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QOHÉLET - coreografia Emanuela Tagliavia

"Qohélet", coreografia Emanuela Tagliavia. Foto Mauro Valle "Qohélet", coreografia Emanuela Tagliavia. Foto Mauro Valle

"Colui che prende la parola"
nell'ultima versione di Guido Ceronetti, terminata nel 2001
produzione Teatro Franco Parenti
con Elia Schilton
al violoncello: Irina Solinas
danzatori: Alessandra Cozzi, Gianmaria Girotto, Sebastien Halnaut
regia: Federica Santambrogio
coreografia: Emanuela Tagliavia
musiche originali: Irina Solinas
luci: Francesco Vitali
costumi: Micaela Sollecito
Milano, Teatro Franco Parenti 19 febbraio 2019

www.Sipario.it, 22 febbraio 2019

Dalle lontananze bibliche giunge alla contemporaneità con rinnovata forza il messaggio profondo e impalpabile dell'Ecclesiaste. È un percorso evanescente Qohélet, una fumosa dimensione, un testo e uno spettacolo dalla comunicatività intima e meditativa.
Da quando è stato presentato nel 2016 al "Festival internazionale di cultura ebraica", lo spettacolo Qohélet - Colui che prende la parola, su regia di Federica Santambrogio, ha assunto via via diverse fisionomie, si è rinnovato nell'allestimento ed anche, in parte, nel cast di artisti. Quel "giovane Qohélet" si presenta ora carico di una maturità vegliarda, segno di una consapevolezza acquisita in conseguenza del lavoro sul testo.
Alla sua penultima recita di questa residenza (stagione 2018/19), lo spettacolo, prodotto dal Teatro Franco Parenti, vede nella voce dell'attore Elias Schilton il perno dell'intera narrazione artistica. Su di una piattaforma rotante siedono contrapposti Schilton, in nero, e al violoncello Irina Solinas, in bianco. Con l'immagine scenografica delle loro sedie unite l'una contro l'altra per il tramite degli schienali, la musica sembra opporsi simbolicamente alla parola, eppure non manca di sostenerla, sottolineando dunque le problematicità e i non sensi della comunicazione.
In un'atmosfera raccolta il testo di Qohélet arriva soffuso, come fumo, perché in fondo «tutto non è che fumo» e vanità. Il costante interrogarsi sul senso delle cose terrene, evocato anche dallo havèl havalìm, impone il confronto diretto con il passato e il presente, nell'ottica di sondare il rapporto dell'uomo con l'infinito. Un infinito dall'estrema fragilità, dove impera il monito vanitas vanitatum et omnia vanitas. Frammezzo al tormento e alla solitudine delle parole si instaurano i movimenti dei tre danzatori (Alessandra Cozzi, Gianmaria Girotto, Sebastien Halnaut), che incorniciano la scena caricandola emotivamente, pur senza produrre distrazione. La fluidità dei gesti si alterna a sequenze definite, spesso elaborando piccoli moduli coreografici con cambi di velocità e di fronte. Del resto, se tutto è vano, se dalle ombre tutto nasce, a che servirebbe esprimersi mediante nuovi movimenti? Complice della inanità del tutto, il tempo è tiranno, nel suo fluire piano e inesorabile, come ricorda la sabbia che lenta fluisce dalle mani dei danzatori e viene a disegnare un cerchio, agendo dentro e fuori dal quale essi contribuiscono in danza alla faticosa ricerca di un senso dell'esistenza. Una ricerca ben sottolineata dalla teatrale comunicatività dei loro occhi.
Con la sua raffica di domande e riflessioni, Qohélet sembra gridare la disperata richiesta di essere ascoltato, affinché sui suoi difficili contenuti di sapienza non cada il silenzio del tempo né si oblii la memoria in ciascuno dei suoi uditori.

Selene I.S. Brumana

Ultima modifica il Mercoledì, 27 Febbraio 2019 07:43

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