanno offrire alla presunta notte della “fine del mondo” di cui tratta l’opera un’azzeccatissima congerie di segni e contesti. Domina il palcoscenico la figura di una femmina immensa, popputa e smodata, che fa da tomba collettiva al popolo corrotto, votato al vizio e alla perdizione. E’ una gigantessa dagli occhi fosforescenti che ruota il capo, all’occorrenza, di 360 gradi, apre i seni all’ingresso di chicchessìa e, soprattutto, si trasforma in molte altre entità: uno scheletro terrifico e ghignante, un mostro peloso, un maschio occhialuto, una massa indistinta pullulante di corpi martoriati che agitano le membra come i dannati di Hieronymus Bosch. Da buon mostro apre il corpaccio impudìco alle penetrazioni. Viene profanata da armati in tuta con la maschera antigas, ospita nel deretano una discoteca folle dove l’ubriachezza sconfina nel delitto, squaderna gli intestini in palcoscenico e si fa montagna di carne infetta che l’Angelo della morte scala inseguito da una ninfomane assatanata. Il tutto con ironia e invenzioni pirotecniche.
La musica trova corrispondenza in ogni esagerazione visiva, fino alla reificazione dell’Apocalisse che tutto ammette, scene sadomaso e crapula infetta, cupio dissolvi e blasfemia, menzogna e funebri carnevali. E’ proprio il caso di dire che l’immaginario catalano, nutrito di fumi, volute e mostri alla scuola di Gaudì, serve qui a meraviglia il fantasmagorico Ligeti. Particolarmente ad effetto l’incendio che a un certo punto avvolge tutto e tutti, mentre la superfemmina dagli occhi di brace si stravolge, rovescia e torce il capo come gl’indemoniati, orbite rosse al cielo, invocando l’epilogo eterno. Bella anche la graduale “resurrezione” dei personaggi che rimette in moto il mondo: gli amanti, i pervertiti, il principe/dittatore, la dea Afrodite, i ministri venduti... Alla fine il pubblico della “prima” ha salutato lo spettacolo con vivi applausi e alcune proteste (all’inizio del secondo atto le più aperte). Libretto in inglese, sovratitoli in italiano.

Rita Sala

{2jtoolbox_content tabs id:1 title:Il Messaggero, 19 giugno 2009}Eclettismo e gioco della citazione

ROMA - Di Ligeti, mito delle avanguardie, il grande pubblico conosce soprattutto brani del Requiem, usati da Stanley Kubrick in 2001, odissea nello spazio: polifonie angosciose, schianti improvvisi, terribili silenzi. Ma nella sua unica opera lirica, Le Grand Macabre (1978), la ricerca sul suono si attenua a favore della varietà stilistica e dell’eclettismo.
Le Grand Macabre si basa sulla citazione: ce ne sono centinaia, da Monteverdi ai minimalisti, da Beethoven al Cancan di Offenbach. Ma Ligeti, che odiava ciò che sa di commerciale, non cita quasi mai in modo scoperto: elabora, camuffa, distorce. Una babele di suoni (ne fanno parte clacson e sirene) che corrisponde alla caotica varietà della vicenda, anche se talvolta affiora la sensazione di un gioco un po’ forzato e fine a se stesso, come nei “nonsense” e nelle tiritere. In tarda età Ligeti manifestò dubbi su questo concetto di drammaturgia musicale.
Tuttavia, i momenti di forte impatto non mancano. C’è il personaggio di Piet l’ubriaco, caricatura di Leporello; il sinistro Nekrotzar con i suoi annunci gregorianeggianti della fine del mondo; il livido duetto degli amanti al finale della prima scena e il possente episodio di Nekrotzar contrapposto alle voci del coro in platea e agli squilli delle trombe, in un’apocalittica stereofonia.
Ad ogni modo il Grand Macabre è tra le poche partiture teatrali del secondo ’900 che abbiano avuto un’ampia circolazione: era giusto farla conoscere al pubblico romano (l’aveva programmata l’ex direttore artistico Nicola Sani). L’Opera l’ha proposta in una coproduzione Bruxelles-Roma-Barcellona-Londra con un cast di tutto rispetto. Zoltan Pesko (preparò la prima italiana con Ligeti) ha diretto con sicurezza, cogliendo sonorità diaboliche e accenti ironici; ok coro e orchestra in una partitura mai prima affrontata. A Nekrotzar, il baritono nero Willard White ha dato la terribilità necessaria; Chris Merritt è un Piet efficacemente grottesco e Nicholas Isherwood un beffardo Astramadors. Cantano con trasporto Annie Vavrille e Ilse Eerens (Amando e Amanda); Ning Liang è una provocante Mescalina. Ottimo il soprano di agilità Caroline Stein (Gepopo e Venus); il bravo Brian Asawa ben rende, bamboleggiando, il principe Go-Go.

Alfredo Gasponi

«Le grand macabre» a Caracalla divide il pubblico tra nudità e marionette somiglianti agli umani

Era inevitabile che «Le grand macabre» di Ligeti all'Opera di Roma dividesse il pubblico. Da una parte c'era la musica, non certo agevole per chi non è avvezzo agli stilemi contemporanei, dall'altra la messinscena ad opera della Fura dels Baus, celebre per produzioni a dir poco anticonvenzionali. Del resto «Le grand macabre» racconta della paura della fine del mondo, preannunciata dall'angelo della morte Nekrotzar in una collocazione spazio-temporale indeterminata, ma surrealista. La bislacca storia, che si risolve in un happy-end solo perché il diabolico Nek ha bevuto e l'ora fissata scade, vede in scena più goffe marionette che reali personaggi: il sempre alticcio Piet, la coppia sado-maso con il travestito Astradamors e la ninfomane Mescalina, il principe Go-Go assillato dagli scontri delle opposte fazioni e due estraniati amanti . La scena vede protagonista una enorme bambola nuda (meglio un agonizzante gesso umano come quelli di Pompei) destinata a ruotare su se stessa e a mettere in vista tutte le sue intimità. Dai suoi seni, dalla sua vagina sciorinata come un siparietto, dalle sue viscere fuoriescono i figuri di questa umanità apocalittica in un crescendo davvero efficace nella parte finale. Una vera scommessa, motivata dal nome indiscusso del compositore, garantita dalla bacchetta esperta di Zoltan Pesko, da un cast valente di cantanti come il carismatico del Chris Merrit (Nekrotzar) e dal visionario allestimento di Ollé destinato a suscitare consensi ma anche proteste rumorose . Insomma, ancora una produzione che lascerà dietro di sé strascichi e polemiche.

Lorenzo Tozzi

Ultima modifica il Lunedì, 22 Luglio 2013 10:43
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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