Sergio Trasatti E' un'analisi a tutto campo quella che Sergio Trasatti ha fatto della multimediale creatività di Ingmar Bergman, cinema, teatro, tv, letteratura. Anzitutto, "cinema di idee", rovello di un "ateo cristiano" che dopo i primi film in cui possibile chiave di liberazione può intravedersi un sentimento d'amore come sutura di solidarietà al di là dell'angoscia, "da grande predicatore laico" vuol trovare una risposta, Dio o il niente, e continuando a pulire il proprio "specchio" da appannamenti e oscurità, riuscire a sapere se e quale sia il senso dell'esistenza, e indurre anche lo spettatore a "interrogarsi su se stesso, sul significato delle sue azioni, sulla sua sincerità". Ma da La morte di Kaspar (1942) alle messinscene degli anni Novanta da testi di Mishima e di Ibsen, Bergman è anche teatro, "regno della parola", che ha sempre echi esoterici sul piano dell'arte e su quello dello spirito, con personaggi che recitano per se stessi e per ciò che significano e azioni che valgono per quello che sono ma anche per quello cui rimandano. Se sin dagli inizi degli anni Sessanta, non manca di concentrare anche nei tv-movies riflessioni e inquietudini sull'inferno dell'uomo e il silenzio di Dio, e di contro sulla misura spirituale con cui resistere allo smarrimento e alla sfiducia, al di là di proprie sceneggiature lasciate interpretare da chi gli è vicino, Bergman specie negli anni più tardi ama anche traslitterarsi in libri autobiografici tra fiabe d'infanzia o somatizzazioni dolorose, fantasmi d'incubo e salvifici zatteroni di grazia. E sempre per farne bene diffusivo di se stesso, coerente con quel suo programma con cui anche Trasatti conclude il saggio: "La cosa peggiore è l'indifferenza, il peccato peggiore è l'omissione, il disimpegno". Alberto Pesce |