CINEMASipario Mensile e Portale: scopri il mondo dello spettacolo. Guida ai Teatri, ai Festival, alle Scuole di Danza e di Teatro; Recensioni degli spettacoli, Comunicati stampa, Cyclopedia e molto altro.https://www.sipario.it/recensioni/rec-cinema.feed2024-03-28T15:15:58+01:00Joomla! - Open Source Content Management(CINEMA) - “IL SOL DELL’AVVENIRE” di Nanni Moretti2023-04-29T13:41:19+02:002023-04-29T13:41:19+02:00https://www.sipario.it/recensioni/rec-cinema/item/15116-cinema-il-sol-dell-avvenire-di-nanni-moretti.htmlFrancesco Bettin<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/6bb82842bd85a0feec590bda9e5d136e_S.jpg" alt="“IL SOL DELL’AVVENIRE” di Nanni Moretti. Foto Alberto Novelli" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: center;"><span style="font-size: 14pt;"><strong> “IL SOL DELL’AVVENIRE” di Nanni Moretti</strong></span></p> <p style="text-align: justify;">Morettiani o no che si sia, ogni film in uscita del regista romano porta a discussioni di ogni tipo, soprattutto da parte di chi non lo ama particolarmente, che in ogni sua pellicola (e interpretazione) trova difetti e non sa leggere i pregi, spesso numerosi peraltro. <strong>Nanni Moretti</strong> è dunque tornato al cinema con <em>Il sol dell’avvenire</em>, in concorso al Festival di Cannes quest’anno. Un film che raccoglie in ogni immagine sensazioni ed emozioni plurime, oniriche talvolta, piacevolissime, che ancora una volta riguardano il mestiere stesso dell’autore, il regista, appunto, e l’ambiente ove si muove, il cinema. Che viene raccontato attraverso un film che il suo alter ego sta girando e che qui si chiama proprio come lui, quasi come tutti gli attori presenti con il proprio nome, da <strong>Silvio</strong> (<strong>Orlando</strong>) a <strong>Barbora</strong> (<strong>Bobulova</strong>). Cinema nel cinema, dunque, proiezione esistenziale pregna di poetica e disperazione mai vinta, che riguarda (mi verrebbe da dire, per tutti, comunque, se si vive) anche la politica, la propria visione su di essa, sui fallimenti propri e anche sentimentali, proponendo di fatto una lucida visione personale, ma anche di altri simili che la pensano come lui. Cinema e vita, forza e passione. E sul cinema personalmente penso che non si scherza, l’arte è sublime e va coltivata, se si vuole, affrontata con un minimo di studio, di informazione, che poi impara in molti casi quella specie di subcultura che a larghe tese si trova e si vede in giro un po’ ovunque, molto anche sulle piattaforme che infatti non sono certo risparmiate dal regista, emblema di un certo decadimento culturale. <strong>Moretti</strong> fa <strong>Moretti</strong>, certo, ma meglio ancora e di più è Moretti, quel che vorrebbe vedere, in un Paese che bene o male sta a galla e cerca di sopravvivere su vari fronti. In questo film nel film, che il regista Giovanni sta girando, le visioni riguardano il sol del titolo, l’avvenire che dovrebbe arrivare, e si vedono sullo sfondo la rivoluzione ungherese, un circo, un’Italia parallela, una sezione del PCI e i suoi iscritti, attoniti ma anche reattivi di fronte a quello che sta accadendo (e alle visioni del regista, con cui discutono delle scene). Le citazioni d’amore, gli omaggi al cinema ci sono, da <em>Il nuotatore</em> a <em>La dolce vita</em>, sono citazioni verbali ma anche sceniche che, va quasi da sé, si mescolano a trame quotidiane, essenziali di vita, basilari, necessarie, come l’amore per la donna amata, l’impossibilità di stare senza, l’amore per la vita, un altro film pensato con le canzoni, per se stessi ma direi fuori dalla componente narcisistica. Sono considerazioni quelle che <strong>Moretti</strong> fa e dispone, che riguardano se stesso e tutto ciò che lo circonda, a partire dagli umani, e dagli avvenimenti che li riguardano da vicino. La carrellata dei personaggi è forte, e va dalla moglie (<strong>Margherita Buy</strong>) alla figlia, dal fidanzato maturo di questa (uno splendido <strong>Jerzy Stuhr</strong>) agli assistenti del mestiere, al produttore, (<strong>Mathieu Amalric</strong>) a due giovani fidanzati del film con le canzoni (brava, molto, <strong>Blu Yoshimi</strong>), allo psicanalista che <strong>Teco Celio</strong> interpreta con autorità, ai suoi attori-personaggi, Silvio e Barbora (anche qui, <strong>Orlando</strong> e <strong>Bobulova</strong> assolutamente perfetti, calzanti). Un’altra delle sue visioni è giustamente indicativa sulla violenza nei film, ormai largamente usata e inutile, la sua mai paludata passione per le canzoni (e anche qui è film nel film, nel film, passatemi il termine, vista la pellicola pensata con le canzoni). Tutto acquista col passare dei minuti un senso favolistico, che porta nel sogno che poi è realtà, anche, nella visione che è consapevolezza, nei tuffi nel passato affrontato dal cinema che fa i conti col presente. <em>Il sol dell’avvenire</em>, quello che forse esiste ancora a cui auspicare, è lo stesso che riunisce simbolicamente nella scena finale tanti volti noti del cinema passato di <strong>Moretti</strong>, riuniti in una sfilata che pare un’attesa comunque, se non festante, palpitante per essere pronti a quel momento, che sia anche utopico può darsi, ma che fa bene sperare. Che riguarda il cinema, e la vita stessa perché le due anime si fondono e lo si sa bene. Basta soffermarsi un attimo col pensiero, e tutto torna. Ancora una volta dunque <strong>Nanni Moretti</strong> conquista, senza magari sorprendere se non per qualche effetto o dettaglio, ma siamo certi, certissimi che l’autore è sempre presente in un cinema, un impegno rigoroso che si cerca di non abbandonare mai. Va ricordata la musica di <strong>Franco Piersanti</strong>, sempre stridentemente ottima, e alcuni camei, come quello di Renzo Piano ad esempio. Uscito il 20 aprile, <em>Il sol dell’avvenire</em> è prodotto da <strong>Nanni Moretti</strong> e <strong>Domenico Procacci</strong>, in una coproduzione Sacher Film, Fandango con Rai Cinema, Le Pacte e distribuito da 01 Distribution. Fra meno di un mese sarà in concorso al Festival di Cannes.</p> <p><strong>Francesco Bettin</strong></p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/6bb82842bd85a0feec590bda9e5d136e_S.jpg" alt="“IL SOL DELL’AVVENIRE” di Nanni Moretti. Foto Alberto Novelli" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: center;"><span style="font-size: 14pt;"><strong> “IL SOL DELL’AVVENIRE” di Nanni Moretti</strong></span></p> <p style="text-align: justify;">Morettiani o no che si sia, ogni film in uscita del regista romano porta a discussioni di ogni tipo, soprattutto da parte di chi non lo ama particolarmente, che in ogni sua pellicola (e interpretazione) trova difetti e non sa leggere i pregi, spesso numerosi peraltro. <strong>Nanni Moretti</strong> è dunque tornato al cinema con <em>Il sol dell’avvenire</em>, in concorso al Festival di Cannes quest’anno. Un film che raccoglie in ogni immagine sensazioni ed emozioni plurime, oniriche talvolta, piacevolissime, che ancora una volta riguardano il mestiere stesso dell’autore, il regista, appunto, e l’ambiente ove si muove, il cinema. Che viene raccontato attraverso un film che il suo alter ego sta girando e che qui si chiama proprio come lui, quasi come tutti gli attori presenti con il proprio nome, da <strong>Silvio</strong> (<strong>Orlando</strong>) a <strong>Barbora</strong> (<strong>Bobulova</strong>). Cinema nel cinema, dunque, proiezione esistenziale pregna di poetica e disperazione mai vinta, che riguarda (mi verrebbe da dire, per tutti, comunque, se si vive) anche la politica, la propria visione su di essa, sui fallimenti propri e anche sentimentali, proponendo di fatto una lucida visione personale, ma anche di altri simili che la pensano come lui. Cinema e vita, forza e passione. E sul cinema personalmente penso che non si scherza, l’arte è sublime e va coltivata, se si vuole, affrontata con un minimo di studio, di informazione, che poi impara in molti casi quella specie di subcultura che a larghe tese si trova e si vede in giro un po’ ovunque, molto anche sulle piattaforme che infatti non sono certo risparmiate dal regista, emblema di un certo decadimento culturale. <strong>Moretti</strong> fa <strong>Moretti</strong>, certo, ma meglio ancora e di più è Moretti, quel che vorrebbe vedere, in un Paese che bene o male sta a galla e cerca di sopravvivere su vari fronti. In questo film nel film, che il regista Giovanni sta girando, le visioni riguardano il sol del titolo, l’avvenire che dovrebbe arrivare, e si vedono sullo sfondo la rivoluzione ungherese, un circo, un’Italia parallela, una sezione del PCI e i suoi iscritti, attoniti ma anche reattivi di fronte a quello che sta accadendo (e alle visioni del regista, con cui discutono delle scene). Le citazioni d’amore, gli omaggi al cinema ci sono, da <em>Il nuotatore</em> a <em>La dolce vita</em>, sono citazioni verbali ma anche sceniche che, va quasi da sé, si mescolano a trame quotidiane, essenziali di vita, basilari, necessarie, come l’amore per la donna amata, l’impossibilità di stare senza, l’amore per la vita, un altro film pensato con le canzoni, per se stessi ma direi fuori dalla componente narcisistica. Sono considerazioni quelle che <strong>Moretti</strong> fa e dispone, che riguardano se stesso e tutto ciò che lo circonda, a partire dagli umani, e dagli avvenimenti che li riguardano da vicino. La carrellata dei personaggi è forte, e va dalla moglie (<strong>Margherita Buy</strong>) alla figlia, dal fidanzato maturo di questa (uno splendido <strong>Jerzy Stuhr</strong>) agli assistenti del mestiere, al produttore, (<strong>Mathieu Amalric</strong>) a due giovani fidanzati del film con le canzoni (brava, molto, <strong>Blu Yoshimi</strong>), allo psicanalista che <strong>Teco Celio</strong> interpreta con autorità, ai suoi attori-personaggi, Silvio e Barbora (anche qui, <strong>Orlando</strong> e <strong>Bobulova</strong> assolutamente perfetti, calzanti). Un’altra delle sue visioni è giustamente indicativa sulla violenza nei film, ormai largamente usata e inutile, la sua mai paludata passione per le canzoni (e anche qui è film nel film, nel film, passatemi il termine, vista la pellicola pensata con le canzoni). Tutto acquista col passare dei minuti un senso favolistico, che porta nel sogno che poi è realtà, anche, nella visione che è consapevolezza, nei tuffi nel passato affrontato dal cinema che fa i conti col presente. <em>Il sol dell’avvenire</em>, quello che forse esiste ancora a cui auspicare, è lo stesso che riunisce simbolicamente nella scena finale tanti volti noti del cinema passato di <strong>Moretti</strong>, riuniti in una sfilata che pare un’attesa comunque, se non festante, palpitante per essere pronti a quel momento, che sia anche utopico può darsi, ma che fa bene sperare. Che riguarda il cinema, e la vita stessa perché le due anime si fondono e lo si sa bene. Basta soffermarsi un attimo col pensiero, e tutto torna. Ancora una volta dunque <strong>Nanni Moretti</strong> conquista, senza magari sorprendere se non per qualche effetto o dettaglio, ma siamo certi, certissimi che l’autore è sempre presente in un cinema, un impegno rigoroso che si cerca di non abbandonare mai. Va ricordata la musica di <strong>Franco Piersanti</strong>, sempre stridentemente ottima, e alcuni camei, come quello di Renzo Piano ad esempio. Uscito il 20 aprile, <em>Il sol dell’avvenire</em> è prodotto da <strong>Nanni Moretti</strong> e <strong>Domenico Procacci</strong>, in una coproduzione Sacher Film, Fandango con Rai Cinema, Le Pacte e distribuito da 01 Distribution. Fra meno di un mese sarà in concorso al Festival di Cannes.</p> <p><strong>Francesco Bettin</strong></p></div>(CINEMA) - "ELVIS" di Baz Luhrmann.2022-09-07T09:27:25+02:002022-09-07T09:27:25+02:00https://www.sipario.it/recensioni/rec-cinema/item/14622-cinema-elvis-di-baz-luhrmann.htmlAntonio Ferraro<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/5603c406da44a7847978bbadfe528a5d_S.jpg" alt=""Elvis" di Baz Luhrmann" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: center;"><span style="font-size: 14pt;"><strong><em>Elvis</em> – quasi una recensione<br />di Baz Luhrmann. <br />Con Austin Butler, Tom Hanks, Helen Thomson, Richard Roxburgh</strong></span></p> <p style="text-align: justify;">1997. Il Colonnello Tom Parker (<strong>Hanks</strong>), manager di Presley (<strong>Butler</strong>), in punto di morte, dà la propria versione del rapporto con <strong>Elvis Presley</strong>. Lui, di origine olandese, nasce professionalmente come imbonitore da circo; un giorno a Memphis vede la gente rapita dal blues <em>That’s all right, mama</em>, cantata in un disco della Sun Records da un ragazzo bianco. Lo trova e, dopo aver assistito ad un suo concerto dove fa impazzire le ragazzine con il suo (in seguito notissimo, da cui l’appellativo “Elvis the Pelvis") movimento della zona pelvica, decide di fargli da manager al 50% dei profitti. Lo porta via dalla Sun Records e riesce a farlo mettere sotto contratto dalla RCA e il suo singolo <em>Heartbreak Hotel</em> diventa una hit mondiale. Ora Elvis è ricco e si compra la sempre desiderata Cadillac rosa e il mitico Graceland, il villone che condivide con i genitori - la madre Gladys (<strong>Thomson</strong>), fanatica religiosa e tendente al bere e il padre Vernon (<strong>Roxburgh</strong>) debole e spendaccione – e con una caterva di parenti. La censura non tarda ad arrivare sia per la “demoniaca” musica rock che per il modo “sconcio” in cui Presley si esibisce. Parker, spaventato, cerca di convincere il suo pupillo ad adeguarsi alle restrizioni ma lui va in un bordello nero dove ascolta un esordiente Little Richard (<strong>Elton Mason</strong>) cantare <em>Tutti Frutti</em>; lì si confida col suo amico B.B. King (<strong>Kelvin Harrison jr</strong>.) che lo esorta a cantare come si sente, anche perché, come bianco, non rischia certo il carcere, aggiungendogli di stare in guardia da Parker. Al concerto successivo Elvis canta come sa e muove disinvoltamente il bacino; l’esibizione viene fermata, tra i fischi dei fan e lui rischia un processo. Il Colonnello ha la soluzione: il servizio militare; così, con i capelli corti da bravo ragazzo americano, lui parte da soldato per la Germania. La madre, totalmente alcolizzata, muore per epatite e lui, superata l’angoscia, si innamora di Priscilla (<strong>Olivia DeJonge</strong>), che poco dopo sposerà, alla quale confida di sognare una carriera attoriale come quella del suo idolo James Dean. In effetti farà molti film di successo ma sono tutti una cornice per le sue canzoni e non ne sarà mai pienamente soddisfatto. L’arrivo dei Beatles e dei Rolling Stones appanna un po’ la sua carriera ma in uno special canta – nel ricordo di <strong>Martin Luther King</strong> e di <strong>Robert Kennedy</strong> -<em> If I Can Dream</em> e ritorna in vetta alle classifiche. A quel punto entra in frizione con Parker perché lui vorrebbe partire per un tour mondiale ma il Colonnello (apolide, con trascorsi discutibili e quindi sprovvisto di passaporto) glielo impedisce accampando scuse di sicurezza da possibili attentati; in più – pieno di debiti di gioco con i casinò di Las Vegas – firma, ad insaputa di Elvis, un contratto quinquennale di esibizioni sui loro palcoscenici. Il successo è grande e il cachet milionario. <strong>Presley</strong>, però torna alla carica sull’idea del giro del mondo e Parker aggira l’ostacolo con una serie di concerti in America e l’evento in mondovisione <em>Aloha from Hawaii</em>. Intanto il matrimonio con Priscilla – stanca di vederlo dipendere dal colonnello e da farmaci dopanti – si rompe. Elvis viene a conoscenza dei retroscena della vita del Colonnello e, alla fine di un concerto, lo licenzia platealmente. Parker, però ha l’asso nella manica: la confusa gestione di Vernon ha reso ha reso il figlio debitore nei suoi confronti di una cifra spropositata. Elvis continuerà a cantare a Las Vegas, sempre più inflaccidito da alcol, pillole e cibo fino alla morte il 16 agosto del 1977 a 42 anni. Il ludopatico Parker morirà 20 anni dopo, povero e solo.<br /><strong>Baz Luhrmann</strong> ha al suo attivo splendidi film: ha diretto, ad esempi, la migliore e più immaginifica (è la sua chiave) versione del <em>Grande Gatsby</em> ma il suo genio, sin dal titolo di esordio <em>Ballroom</em>, esplode con il musical (<em>Romeo and Juliet</em>, <em>Moulin Rouge</em>). A differenza di tutti quelli che lo hanno preceduto nel genere, lui non mette in fila coreografie e canzoni ma usa tutti i generi musicali con asincrona creatività per comporre un irripetibile caleidoscopio di armonie, sentimenti e danze. Stavolta, forse costretto dal personaggio Elvis e dalla necessità di usare quasi unicamente le sue – pur meravigliose – canzoni, stentiamo un po’ a riconoscere la sua personalissima mano. Certo, ogni tanto uno sviso di macchina, una carrellata a perdifiato ci ricordano chi dirige ma, probabilmente, la concentrazione sul “cattivo” Colonnello Parker appesantisce il racconto a spese della meravigliosa animalità di <strong>Presley</strong> (non sempre resa efficacemente dal poco più che corretto <strong>Austin Butler</strong>). Forse i momenti migliori e più liberi sono nei bordelli neri, regno incontrastato sin dal primo dixieland della musica afro-americana (piccola digressione: è tanto vero che i vari <strong>Count Basie</strong>, <strong>Duke Ellington</strong> e<strong> Nat King Cole</strong> debbono il loro “titolo nobiliare” non alla indubbia bravura ma a quanto hanno resistito nelle maratone di pianoforte dei casini; così come Jelly Roll (Rotolo di Gelatina) Norton era il soprannome che le prostitute gli avevano dato per la sua velocità ad eccitarsi). Per mettere in cattiva luce il Colonnello, tutta la filmografia di <strong>Elvis</strong> (della quale, è vero, lui non era pienamente soddisfatto) viene snobbata ma alcuni film hanno visto la regia di <strong>Don Siegel</strong> (<em>Stella di fuoco</em>), <strong>Michael Curtiz</strong> (<em>La via del male</em>) e, molti, dell’ottimo <strong>Norman Taurog</strong> (autore di alcuni dei migliori film di <strong>Jerry Lewis</strong>). A tutti i grandi capita di sbagliare un film ma, in questo caso, viene il sospetto che <em>Elvis</em> si inserisca in un discorso più ampio di nuove esigenze distributive e, di conseguenza, produttive. A ben vedere i sequel più recenti di campioni di incasso come <em>Wonder Woman</em>, <em>Suicide Squad</em>, <em>Justice League</em> e <em>Thor</em> sono tutti cinematograficamente appannati, come se fosse cambiato l’obiettivo di audience: al pubblico in sala dovevi dare un prodotto confezionato al meglio, mentre le piattaforme, con le loro molteplici possibilità di fruizione, hanno meno esigenze di cura costante del ritmo e della narrativa; oltretutto, si tratta comunque di operazioni costose ma di durata limitata rispetto alle serie che, se di successo, garantiscono costi diluiti e guadagni più sicuri. Se è così, stiamo assistendo ad una nuova, complessa ed ardua era per il cinema.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Antonio Ferraro</strong></p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/5603c406da44a7847978bbadfe528a5d_S.jpg" alt=""Elvis" di Baz Luhrmann" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: center;"><span style="font-size: 14pt;"><strong><em>Elvis</em> – quasi una recensione<br />di Baz Luhrmann. <br />Con Austin Butler, Tom Hanks, Helen Thomson, Richard Roxburgh</strong></span></p> <p style="text-align: justify;">1997. Il Colonnello Tom Parker (<strong>Hanks</strong>), manager di Presley (<strong>Butler</strong>), in punto di morte, dà la propria versione del rapporto con <strong>Elvis Presley</strong>. Lui, di origine olandese, nasce professionalmente come imbonitore da circo; un giorno a Memphis vede la gente rapita dal blues <em>That’s all right, mama</em>, cantata in un disco della Sun Records da un ragazzo bianco. Lo trova e, dopo aver assistito ad un suo concerto dove fa impazzire le ragazzine con il suo (in seguito notissimo, da cui l’appellativo “Elvis the Pelvis") movimento della zona pelvica, decide di fargli da manager al 50% dei profitti. Lo porta via dalla Sun Records e riesce a farlo mettere sotto contratto dalla RCA e il suo singolo <em>Heartbreak Hotel</em> diventa una hit mondiale. Ora Elvis è ricco e si compra la sempre desiderata Cadillac rosa e il mitico Graceland, il villone che condivide con i genitori - la madre Gladys (<strong>Thomson</strong>), fanatica religiosa e tendente al bere e il padre Vernon (<strong>Roxburgh</strong>) debole e spendaccione – e con una caterva di parenti. La censura non tarda ad arrivare sia per la “demoniaca” musica rock che per il modo “sconcio” in cui Presley si esibisce. Parker, spaventato, cerca di convincere il suo pupillo ad adeguarsi alle restrizioni ma lui va in un bordello nero dove ascolta un esordiente Little Richard (<strong>Elton Mason</strong>) cantare <em>Tutti Frutti</em>; lì si confida col suo amico B.B. King (<strong>Kelvin Harrison jr</strong>.) che lo esorta a cantare come si sente, anche perché, come bianco, non rischia certo il carcere, aggiungendogli di stare in guardia da Parker. Al concerto successivo Elvis canta come sa e muove disinvoltamente il bacino; l’esibizione viene fermata, tra i fischi dei fan e lui rischia un processo. Il Colonnello ha la soluzione: il servizio militare; così, con i capelli corti da bravo ragazzo americano, lui parte da soldato per la Germania. La madre, totalmente alcolizzata, muore per epatite e lui, superata l’angoscia, si innamora di Priscilla (<strong>Olivia DeJonge</strong>), che poco dopo sposerà, alla quale confida di sognare una carriera attoriale come quella del suo idolo James Dean. In effetti farà molti film di successo ma sono tutti una cornice per le sue canzoni e non ne sarà mai pienamente soddisfatto. L’arrivo dei Beatles e dei Rolling Stones appanna un po’ la sua carriera ma in uno special canta – nel ricordo di <strong>Martin Luther King</strong> e di <strong>Robert Kennedy</strong> -<em> If I Can Dream</em> e ritorna in vetta alle classifiche. A quel punto entra in frizione con Parker perché lui vorrebbe partire per un tour mondiale ma il Colonnello (apolide, con trascorsi discutibili e quindi sprovvisto di passaporto) glielo impedisce accampando scuse di sicurezza da possibili attentati; in più – pieno di debiti di gioco con i casinò di Las Vegas – firma, ad insaputa di Elvis, un contratto quinquennale di esibizioni sui loro palcoscenici. Il successo è grande e il cachet milionario. <strong>Presley</strong>, però torna alla carica sull’idea del giro del mondo e Parker aggira l’ostacolo con una serie di concerti in America e l’evento in mondovisione <em>Aloha from Hawaii</em>. Intanto il matrimonio con Priscilla – stanca di vederlo dipendere dal colonnello e da farmaci dopanti – si rompe. Elvis viene a conoscenza dei retroscena della vita del Colonnello e, alla fine di un concerto, lo licenzia platealmente. Parker, però ha l’asso nella manica: la confusa gestione di Vernon ha reso ha reso il figlio debitore nei suoi confronti di una cifra spropositata. Elvis continuerà a cantare a Las Vegas, sempre più inflaccidito da alcol, pillole e cibo fino alla morte il 16 agosto del 1977 a 42 anni. Il ludopatico Parker morirà 20 anni dopo, povero e solo.<br /><strong>Baz Luhrmann</strong> ha al suo attivo splendidi film: ha diretto, ad esempi, la migliore e più immaginifica (è la sua chiave) versione del <em>Grande Gatsby</em> ma il suo genio, sin dal titolo di esordio <em>Ballroom</em>, esplode con il musical (<em>Romeo and Juliet</em>, <em>Moulin Rouge</em>). A differenza di tutti quelli che lo hanno preceduto nel genere, lui non mette in fila coreografie e canzoni ma usa tutti i generi musicali con asincrona creatività per comporre un irripetibile caleidoscopio di armonie, sentimenti e danze. Stavolta, forse costretto dal personaggio Elvis e dalla necessità di usare quasi unicamente le sue – pur meravigliose – canzoni, stentiamo un po’ a riconoscere la sua personalissima mano. Certo, ogni tanto uno sviso di macchina, una carrellata a perdifiato ci ricordano chi dirige ma, probabilmente, la concentrazione sul “cattivo” Colonnello Parker appesantisce il racconto a spese della meravigliosa animalità di <strong>Presley</strong> (non sempre resa efficacemente dal poco più che corretto <strong>Austin Butler</strong>). Forse i momenti migliori e più liberi sono nei bordelli neri, regno incontrastato sin dal primo dixieland della musica afro-americana (piccola digressione: è tanto vero che i vari <strong>Count Basie</strong>, <strong>Duke Ellington</strong> e<strong> Nat King Cole</strong> debbono il loro “titolo nobiliare” non alla indubbia bravura ma a quanto hanno resistito nelle maratone di pianoforte dei casini; così come Jelly Roll (Rotolo di Gelatina) Norton era il soprannome che le prostitute gli avevano dato per la sua velocità ad eccitarsi). Per mettere in cattiva luce il Colonnello, tutta la filmografia di <strong>Elvis</strong> (della quale, è vero, lui non era pienamente soddisfatto) viene snobbata ma alcuni film hanno visto la regia di <strong>Don Siegel</strong> (<em>Stella di fuoco</em>), <strong>Michael Curtiz</strong> (<em>La via del male</em>) e, molti, dell’ottimo <strong>Norman Taurog</strong> (autore di alcuni dei migliori film di <strong>Jerry Lewis</strong>). A tutti i grandi capita di sbagliare un film ma, in questo caso, viene il sospetto che <em>Elvis</em> si inserisca in un discorso più ampio di nuove esigenze distributive e, di conseguenza, produttive. A ben vedere i sequel più recenti di campioni di incasso come <em>Wonder Woman</em>, <em>Suicide Squad</em>, <em>Justice League</em> e <em>Thor</em> sono tutti cinematograficamente appannati, come se fosse cambiato l’obiettivo di audience: al pubblico in sala dovevi dare un prodotto confezionato al meglio, mentre le piattaforme, con le loro molteplici possibilità di fruizione, hanno meno esigenze di cura costante del ritmo e della narrativa; oltretutto, si tratta comunque di operazioni costose ma di durata limitata rispetto alle serie che, se di successo, garantiscono costi diluiti e guadagni più sicuri. Se è così, stiamo assistendo ad una nuova, complessa ed ardua era per il cinema.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Antonio Ferraro</strong></p></div>(CINEMA) - "MALACARNE" di Lucia Zanettin.2022-04-02T10:44:42+02:002022-04-02T10:44:42+02:00https://www.sipario.it/recensioni/rec-cinema/item/14336-cinema-malacarne-di-lucia-zanettin.htmlFrancesco Bettin<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/c81fe8b8af90db7ccc2f919245ea143b_S.jpg" alt=""Malacarne" di Lucia Zanettin" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: center;"><span style="font-size: 14pt;"><strong><em>MALACARNE</em><br />di Lucia Zanettin<br />con Piergiorgio Piccoli, Anna Zago, Samuele Ferri, Sofia Vigliar, Fabio Barone<br />Italia 2021 – Produzione LiLLa Film di Davide Casadio</strong></span></p> <p style="text-align: justify;">Un figlio scomparso senza mai esser ritrovato, un caso irrisolto, un padre che va alla sua ricerca dopo tanto tempo. L’ambientazione del nuovo film di <strong>Lucia Zanettin</strong>, “Malacarne”, prodotto dall’indipendente LiLLa Film è quella della Val Daone, Val di Fumo, in Trentino ma anche di Borgo Valbelluna, e parla di un territorio impervio, difficile, dove si muovono pochi personaggi che sembra si guardino sospettosi uno dell’altro. Una barista, a valle, il padre del ragazzo, così sconosciuto a quel territorio, una guida particolarmente acida, introversa, una malgara, Mirka, di stanza fissa in quota, a poco cammino dalle Buse di Malacarne, e il ragazzo stesso che rivive nei <em>flashback</em>. A parte quest’ultimo che è protagonista di una storia al passato, i quattro si incontrano e si confrontano bene o male che sia, nel tentativo di aiutare Giovanni, andato fin lassù alla ricerca del figlio, a sua volta alla ricerca di stimoli nuovi, forse una vita migliore, da capire. Le suggestive vette della montagna acuiscono i rapporti tra loro, li mettono a dura prova in qualche situazione, regalando bellezza delle immagini che però in questo specifico diventa anche spietata, dura da digerire. La montagna, quella che pare si sia si presa il ragazzo è considerata maledetta anche da chi ci abita attorno, ha una sinistra fama che non invita certo allo stare tranquilli. I personaggi si muovono come i dialoghi che si scambiano, in un clima di rarefazione estrema, che a sua volta imprime loro una schiettezza riservata, straniante. E’ mistero, ed è fascino, perché non si sa dove si va a parare, le circostanze non lo ammettono e non danno indizi. Il ricercare ossessivamente da parte del padre, Giovanni, suo figlio, fa affiorare diverse sfumature di personalità, che svelano a poco a poco, lentamente, gli stessi personaggi mostrando di loro la propria (giusta?) causa, il proprio essere ed essere lì, e non in un altro luogo. La <strong>Zanettin</strong> nel suo lavoro va a cogliere minuziosamente, scavando dentro i suoi protagonisti, ogni anfratto ancestrale che va a richiamare il sogno, a volte l’incubo, la poesia, il surreale e i suoi meandri. La ricerca di Giovanni è anche la ricerca degli altri, e può esser letta a mio modo di vedere come una ricerca terza simbolica e metafora dell’esistenza. Il film si racconta da sé, è un lento crescendo che apostrofa l’esistenza terrena e sfiora quella celeste, portando lo spettatore a più bivi: sto facendo la cosa giusta? Sto ascoltando la persona giusta? Non mi starò sbagliando? Sono interrogativi che paiono apparire sui volti di tutti, sicuri e insicuri, che raccontino verità nascoste o altro ancora. Fatto sta che la storia si evolve lentissima e scopre minimi aspetti a prima vista di routine che tali però non sono, e indicano un trivio dove bisogna saper riuscire a distinguere l‘apertura della via d’uscita. Bravi sono tutti gli attori, da <strong>Anna Zago</strong> che disegna una barista con bella umanità a <strong>Fabio Barone</strong>, il figlio scomparso, disincantato e sognatore a tal punto da far “impazzire” gli altri nel loro cercare, a <strong>Sofia Vigliar</strong>, la malgara Mirka, emblema femminile che richiama, diventa mito, ed è sola nel suo stare in vetta, ma direttrice di se stessa, come si conviene essere. La sua forte figura femminile è tratteggiata con spirito e istinto, con durezza di roccia montanara, appunto, vigile attenzione agli accadimenti. La guardia Albert, impersonato da <strong>Samuele Ferri</strong>, parla di se stesso come di una persona spigolosa e un po’ insicura che in qualche modo attrae, nella quale l’attore veneziano mette un’ottima dose di cinismo e solidità d’animo, con una recitazione secca, ruvida, quasi rassegnata, che sbarra le porte dell’io, non concedendo nulla di sé, ed è un’intelligente, bella prova d’attore. Come lo è quella di <strong>Piergiorgio Piccoli</strong>, che suscita tenerezza con quella sua maschera tragica, quel viso buono che parla di sé in semplicità, alla ricerca di un figlio sprovveduto, avventuriero senza averne i mezzi. O ammaliato, chissà. <strong>Piccoli</strong> declina stati d’animo a profusione, e concede la sua esperienza nel ruolo assegnatogli. Detto degli interpreti, la regia di <strong>Lucia Zanettin</strong> è certamente in crescita rispetto allo scorso lavoro, le riprese sono d’effetto, consolidate e vincenti, regalano paesaggi e stati emotivi di alti livelli. L’avventura nel cinema di questa interessante casa di produzione indipendente di <strong>Davide Casadio</strong> a piccoli passi punta sicuramente ad ampliare il suo cammino, credendo in quello che si sta facendo e rimanendo coi piedi per terra, pronti alla prossima avventura. Il film è sostenuto dal Centro di Cinematografia e Cineteca del Centro Alpino Italiano, CAI.</p> <p><strong>Francesco Bettin</strong></p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/c81fe8b8af90db7ccc2f919245ea143b_S.jpg" alt=""Malacarne" di Lucia Zanettin" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: center;"><span style="font-size: 14pt;"><strong><em>MALACARNE</em><br />di Lucia Zanettin<br />con Piergiorgio Piccoli, Anna Zago, Samuele Ferri, Sofia Vigliar, Fabio Barone<br />Italia 2021 – Produzione LiLLa Film di Davide Casadio</strong></span></p> <p style="text-align: justify;">Un figlio scomparso senza mai esser ritrovato, un caso irrisolto, un padre che va alla sua ricerca dopo tanto tempo. L’ambientazione del nuovo film di <strong>Lucia Zanettin</strong>, “Malacarne”, prodotto dall’indipendente LiLLa Film è quella della Val Daone, Val di Fumo, in Trentino ma anche di Borgo Valbelluna, e parla di un territorio impervio, difficile, dove si muovono pochi personaggi che sembra si guardino sospettosi uno dell’altro. Una barista, a valle, il padre del ragazzo, così sconosciuto a quel territorio, una guida particolarmente acida, introversa, una malgara, Mirka, di stanza fissa in quota, a poco cammino dalle Buse di Malacarne, e il ragazzo stesso che rivive nei <em>flashback</em>. A parte quest’ultimo che è protagonista di una storia al passato, i quattro si incontrano e si confrontano bene o male che sia, nel tentativo di aiutare Giovanni, andato fin lassù alla ricerca del figlio, a sua volta alla ricerca di stimoli nuovi, forse una vita migliore, da capire. Le suggestive vette della montagna acuiscono i rapporti tra loro, li mettono a dura prova in qualche situazione, regalando bellezza delle immagini che però in questo specifico diventa anche spietata, dura da digerire. La montagna, quella che pare si sia si presa il ragazzo è considerata maledetta anche da chi ci abita attorno, ha una sinistra fama che non invita certo allo stare tranquilli. I personaggi si muovono come i dialoghi che si scambiano, in un clima di rarefazione estrema, che a sua volta imprime loro una schiettezza riservata, straniante. E’ mistero, ed è fascino, perché non si sa dove si va a parare, le circostanze non lo ammettono e non danno indizi. Il ricercare ossessivamente da parte del padre, Giovanni, suo figlio, fa affiorare diverse sfumature di personalità, che svelano a poco a poco, lentamente, gli stessi personaggi mostrando di loro la propria (giusta?) causa, il proprio essere ed essere lì, e non in un altro luogo. La <strong>Zanettin</strong> nel suo lavoro va a cogliere minuziosamente, scavando dentro i suoi protagonisti, ogni anfratto ancestrale che va a richiamare il sogno, a volte l’incubo, la poesia, il surreale e i suoi meandri. La ricerca di Giovanni è anche la ricerca degli altri, e può esser letta a mio modo di vedere come una ricerca terza simbolica e metafora dell’esistenza. Il film si racconta da sé, è un lento crescendo che apostrofa l’esistenza terrena e sfiora quella celeste, portando lo spettatore a più bivi: sto facendo la cosa giusta? Sto ascoltando la persona giusta? Non mi starò sbagliando? Sono interrogativi che paiono apparire sui volti di tutti, sicuri e insicuri, che raccontino verità nascoste o altro ancora. Fatto sta che la storia si evolve lentissima e scopre minimi aspetti a prima vista di routine che tali però non sono, e indicano un trivio dove bisogna saper riuscire a distinguere l‘apertura della via d’uscita. Bravi sono tutti gli attori, da <strong>Anna Zago</strong> che disegna una barista con bella umanità a <strong>Fabio Barone</strong>, il figlio scomparso, disincantato e sognatore a tal punto da far “impazzire” gli altri nel loro cercare, a <strong>Sofia Vigliar</strong>, la malgara Mirka, emblema femminile che richiama, diventa mito, ed è sola nel suo stare in vetta, ma direttrice di se stessa, come si conviene essere. La sua forte figura femminile è tratteggiata con spirito e istinto, con durezza di roccia montanara, appunto, vigile attenzione agli accadimenti. La guardia Albert, impersonato da <strong>Samuele Ferri</strong>, parla di se stesso come di una persona spigolosa e un po’ insicura che in qualche modo attrae, nella quale l’attore veneziano mette un’ottima dose di cinismo e solidità d’animo, con una recitazione secca, ruvida, quasi rassegnata, che sbarra le porte dell’io, non concedendo nulla di sé, ed è un’intelligente, bella prova d’attore. Come lo è quella di <strong>Piergiorgio Piccoli</strong>, che suscita tenerezza con quella sua maschera tragica, quel viso buono che parla di sé in semplicità, alla ricerca di un figlio sprovveduto, avventuriero senza averne i mezzi. O ammaliato, chissà. <strong>Piccoli</strong> declina stati d’animo a profusione, e concede la sua esperienza nel ruolo assegnatogli. Detto degli interpreti, la regia di <strong>Lucia Zanettin</strong> è certamente in crescita rispetto allo scorso lavoro, le riprese sono d’effetto, consolidate e vincenti, regalano paesaggi e stati emotivi di alti livelli. L’avventura nel cinema di questa interessante casa di produzione indipendente di <strong>Davide Casadio</strong> a piccoli passi punta sicuramente ad ampliare il suo cammino, credendo in quello che si sta facendo e rimanendo coi piedi per terra, pronti alla prossima avventura. Il film è sostenuto dal Centro di Cinematografia e Cineteca del Centro Alpino Italiano, CAI.</p> <p><strong>Francesco Bettin</strong></p></div>(CINEMA) - "Diabolik" dei Manetti bros. Perché non possiamo non dirci manettiani2021-12-25T11:09:53+01:002021-12-25T11:09:53+01:00https://www.sipario.it/recensioni/rec-cinema/item/14113-cinema-diabolik-dei-manetti-bros-perche-non-possiamo-non-dirci-manettiani.htmlAntonio Ferraro<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/408c0c4887ed16b3c5bf5170808545af_S.jpg" alt=""Diabolik" dei Manetti bros" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: center;"><span style="font-size: 14pt;"><strong><em>Diabolik</em><br />dei Manetti bros<br />Con Luca Marinelli, Miriam Leone, Valerio Mastandrea, Claudia Gerini, Vanessa Scalera</strong></span></p> <p style="text-align: justify;"> <strong>Perché non possiamo non dirci manettiani</strong></p> <p style="text-align: justify;">Nella città immaginaria di Clerville Diabolik (<strong>Marinelli</strong>) riesce a sfuggire all’ennesimo inseguimento della polizia guidata dall’ispettore Ginko (<strong>Mastandrea</strong>) con a fianco il fidato Palmer (<strong>Piergiorgio Bellocchio</strong>). Poco dopo Ginko (ma è Diabolik travestito) avvicina l’ereditiera sudafricana Lady Eva Kant (<strong>Leone</strong>), per avvertirla che Diabolik vorrà rubare il preziosissimo diamante rosa che lei ha portato con se; lei gli confida che il gioiello sarà nella cassaforte della sua stanza dell’hotel Excelsior. Il direttore dell’albergo (<strong>Roberto Citran</strong>) ha affidato a Roberto (<strong>Luca Di Giovanni</strong>) l’incarico di cameriere personale di Lady Kant. Diabolik, saputolo, lo uccide e – grazie ad una delle sue tante perfette maschere e all’abilità di imitare le voci – si sostituisce a lui. Intanto Elisabeth Gray (<strong>Serena Rossi</strong>) confida all’amica Nadia (<strong>Francesca Nerozzi</strong>) le sue angosce: il suo fidanzato Walter Dorian (che lei non sa essere un’identità di copertura di Diabolik) la lascia spesso, anche di notte, sola nella loro grande villa per imprecisati affari. Eva va a cena da Giorgio Caron (<strong>Alessandro Roja</strong>) che le fa pesanti avances; lei se ne va indignata e torna in tempo per cogliere Diabolik mentre apre la cassaforte; lui la minaccia con un coltello ma lei lo informa che il diamante è falso: l'originale lo aveva venduto in Sudafrica per pagare dei ricattatori. Tornato nel suo covo Diabolik ha la conferma, esaminandolo, che il gioiello è falso; rientra nella sua villa per un passaggio segreto nel giardino ma Elisabeth, sia pur confusamente, vede la scena. Lui riesce, lì per lì, a rassicurarla ma l’indomani lei scende in giardino e riesce a penetrare nel laboratorio sotterraneo. Terrorizzata chiama la polizia e Ginko predispone un agguato per quando tornerà. Diabolik. Il falso Roberto è nella suite della Lady e tra le stoviglie della colazione nasconde la pietra. Eva ha capito la vera identità del cameriere e lui – per la prima volta nella sua carriera di malvivente - si toglie la maschera e i due fanno l’amore. L'ispettore Ginko, quando torna alla villa lo arresta. Al processo è presente in aula anche Eva e Diabolik riesce a comunicare con lei tramite il codice Morse e le dà le istruzioni per organizzare una fuga. Eva esegue il piano del criminale: usa il suo ascendente sul viceministro che, ricattandola (ha le prove del suo coinvolgimento nella morte dell’anziano e ricchissimo marito), le impone di fidanzarsi ufficialmente con lui; lei accetta purché lui le faccia ottenere un colloquio con Diabolik. Caron fa pressione sul direttore (<strong>Antonino Iuorio</strong>) del carcere e ottiene il permesso. Durante il colloquio Caron viene drogato e sostituito da Diabolik che così riesce ad evadere. Per prima cosa, sempre nelle vesti di Caron, va nel suo ufficio e – dopo avere detto alla segretaria (<strong>Scalera</strong>) di non far entrare nessuno – trafuga il dossier su Eva e acquisisce gli estremi della cassetta di sicurezza della banca di Ghenf, contenente i ricchi frutti dei ricatti del vice-ministro. Di lì a poco, la direttrice (<strong>Daniela Piperno</strong>) della banca riceve con tutti gli onori una famosa collezionista d’arte (<strong>Gerini</strong>), che in realtà è Eva con una maschera, che si fa aprire una cassetta di sicurezza per depositarvi due casse contenenti – così dice – due preziosi dipinti. La direttrice le rivela i segreti del sistema di sicurezza e Diabolik potrà penetrare nel caveau ma… <br />Non è la prima volta che il cinema incontra <em>Diabolik</em>: nel 1968 <strong>Mario Bava</strong> aveva diretto <strong>John Philip Law</strong>, <strong>Marisa Mell</strong> e <strong>Michel Piccoli</strong> nei ruoli di Diabolik, Eva e Ginko con esiti non esaltanti. Erano d’altronde quelli gli anni della diffusione un Italia di fumetti per adulti e altri di quei titoli arrivarono sul grande schermo: <em>Kriminal</em> (1966) di <strong>Umberto Lenzi</strong> con <strong>Glenn Saxon</strong>, <em>Satanik</em> (1968) di <strong>Pietro Vivarelli</strong> con <strong>Magda Konopka</strong> e (anche se di genere diverso) <em>Isabella, duchessa dei diavoli</em> di <strong>Bruno Corbucci</strong> con <strong>Brigitte Skay</strong>. Non era peraltro un fenomeno solo italiano; basti pensare all’ultra-pop <em>Batman</em> (1966) di <strong>Leslie H. Martinson</strong> con <strong>Adam West</strong>, all’action-snob <em>Modesty Blaise–La bellissima che uccide</em> (1966) di <strong>Joseph Losey</strong> con <strong>Monica Vitti</strong> (commistione tra 007 e il free cinema inglese) o alle realizzazioni sul modello <em>Cahiers du Cinema</em> di <strong>Chabrol</strong>: <em>La tigre ama la carne fresca</em> (1964), <em>La tigre profumata alla dinamite</em> (1965) – entrambi con <strong>Roger Hanin</strong> – e <em>Marie Chantal contro il dottor Kha</em> (1965) con <strong>Marie Laforet</strong> (i film di <strong>Chabrol</strong> non nascono da fumetti ma ne ripropongono gli stilemi). I <strong>Manetti</strong> conoscono alla perfezione il cinema e certamente hanno visto questi film – e loro stessi hanno fatto una sorta di operazione di colto recupero nel 2000 con <em>Zora la vampira</em> con <strong>Michela Ramazzotti</strong> e <strong>Carlo Verdone</strong> - ma il loro <em>Diabolik</em> è ben più solido e coinvolgente. Il target generazionale del fumetto delle sorelle <strong>Giussani</strong> non è amplissimo ma il film è una perfetta macchina di cinema: i riferimenti alla storia disegnata sono precisi (vedi la macchina da presa che segue il pugnale fino al suo mortale bersaglio) ma in <em>Diabolik</em> c’è <strong>Hitchcock</strong>, c’è <em>Za’ la mort</em> di <strong>Ghione</strong>, c’è tutto il cinema gotico, c’è il melò e la grande lirica. C’è, insomma, una capacità di fare cinema di genere e di metagenere - ma anche fortemente autoriale - che da noi sembrava dimenticata. Una storia semplice, con dialoghi talora volutamente da fotoromanzo, riesce a coinvolgere lo spettatore a più livelli: dall’immediato piacere per un feuilleton post-moderno, al raffinato gusto di una solida cinefilia, fino al rapimento per immagini di grande efficacia. E’ per questo che – parafrasando il laico <strong>Benedetto Croce</strong> di <em>Perché non possiamo non dirci “cristiani”</em>- credo che chiunque ami il cinema non possa non dirsi “manettiano”.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Antonio Ferraro</strong></p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/408c0c4887ed16b3c5bf5170808545af_S.jpg" alt=""Diabolik" dei Manetti bros" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: center;"><span style="font-size: 14pt;"><strong><em>Diabolik</em><br />dei Manetti bros<br />Con Luca Marinelli, Miriam Leone, Valerio Mastandrea, Claudia Gerini, Vanessa Scalera</strong></span></p> <p style="text-align: justify;"> <strong>Perché non possiamo non dirci manettiani</strong></p> <p style="text-align: justify;">Nella città immaginaria di Clerville Diabolik (<strong>Marinelli</strong>) riesce a sfuggire all’ennesimo inseguimento della polizia guidata dall’ispettore Ginko (<strong>Mastandrea</strong>) con a fianco il fidato Palmer (<strong>Piergiorgio Bellocchio</strong>). Poco dopo Ginko (ma è Diabolik travestito) avvicina l’ereditiera sudafricana Lady Eva Kant (<strong>Leone</strong>), per avvertirla che Diabolik vorrà rubare il preziosissimo diamante rosa che lei ha portato con se; lei gli confida che il gioiello sarà nella cassaforte della sua stanza dell’hotel Excelsior. Il direttore dell’albergo (<strong>Roberto Citran</strong>) ha affidato a Roberto (<strong>Luca Di Giovanni</strong>) l’incarico di cameriere personale di Lady Kant. Diabolik, saputolo, lo uccide e – grazie ad una delle sue tante perfette maschere e all’abilità di imitare le voci – si sostituisce a lui. Intanto Elisabeth Gray (<strong>Serena Rossi</strong>) confida all’amica Nadia (<strong>Francesca Nerozzi</strong>) le sue angosce: il suo fidanzato Walter Dorian (che lei non sa essere un’identità di copertura di Diabolik) la lascia spesso, anche di notte, sola nella loro grande villa per imprecisati affari. Eva va a cena da Giorgio Caron (<strong>Alessandro Roja</strong>) che le fa pesanti avances; lei se ne va indignata e torna in tempo per cogliere Diabolik mentre apre la cassaforte; lui la minaccia con un coltello ma lei lo informa che il diamante è falso: l'originale lo aveva venduto in Sudafrica per pagare dei ricattatori. Tornato nel suo covo Diabolik ha la conferma, esaminandolo, che il gioiello è falso; rientra nella sua villa per un passaggio segreto nel giardino ma Elisabeth, sia pur confusamente, vede la scena. Lui riesce, lì per lì, a rassicurarla ma l’indomani lei scende in giardino e riesce a penetrare nel laboratorio sotterraneo. Terrorizzata chiama la polizia e Ginko predispone un agguato per quando tornerà. Diabolik. Il falso Roberto è nella suite della Lady e tra le stoviglie della colazione nasconde la pietra. Eva ha capito la vera identità del cameriere e lui – per la prima volta nella sua carriera di malvivente - si toglie la maschera e i due fanno l’amore. L'ispettore Ginko, quando torna alla villa lo arresta. Al processo è presente in aula anche Eva e Diabolik riesce a comunicare con lei tramite il codice Morse e le dà le istruzioni per organizzare una fuga. Eva esegue il piano del criminale: usa il suo ascendente sul viceministro che, ricattandola (ha le prove del suo coinvolgimento nella morte dell’anziano e ricchissimo marito), le impone di fidanzarsi ufficialmente con lui; lei accetta purché lui le faccia ottenere un colloquio con Diabolik. Caron fa pressione sul direttore (<strong>Antonino Iuorio</strong>) del carcere e ottiene il permesso. Durante il colloquio Caron viene drogato e sostituito da Diabolik che così riesce ad evadere. Per prima cosa, sempre nelle vesti di Caron, va nel suo ufficio e – dopo avere detto alla segretaria (<strong>Scalera</strong>) di non far entrare nessuno – trafuga il dossier su Eva e acquisisce gli estremi della cassetta di sicurezza della banca di Ghenf, contenente i ricchi frutti dei ricatti del vice-ministro. Di lì a poco, la direttrice (<strong>Daniela Piperno</strong>) della banca riceve con tutti gli onori una famosa collezionista d’arte (<strong>Gerini</strong>), che in realtà è Eva con una maschera, che si fa aprire una cassetta di sicurezza per depositarvi due casse contenenti – così dice – due preziosi dipinti. La direttrice le rivela i segreti del sistema di sicurezza e Diabolik potrà penetrare nel caveau ma… <br />Non è la prima volta che il cinema incontra <em>Diabolik</em>: nel 1968 <strong>Mario Bava</strong> aveva diretto <strong>John Philip Law</strong>, <strong>Marisa Mell</strong> e <strong>Michel Piccoli</strong> nei ruoli di Diabolik, Eva e Ginko con esiti non esaltanti. Erano d’altronde quelli gli anni della diffusione un Italia di fumetti per adulti e altri di quei titoli arrivarono sul grande schermo: <em>Kriminal</em> (1966) di <strong>Umberto Lenzi</strong> con <strong>Glenn Saxon</strong>, <em>Satanik</em> (1968) di <strong>Pietro Vivarelli</strong> con <strong>Magda Konopka</strong> e (anche se di genere diverso) <em>Isabella, duchessa dei diavoli</em> di <strong>Bruno Corbucci</strong> con <strong>Brigitte Skay</strong>. Non era peraltro un fenomeno solo italiano; basti pensare all’ultra-pop <em>Batman</em> (1966) di <strong>Leslie H. Martinson</strong> con <strong>Adam West</strong>, all’action-snob <em>Modesty Blaise–La bellissima che uccide</em> (1966) di <strong>Joseph Losey</strong> con <strong>Monica Vitti</strong> (commistione tra 007 e il free cinema inglese) o alle realizzazioni sul modello <em>Cahiers du Cinema</em> di <strong>Chabrol</strong>: <em>La tigre ama la carne fresca</em> (1964), <em>La tigre profumata alla dinamite</em> (1965) – entrambi con <strong>Roger Hanin</strong> – e <em>Marie Chantal contro il dottor Kha</em> (1965) con <strong>Marie Laforet</strong> (i film di <strong>Chabrol</strong> non nascono da fumetti ma ne ripropongono gli stilemi). I <strong>Manetti</strong> conoscono alla perfezione il cinema e certamente hanno visto questi film – e loro stessi hanno fatto una sorta di operazione di colto recupero nel 2000 con <em>Zora la vampira</em> con <strong>Michela Ramazzotti</strong> e <strong>Carlo Verdone</strong> - ma il loro <em>Diabolik</em> è ben più solido e coinvolgente. Il target generazionale del fumetto delle sorelle <strong>Giussani</strong> non è amplissimo ma il film è una perfetta macchina di cinema: i riferimenti alla storia disegnata sono precisi (vedi la macchina da presa che segue il pugnale fino al suo mortale bersaglio) ma in <em>Diabolik</em> c’è <strong>Hitchcock</strong>, c’è <em>Za’ la mort</em> di <strong>Ghione</strong>, c’è tutto il cinema gotico, c’è il melò e la grande lirica. C’è, insomma, una capacità di fare cinema di genere e di metagenere - ma anche fortemente autoriale - che da noi sembrava dimenticata. Una storia semplice, con dialoghi talora volutamente da fotoromanzo, riesce a coinvolgere lo spettatore a più livelli: dall’immediato piacere per un feuilleton post-moderno, al raffinato gusto di una solida cinefilia, fino al rapimento per immagini di grande efficacia. E’ per questo che – parafrasando il laico <strong>Benedetto Croce</strong> di <em>Perché non possiamo non dirci “cristiani”</em>- credo che chiunque ami il cinema non possa non dirsi “manettiano”.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Antonio Ferraro</strong></p></div>(CINEMA) - "Titianus - Storia di un film non finito" di Tommaso Brugin. 2021-12-23T20:33:48+01:002021-12-23T20:33:48+01:00https://www.sipario.it/recensioni/rec-cinema/item/14108-cinema-titianus-storia-di-un-film-non-finito-di-tommaso-brugin.htmlFrancesco Bettin<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/ccda9b2129e56c71eaa39eae53a1a1d7_S.jpg" alt=""Titianus - Storia di un film non finito" di Tommaso Brugin" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: center;"><span style="font-size: 14pt;"><strong><em>TITIANUS – STORIA DI UN FILM NON FINITO</em><br />di Tommaso Brugin<br />con Matteo Cremon, Margherita Mannino, Valerio Mazzuccato, Gip Giampietro Cutrino <br />Italia 2021</strong></span></p> <p style="text-align: justify;">Curioso, originale e divulgativo, il <em>mockumentary</em> di <strong>Tommaso Brugin</strong> (prodotto da Avilab e Settimo Binario) sull’opera di <strong>Tiziano Vecellio</strong>, raccontata attraverso un regista che su di lui vuole realizzare la sua prima opera. Matteo Tremon è il regista che sull’orlo del cominciare il suo primo film, (un ottimo <strong>Matteo Cremon</strong>, che qui gioca col suo nome), improvvisamente sparisce, dopo esser stato in giro a fare dei sopralluoghi e a incontrare esperti che lo illuminano sulla figura e le opere di <strong>Tiziano Vecellio</strong>, grande artista nato a Pieve di Cadore. Tremon è un regista che crede nella cultura, anche se da tempo lavora con Carlo Quintino, produttore della Nord Est, interpretato da <strong>Valerio Mazzuccato</strong>, che del suo personaggio mette in luce una certa ambiguità cinica, e lo fa con attenzione. Il produttore come molti suoi colleghi pensa soprattutto a fare denaro, e non capisce gli approfondimenti che il suo giovane regista va a cercare su Tiziano. A lui basterebbe meno, il tratteggiare il grande artista senza troppi fronzoli. La sparizione di Tremon viene vista e raccontata da chi con lui e Quintino stava per iniziare l’avventura del film, personaggi e interpreti che comunque mirano a finirlo anche senza di lui, sostituito come si conviene nel frattempo da un altro regista. Tremon è il classsico raro esempio di chi crede in quello che fa, ma soprattutto si approccia alla cultura dell’arte di Tiziano Vecellio con grande rispetto e molta curiosità, tanto da voler cercare, dapprima con una costumista che deve fornirgli materiale per le riprese, una brava <strong>Margherita Mannino</strong>, poi negli incontri con illuminati professori, studiosi dell’opera del pittore, il vero significato di alcuni suoi importanti quadri, e del suo stato originale, del suo significato d’artista. Situazione quasi all’opposto dell’idea del suo produttore Quintino, che intanto inserisce nel film anche il figlio Kevin come sceneggiatore, e altri annaspanti personaggi come l’operatore Ottavio Prisma, e gli attori Francesco Vasani, (<strong>Francesco Wolf</strong>, forse troppo accentuato, anche se il suo armeggiare gli occhiali da sole è una scena che rimane) che interpreta l’Aretino (ma che con Tremon doveva essere proprio Tiziano, anche se la sostituzione del personaggio non lo turba, è comunque tutto in cambiamento e lui si adegua) Jessika Caruso, che fa la figlia di Tiziano, e lo stesso pittore, <strong>Giampietro Cutrino</strong>, Gip delle Iene, che fa se stesso ed è adeguatamente naturale, misurato. In uno scorrere del tempo blando tutto prosegue, soprattutto ognuno ha a cuore di trasmettere il proprio pensiero (davanti alle telecamere di un’importante canale specializzato sul cinema) sulla sparizione, sul non ritorno sul set di Matteo Tremon. Nel film appaiono anche nei ruoli di loro stessi i veri esperti della materia, i professori <strong>Augusto Gentili</strong>, <strong>Bernard Aikema</strong> e <strong>Enrico Maria Dal Pozzolo</strong>. Il <em>mockumentary</em> è un genere che si presenta come un documentario ma in realtà è un prodotto di fiction, un falso documentario appunto, che come in questo caso analizza un tema e lo presenta sotto aspetti documentaristici ma lo fa attraverso una storia cinematografica di finzione. Lo scopo è naturalmente quello di poter raggiungere il più vasto pubblico possibile informando e facendo divulgazione sulla cultura raggiungendolo con il pretesto di un film, affinchè tutto possa essere meno pesante, didascalico. Il <em>mockumentary</em> di <strong>Brugin</strong>, girato nel 2019, ha avuto non poche peripezie nella divulgazione, tutte da far collegare al ripetuto stato pandemico che attraversa questo nostro tempo, e il suo ripetersi, ma nonostante ciò è stato presentato in alcuni festival, anche se non a tutti quelli che si sarebbe voluto presentarlo, vincendo addirittura un premio per la miglior commedia e un altro per il miglior documentario. Cose che gli riconoscono una valenza speciale, un invito a <strong>Brugin</strong> e compagni a proseguire nell’intento, che è quello di incuriosire qui sull’artista veneto, sul pittore e le sue inquietudini, sul fronte culturale comunque, che può diventare scuola, proiezione di vita, bagaglio personale. Il progetto abbisognerebbe, ed è già nell’intento dell’autore, di esser portato proprio lì, nelle scuole o comunque a contatto con gli studenti e i giovani, che attraverso questa via possono più facilmente e in maniera divertita approcciare l’arte. “Titianus” è un valido esempio di metacinema, questa frontiera che ha l’età della ragione evoluta e non più giovane, che però se incontrata può indicare una via, lasciare un segno.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Francesco Bettin</strong></p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/ccda9b2129e56c71eaa39eae53a1a1d7_S.jpg" alt=""Titianus - Storia di un film non finito" di Tommaso Brugin" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: center;"><span style="font-size: 14pt;"><strong><em>TITIANUS – STORIA DI UN FILM NON FINITO</em><br />di Tommaso Brugin<br />con Matteo Cremon, Margherita Mannino, Valerio Mazzuccato, Gip Giampietro Cutrino <br />Italia 2021</strong></span></p> <p style="text-align: justify;">Curioso, originale e divulgativo, il <em>mockumentary</em> di <strong>Tommaso Brugin</strong> (prodotto da Avilab e Settimo Binario) sull’opera di <strong>Tiziano Vecellio</strong>, raccontata attraverso un regista che su di lui vuole realizzare la sua prima opera. Matteo Tremon è il regista che sull’orlo del cominciare il suo primo film, (un ottimo <strong>Matteo Cremon</strong>, che qui gioca col suo nome), improvvisamente sparisce, dopo esser stato in giro a fare dei sopralluoghi e a incontrare esperti che lo illuminano sulla figura e le opere di <strong>Tiziano Vecellio</strong>, grande artista nato a Pieve di Cadore. Tremon è un regista che crede nella cultura, anche se da tempo lavora con Carlo Quintino, produttore della Nord Est, interpretato da <strong>Valerio Mazzuccato</strong>, che del suo personaggio mette in luce una certa ambiguità cinica, e lo fa con attenzione. Il produttore come molti suoi colleghi pensa soprattutto a fare denaro, e non capisce gli approfondimenti che il suo giovane regista va a cercare su Tiziano. A lui basterebbe meno, il tratteggiare il grande artista senza troppi fronzoli. La sparizione di Tremon viene vista e raccontata da chi con lui e Quintino stava per iniziare l’avventura del film, personaggi e interpreti che comunque mirano a finirlo anche senza di lui, sostituito come si conviene nel frattempo da un altro regista. Tremon è il classsico raro esempio di chi crede in quello che fa, ma soprattutto si approccia alla cultura dell’arte di Tiziano Vecellio con grande rispetto e molta curiosità, tanto da voler cercare, dapprima con una costumista che deve fornirgli materiale per le riprese, una brava <strong>Margherita Mannino</strong>, poi negli incontri con illuminati professori, studiosi dell’opera del pittore, il vero significato di alcuni suoi importanti quadri, e del suo stato originale, del suo significato d’artista. Situazione quasi all’opposto dell’idea del suo produttore Quintino, che intanto inserisce nel film anche il figlio Kevin come sceneggiatore, e altri annaspanti personaggi come l’operatore Ottavio Prisma, e gli attori Francesco Vasani, (<strong>Francesco Wolf</strong>, forse troppo accentuato, anche se il suo armeggiare gli occhiali da sole è una scena che rimane) che interpreta l’Aretino (ma che con Tremon doveva essere proprio Tiziano, anche se la sostituzione del personaggio non lo turba, è comunque tutto in cambiamento e lui si adegua) Jessika Caruso, che fa la figlia di Tiziano, e lo stesso pittore, <strong>Giampietro Cutrino</strong>, Gip delle Iene, che fa se stesso ed è adeguatamente naturale, misurato. In uno scorrere del tempo blando tutto prosegue, soprattutto ognuno ha a cuore di trasmettere il proprio pensiero (davanti alle telecamere di un’importante canale specializzato sul cinema) sulla sparizione, sul non ritorno sul set di Matteo Tremon. Nel film appaiono anche nei ruoli di loro stessi i veri esperti della materia, i professori <strong>Augusto Gentili</strong>, <strong>Bernard Aikema</strong> e <strong>Enrico Maria Dal Pozzolo</strong>. Il <em>mockumentary</em> è un genere che si presenta come un documentario ma in realtà è un prodotto di fiction, un falso documentario appunto, che come in questo caso analizza un tema e lo presenta sotto aspetti documentaristici ma lo fa attraverso una storia cinematografica di finzione. Lo scopo è naturalmente quello di poter raggiungere il più vasto pubblico possibile informando e facendo divulgazione sulla cultura raggiungendolo con il pretesto di un film, affinchè tutto possa essere meno pesante, didascalico. Il <em>mockumentary</em> di <strong>Brugin</strong>, girato nel 2019, ha avuto non poche peripezie nella divulgazione, tutte da far collegare al ripetuto stato pandemico che attraversa questo nostro tempo, e il suo ripetersi, ma nonostante ciò è stato presentato in alcuni festival, anche se non a tutti quelli che si sarebbe voluto presentarlo, vincendo addirittura un premio per la miglior commedia e un altro per il miglior documentario. Cose che gli riconoscono una valenza speciale, un invito a <strong>Brugin</strong> e compagni a proseguire nell’intento, che è quello di incuriosire qui sull’artista veneto, sul pittore e le sue inquietudini, sul fronte culturale comunque, che può diventare scuola, proiezione di vita, bagaglio personale. Il progetto abbisognerebbe, ed è già nell’intento dell’autore, di esser portato proprio lì, nelle scuole o comunque a contatto con gli studenti e i giovani, che attraverso questa via possono più facilmente e in maniera divertita approcciare l’arte. “Titianus” è un valido esempio di metacinema, questa frontiera che ha l’età della ragione evoluta e non più giovane, che però se incontrata può indicare una via, lasciare un segno.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Francesco Bettin</strong></p></div>(CINEMA) - "Cry Macho - Ritorno a casa" di Clint Eastwood. Il tramonto del cowboy2021-12-09T09:47:11+01:002021-12-09T09:47:11+01:00https://www.sipario.it/recensioni/rec-cinema/item/14073-cinema-cry-macho-ritorno-a-casa-di-clint-eastwood-il-tramonto-del-cowboy.htmlAntonio Ferraro<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/bb195ed4353e5a570e28acbe6120ef52_S.jpg" alt=""Cry Macho - Ritorno a casa" di Clint Eastwood" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: center;"><span style="font-size: 14pt;"><strong><em>Cry Macho - Ritorno a casa</em><br />di Clint Eastwood<br />Con Clint Eastwood, Eduardo Minett, Natalia Traven, Dwight Yoakam, Fernanda Urrejola <br />USA 2021</strong></span></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Il tramonto del cowboy</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il vecchio cowboy ed ex idolo dei rodei Mike Milo <strong>(Eastwood)</strong> riceve dal suo amico Howard (<strong>Yoakam</strong>), padrone del ranch nel quale vive, la richiesta di andare in Messico e portargli il figlio quattordicenne Rafo (<strong>Minett</strong>), frutto di una breve relazione con Leta (<strong>Urrejola</strong>), perché ha saputo che nella casa materna il ragazzo viene maltrattato. Mike cerca di evitare il faticoso viaggio ma l’amico gli ricorda il suo debito di riconoscenza: anni prima, avendo perso la moglie e la figlia in un incidente, si era lasciato andare al dolore e all’alcool e Howard lo aveva aiutato, dandogli una casa e un lavoro. Parte per il Messico e arriva nella villa di Leta, mentre è in corso una festa. I due scagnozzi della donna, Aurelio (<strong>Horacio Garcia Rojas</strong>) e Lucas (<strong>Ivan Hernandez</strong>), lo portano dalla padrona e lei, saputo il motivo del suo arrivo, gli ride in faccia dicendogli che l’ex compagno aveva già mandato altri due a prendere il ragazzo e che entrambi avevano rinunciato; aggiunge che Rafo è un ribelle, ladro d’auto e frequentatore abituale dei combattimenti di galli; se lo trova, lo prenda pure. Mike gira per la città e trova un magazzino dove è in corso un combattimento di galli e qui vede Rafo che sta per mettere in campo il suo gallo Macho. Arriva la polizia, il ragazzo si nasconde e Mike che ha preso Macho, gli intima di venir fuori. Sulle prime Rafo sta in guardia: teme che l’uomo sia uno dei pervertiti che la corrotta madre usa mandare a molestarlo. Dopo un po’, l’idea di andare dal padre nel ranch pieno di animali lo convince e prega Mike di andare a prendergli qualcosa per il viaggio. Nella stanza del ragazzo il cowboy viene sorpreso da Aurelio che, minacciandolo con una pistola, lo porta da Leta. La donna tenta di sedurlo ma lui se ne va, con lei che lo minaccia di farlo arrestare e ordina ad Aurelio di seguirlo. Il mattino seguente, mentre sta guidando da solo, Macho sbuca dai sedili posteriori facendolo sbandare: lui e il ragazzo si erano nascosti lì. Infuriato intima a Rafo di scendere ma alla fine, vedendo i segni di frustate che il ragazzo ha sulla schiena, si convince di proseguire la sua missione. Loro sono costretti a prendere strade secondarie per sfuggire ad Aurelio e ai federales che – avvertiti da Leta – li cercano. Durante una sosta, la loro macchina viene rubata ma – arrivati ad un centro abitato – Rafo ne ruba una a sua volta. Si fermano per telefonare ma Aurelio li ha rintracciati e prende il ragazzo, gridando alle persone che assistono alla scena che lui è suo figlio e che il gringo vuole rapirlo; Macho si lancia sullo scagnozzo e, mentre lui è sbilanciato, Rafo si alza la maglietta, mostra i segni e grida che quell’uomo lo vuole prendere per abusare di lui. Gli astanti si precipitano a picchiare Aurelio e Mike, Rafo e Macho ripartono. Arrivano in un piccolo centro, dove si fermano a fare colazione nella locanda di Marta (<strong>Traven</strong>), che, intuendo che sono nei guai, caccia in malo modo lo sceriffo (<strong>Jorge-Luis Pallo</strong>), che era entrato insospettito dalle due facce nuove. La macchina rubata si è rotta e il loro soggiorno dovrà prolungarsi. Intanto Howard confessa al telefono all’amico che lui ha bisogno del figlio per usarlo con Leta, alla quale aveva intestato, per ragioni fiscali, delle proprietà delle quali ora vorrebbe – almeno per la metà – rientrare in possesso. Mike si indigna ma non dice niente a Rafo per non dargli una nuova delusione (sa, peraltro, che Howard è, in fondo, una brava persona e non lascerà mai tornare il figlio dalla perfida madre). La vita nel paesino comincia ad essere piacevole: Marta, come Mike, ha perso il marito e una figlia ed ora cresce le nipotine (<strong>Ramona Thorton, Abiah Martinez, Cesia Isabel Rosarez</strong> e <strong>Elida Munoz</strong>); in Mike, ricambiato, cresce un sentimento per la donna e Rafo ha un piccolo flirt con la più grande delle nipoti. In paese c’è un ranchero, Porfirio (<strong>Marco Rodriguez</strong>) che cattura cavalli selvatici ma non sa domarli; è il mestiere di Mike che – oltre ad insegnare a Rafo a cavalcare – si guadagna così i soldi per la permanenza, anche - grazie alla sua grande esperienza con gli animali - improvvisandosi veterinario per le bestie dei compaesani. Quando “guarisce” il cane della moglie (<strong>Darlene Kellum</strong>) dello sceriffo, entra a pieno titolo nella comunità ma l’arrivo dei federales, costringono Mike e Rafo ad una nuova fuga. Messo in salvo il ragazzo, lui torna da Marta. <br />Si può dire, in premessa, che non è tra i migliori film di <strong>Eastwood</strong>. Non è stato accolto bene da pubblico e critica negli Stati Uniti e anche in Europa (dove il mito dell’autore-attore è solidissimo) non ha convinto. E’ stata, in particolare, rilevata la scarsa credibilità dell’ultranovantenne <strong>Clint</strong> come uomo d’azione e – addirittura - seduttore; chi lo ha scritto ha, in parte, ragione: i suoi lenti movimenti, un tempo caratteristica di un eroe ieratico, ora sembrano soprattutto frutto degli acciacchi dell’età ma il suo carisma è sostanzialmente intatto (mi viene in mente, per assonanza, la scena finale di Bowling a Columbine nella quale – comunque la si pensasse sulla libera vendita delle armi – il “cattivo” <strong>Charlton Heston</strong> piegato in due dall’età, ruba la scena e il cuore degli spettatori rispetto al documentarista “buono” <strong>Michael Moore</strong>). Credo che i limiti di <em>Cry macho</em> siano due; uno, strutturale, è la qualità produttiva: lui, come sempre, produce con la sua Malpaso ma è evidente che non gli è più tanto facile trovare investitori ed assicurazioni (indispensabili per ogni film) che rischino su di un film prodotto, diretto ed interpretato da un novantunenne. L’altro limite è di genere: il western crepuscolare è sempre stato nelle corde di <strong>Eastwood</strong> ma la storia dell’orgoglioso tramonto del vecchio cowboy – dopo <em>Solo sotto le stelle</em> (’62) di <strong>David Miller</strong> con <strong>Kirk Douglas</strong>, <em>Sfida nell’Alta Sierra</em> (’61) con <strong>Randolph Scott</strong> e <strong>Joel McCrea</strong> e <em>L’ultimo buscadero</em> (’72) con <strong>Steve McQueen</strong> (entrambi di <strong>Sam Packinpah</strong>), <em>Gli spostati</em> (’61) di <strong>John Huston</strong> con <strong>Clark Gable</strong> e <em>Il pistolero</em> (’76) di <strong>Don Siegel</strong> con <strong>John Wayne</strong> – oggi non regge più. Il romanzo di <strong>N. Richard Nash</strong> (medio autore è sceneggiatore, noto prevalentemente per il dramma <em>Il mago della pioggia</em>) è del ’75 e, molto più del sempiterno <strong>Eastwood</strong>, mostra la corda. Fatto salvo tutto questo - e dando per accettabili location e cast messicani che consentono di abbassare i costi- ci sono nel film un paio di graffi con i quali il vecchio Clint lascia il segno: l’uso sapiente e ruffiano delle musiche (i due balli con Marta al ritmo di <em>Sabor a mi</em> rendono tutta la tenerezza di un amore fuori tempo massimo) e i suoi quasi impercettibili ma intensissimi passaggi di espressione, che traportano lo spettatore in un irresistibile coinvolgimento. Sembrano lontani i tempi degli splendidi <em>Gran Torino</em> e <em>The mule</em> (che invece sono del 2008 e del 2018) ma alla fine l’ultimo, grande macho è ancora con noi.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Antonio Ferraro</strong></p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/bb195ed4353e5a570e28acbe6120ef52_S.jpg" alt=""Cry Macho - Ritorno a casa" di Clint Eastwood" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: center;"><span style="font-size: 14pt;"><strong><em>Cry Macho - Ritorno a casa</em><br />di Clint Eastwood<br />Con Clint Eastwood, Eduardo Minett, Natalia Traven, Dwight Yoakam, Fernanda Urrejola <br />USA 2021</strong></span></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Il tramonto del cowboy</strong></p> <p style="text-align: justify;">Il vecchio cowboy ed ex idolo dei rodei Mike Milo <strong>(Eastwood)</strong> riceve dal suo amico Howard (<strong>Yoakam</strong>), padrone del ranch nel quale vive, la richiesta di andare in Messico e portargli il figlio quattordicenne Rafo (<strong>Minett</strong>), frutto di una breve relazione con Leta (<strong>Urrejola</strong>), perché ha saputo che nella casa materna il ragazzo viene maltrattato. Mike cerca di evitare il faticoso viaggio ma l’amico gli ricorda il suo debito di riconoscenza: anni prima, avendo perso la moglie e la figlia in un incidente, si era lasciato andare al dolore e all’alcool e Howard lo aveva aiutato, dandogli una casa e un lavoro. Parte per il Messico e arriva nella villa di Leta, mentre è in corso una festa. I due scagnozzi della donna, Aurelio (<strong>Horacio Garcia Rojas</strong>) e Lucas (<strong>Ivan Hernandez</strong>), lo portano dalla padrona e lei, saputo il motivo del suo arrivo, gli ride in faccia dicendogli che l’ex compagno aveva già mandato altri due a prendere il ragazzo e che entrambi avevano rinunciato; aggiunge che Rafo è un ribelle, ladro d’auto e frequentatore abituale dei combattimenti di galli; se lo trova, lo prenda pure. Mike gira per la città e trova un magazzino dove è in corso un combattimento di galli e qui vede Rafo che sta per mettere in campo il suo gallo Macho. Arriva la polizia, il ragazzo si nasconde e Mike che ha preso Macho, gli intima di venir fuori. Sulle prime Rafo sta in guardia: teme che l’uomo sia uno dei pervertiti che la corrotta madre usa mandare a molestarlo. Dopo un po’, l’idea di andare dal padre nel ranch pieno di animali lo convince e prega Mike di andare a prendergli qualcosa per il viaggio. Nella stanza del ragazzo il cowboy viene sorpreso da Aurelio che, minacciandolo con una pistola, lo porta da Leta. La donna tenta di sedurlo ma lui se ne va, con lei che lo minaccia di farlo arrestare e ordina ad Aurelio di seguirlo. Il mattino seguente, mentre sta guidando da solo, Macho sbuca dai sedili posteriori facendolo sbandare: lui e il ragazzo si erano nascosti lì. Infuriato intima a Rafo di scendere ma alla fine, vedendo i segni di frustate che il ragazzo ha sulla schiena, si convince di proseguire la sua missione. Loro sono costretti a prendere strade secondarie per sfuggire ad Aurelio e ai federales che – avvertiti da Leta – li cercano. Durante una sosta, la loro macchina viene rubata ma – arrivati ad un centro abitato – Rafo ne ruba una a sua volta. Si fermano per telefonare ma Aurelio li ha rintracciati e prende il ragazzo, gridando alle persone che assistono alla scena che lui è suo figlio e che il gringo vuole rapirlo; Macho si lancia sullo scagnozzo e, mentre lui è sbilanciato, Rafo si alza la maglietta, mostra i segni e grida che quell’uomo lo vuole prendere per abusare di lui. Gli astanti si precipitano a picchiare Aurelio e Mike, Rafo e Macho ripartono. Arrivano in un piccolo centro, dove si fermano a fare colazione nella locanda di Marta (<strong>Traven</strong>), che, intuendo che sono nei guai, caccia in malo modo lo sceriffo (<strong>Jorge-Luis Pallo</strong>), che era entrato insospettito dalle due facce nuove. La macchina rubata si è rotta e il loro soggiorno dovrà prolungarsi. Intanto Howard confessa al telefono all’amico che lui ha bisogno del figlio per usarlo con Leta, alla quale aveva intestato, per ragioni fiscali, delle proprietà delle quali ora vorrebbe – almeno per la metà – rientrare in possesso. Mike si indigna ma non dice niente a Rafo per non dargli una nuova delusione (sa, peraltro, che Howard è, in fondo, una brava persona e non lascerà mai tornare il figlio dalla perfida madre). La vita nel paesino comincia ad essere piacevole: Marta, come Mike, ha perso il marito e una figlia ed ora cresce le nipotine (<strong>Ramona Thorton, Abiah Martinez, Cesia Isabel Rosarez</strong> e <strong>Elida Munoz</strong>); in Mike, ricambiato, cresce un sentimento per la donna e Rafo ha un piccolo flirt con la più grande delle nipoti. In paese c’è un ranchero, Porfirio (<strong>Marco Rodriguez</strong>) che cattura cavalli selvatici ma non sa domarli; è il mestiere di Mike che – oltre ad insegnare a Rafo a cavalcare – si guadagna così i soldi per la permanenza, anche - grazie alla sua grande esperienza con gli animali - improvvisandosi veterinario per le bestie dei compaesani. Quando “guarisce” il cane della moglie (<strong>Darlene Kellum</strong>) dello sceriffo, entra a pieno titolo nella comunità ma l’arrivo dei federales, costringono Mike e Rafo ad una nuova fuga. Messo in salvo il ragazzo, lui torna da Marta. <br />Si può dire, in premessa, che non è tra i migliori film di <strong>Eastwood</strong>. Non è stato accolto bene da pubblico e critica negli Stati Uniti e anche in Europa (dove il mito dell’autore-attore è solidissimo) non ha convinto. E’ stata, in particolare, rilevata la scarsa credibilità dell’ultranovantenne <strong>Clint</strong> come uomo d’azione e – addirittura - seduttore; chi lo ha scritto ha, in parte, ragione: i suoi lenti movimenti, un tempo caratteristica di un eroe ieratico, ora sembrano soprattutto frutto degli acciacchi dell’età ma il suo carisma è sostanzialmente intatto (mi viene in mente, per assonanza, la scena finale di Bowling a Columbine nella quale – comunque la si pensasse sulla libera vendita delle armi – il “cattivo” <strong>Charlton Heston</strong> piegato in due dall’età, ruba la scena e il cuore degli spettatori rispetto al documentarista “buono” <strong>Michael Moore</strong>). Credo che i limiti di <em>Cry macho</em> siano due; uno, strutturale, è la qualità produttiva: lui, come sempre, produce con la sua Malpaso ma è evidente che non gli è più tanto facile trovare investitori ed assicurazioni (indispensabili per ogni film) che rischino su di un film prodotto, diretto ed interpretato da un novantunenne. L’altro limite è di genere: il western crepuscolare è sempre stato nelle corde di <strong>Eastwood</strong> ma la storia dell’orgoglioso tramonto del vecchio cowboy – dopo <em>Solo sotto le stelle</em> (’62) di <strong>David Miller</strong> con <strong>Kirk Douglas</strong>, <em>Sfida nell’Alta Sierra</em> (’61) con <strong>Randolph Scott</strong> e <strong>Joel McCrea</strong> e <em>L’ultimo buscadero</em> (’72) con <strong>Steve McQueen</strong> (entrambi di <strong>Sam Packinpah</strong>), <em>Gli spostati</em> (’61) di <strong>John Huston</strong> con <strong>Clark Gable</strong> e <em>Il pistolero</em> (’76) di <strong>Don Siegel</strong> con <strong>John Wayne</strong> – oggi non regge più. Il romanzo di <strong>N. Richard Nash</strong> (medio autore è sceneggiatore, noto prevalentemente per il dramma <em>Il mago della pioggia</em>) è del ’75 e, molto più del sempiterno <strong>Eastwood</strong>, mostra la corda. Fatto salvo tutto questo - e dando per accettabili location e cast messicani che consentono di abbassare i costi- ci sono nel film un paio di graffi con i quali il vecchio Clint lascia il segno: l’uso sapiente e ruffiano delle musiche (i due balli con Marta al ritmo di <em>Sabor a mi</em> rendono tutta la tenerezza di un amore fuori tempo massimo) e i suoi quasi impercettibili ma intensissimi passaggi di espressione, che traportano lo spettatore in un irresistibile coinvolgimento. Sembrano lontani i tempi degli splendidi <em>Gran Torino</em> e <em>The mule</em> (che invece sono del 2008 e del 2018) ma alla fine l’ultimo, grande macho è ancora con noi.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Antonio Ferraro</strong></p></div>(CINEMA) - "È stata la mano di Dio" di Paolo Sorrentino. Napoli piange e ride2021-11-28T11:45:36+01:002021-11-28T11:45:36+01:00https://www.sipario.it/recensioni/rec-cinema/item/14060-cinema-e-stata-la-mano-di-dio-di-paolo-sorrentino-napoli-piange-e-ride.htmlAntonio Ferraro<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/c2433fc3bab0fd2c1d157e431e4663d0_S.jpg" alt=""È stata la mano di Dio" di Paolo Sorrentino" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: center;"><span style="font-size: 14pt;"><strong><em>È stata la mano di Dio</em><br />di Paolo Sorrentino<br />Con Toni Servillo, Filippo Scotti, Teresa Saponangelo, Marlon Joubert, Luisa Ranieri <br />Italia 2021</strong></span></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Napoli piange e ride</strong></p> <p style="text-align: justify;">Anni ’80. Alla fermata dell’autobus ci sono molte persone in fila, tra queste la bella e prosperosa Patrizia (<strong>Ranieri</strong>); un’elegante macchina, guidata da un autista in divisa (<strong>Alfonso Perugini</strong>) le si ferma accanto e il proprietario (<strong>Enzo Decaro</strong>), dopo essersi presentato come San Gennaro le dice di conoscerla, di poterla aiutare nel suo desiderio di avere un figlio e si offre di accompagnarla. Prima però la porta nel suo diroccato palazzo, dove li attende un bambino nascosto da un lungo saio (il “monacielllo”); lui la invita a chinarsi e a baciare la testa del fratino e, dopo averle afferrato il sedere, le comunica che rimarrà incinta. Tornata a casa, il marito Franco (<strong>Massimiliano Gallo</strong>) la accusa di essere andata a fare le marchette e la picchia; giungono in suo soccorso i suoi parenti: Saverio Schisa (<strong>Servillo</strong>), la moglie Maria (<strong>Saponangelo</strong>) e il figlio sedicenne Fabio (<strong>Scotti</strong>), da sempre invaghito della zia Patrizia. La casa degli Schisa appare, per contrasto, un porto idilliaco: Saverio e Maria si salutano con un romantico fischio, mentre Fabio sta finendo gli studi classici – per cui cita spesso versi danteschi - e il fratello più grande, il pigro Marchino (<strong>Joubert</strong>) frequenta con comodo l’università e partecipa a qualche provino cinematografico senza troppa convinzione (c’è anche una sorella ma è sempre chiusa in bagno). La mattina successiva Maria riceve la consueta visita dell’inquilina del piano di sopra, la Baronessa Focale (<strong>Betty Pedrazzi</strong>), che dopo aver sparlato di tutti, si assicura che, come spesso, le faccia trovare il pranzo pronto sull’uscio. La famiglia Schisa partecipa ad un pranzo per conoscere il fidanzato – l’attempato e malconcio Aldo Cavallo (<strong>Alessandro Bressanello</strong>) – della grassa sorella (<strong>Carmen Pommella</strong>) del loro cugino (<strong>Roberto De Francesco</strong>), veterinario e intrallazzone con tanto di moglie (<strong>Monica Nappo</strong>) con pose da arricchita e madre (<strong>Dora Romano</strong>) ringhiosa e scurrile, che, pur essendo estate, non si separa dalla pelliccia regalatale dal figlio. Segue una gita in barca, durante la quale Patrizia imbarazza ed eccita gli uomini prendendo il sole nuda, mentre una motonave della guardia di finanza insegue invano un motoscafo di contrabbandieri. Il discorso cade sul ventilato arrivo di Maradona al Napoli: Fabio ci spera, Saverio non ci crede e il vecchio zio Alfredo (<strong>Renato Carpentieri</strong>), comunista in crisi, si dichiara pronto al suicidio se il Pibe de Oro non dovesse arrivare. Maria ama fare gli scherzi e un giorno telefona alla vicina attrice alto-atesina Graziella (Britte Berg), alla quale dice di essere la segretaria di Zeffirelli e che il Maestro l’avrebbe scelta quale protagonista del suo prossimo film sulla Callas. Una sera un’altra telefonata fa scoppiare una violenta scenata: è l’amante di Saverio che reclama i propri diritti di madre di una sua bambina. Maria lo caccia di casa ed ha una violenta crisi di pianto, che provoca in Fabio un violento tremore; la mattina seguente il tenero autistico Marriettiello (<strong>Lino Musella</strong>), vedendola triste, cercherà di consolarla. La burrasca passa e Saverio – tornato a casa – riceve una confidenziale telefonata: Maradona ha firmato con il Napoli. Fabio ne è felice e, accompagnando il fratello per un provino con Fellini e, di lì a poco, assistendo alle riprese di un film di Capuano, conosce l’attrice Yulia (<strong>Sofya Gershevich</strong>) e sente un’improvvisa forte attrazione per il cinema (e anche un po’ per la ragazza). Durante la partita Argentina-Inghilterra, Maradona segna il suo famosi gol di mano e, mentre Zio Alfredo esclama: “E’ una rivoluzione!”, nella casa del veterinario l’entusiasmo è raggelato dei carabinieri giunti per arrestarlo. Saverio e Maria hanno comprato una casetta a Roccaraso e una domenica vi si recano, Fabio dovrebbe partire con loro ma preferisce andare a vedere Napoli-Empoli; finita la partita va in un teatrino off a vedere Yulia ma all’uscita viene raggiunto da Marchino che con lui corre a Roccaraso: i genitori hanno avuto un’incidente. Quando arrivano all’ospedale apprendono che sono morti entrambi per le esalazione di monossido di una stufetta; Fabio ha una crisi violenta quando il personale medico rifiuta (per risparmiargli uno schok) di farglieli vedere. Improvvisamente solo, Fabio – che, intanto, è stato convinto dallo zio Alfredo di dovere la vita a Maradona e ha perso la verginità con l’anziana Baronessa - farà due incontri importanti: Armando (Biagio Manna), il pilota del motoscafo dei contrabbandieri e Antonio Capuano (<strong>Ciro Capano</strong>) che – in maniera diversissima – lo convincono a non abbondare il sogno di fare il regista.<br />Questo è il nono film di <strong>Sorrentino</strong> – più le due serie <em>The young pope</em> e <em>The new pope</em> e le due riprese televisive delle sue regie di <em>Sabato, domenica e lunedì</em> e <em>Le voci di dentro di Eduardo</em> – ed è (come gli altri otto) personalissimo e diverso dagli altri. E’ uno dei pregi migliori del regista: avere un tocco sempre fortemente riconoscibile e cambiare profondamente stile e contenuti ogni volta. Certo questo è il suo primo film dichiaratamente autobiografico ma è altresì vero che – come per tutti gli autori ma per lui forse ancor di più – in ogni suo film racconta di sé: è il doppio Antonio/Tony de <em>L’uomo in più</em> e il contabile di mafia de <em>Le conseguenze dell’amore</em>, tutti e tre segnati da un fato di fallimento e di riscatto; è il bieco e abbandonico usuraio (ma anche l’infantilmente sleale cowboy) de <em>L’amico di famiglia</em>; è il potente e solitario Andreotti de <em>Il divo</em> ma anche l’istrionico e shakespeariano Berlusconi di <em>Loro</em>; potremmo proseguire ma basti ricordare il caustico cinismo che copre una dolente umanità di Jep Gambardella ne <em>La grande bellezza</em> per completare il mosaico di un autore che in ogni sua opera offre – con sapienza ironica e enorme profondità di auto-analisi – una dolorosa parte di sé. E’ semmai vero che in <em>E’ stata la mano di Dio</em> <strong>Sorrentino</strong> ci racconta con grande apertura il proprio precorso creativo: in questa chiave l’essere tornato a girare a Napoli dopo il suo primo film - oltre ad essere indispensabile nel racconto della propria giovinezza - acquista un particolare valore di dichiarazione estetica: il sentito omaggio ad <strong>Antonio Capuano</strong> (che ha creduto in lui e gli ha fatto scrivere <em>Polvere di Napoli</em>) è contemporaneamente una presa di distanza dall’estetica “dell’altra Napoli” che ha caratterizzato i registi partenopei da Capuano in poi (e, in parte, il suo <em>L’uomo in più</em>). I personaggi, che nella prima parte del film sono anche macchiettistiche maschere, dopo la tragedia diventano umanissimi e consapevoli, le location, ben lungi dalla sulfurea Napoli dei Capuano, Martone e Incerti degli esordi è quasi cartolinesca ma, anche per questo vivissima e pulsante (il citato titolo <em>Napoli piange e ride</em> – dal canzonettistico film di <strong>Paolo Calzavara</strong> del ’54 – allude proprio a questa profonda rivoluzione-riappropriazione estetica della tradizione, rivista con la genialità di chi costantemente sperimenta). A <strong>Capuano</strong> inoltre viene dato il compito maieutico di dichiarare il proprio dolore per la perdita dei genitori vissuta come crudele abbandono. Si invera, nel film, ancora di più il proposito fellinianamente dichiarato di “Fare film perché la realtà è scadente”: qui la realtà/irrealtà è dolorosa ma bellissima. <em>E’ stata la mano di Dio</em> ha avuto il premio della giuria a Venezia ed è candidato agli Oscar dall’Italia, scelta necessitata ed ineccepibile.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Antonio Ferraro</strong></p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/c2433fc3bab0fd2c1d157e431e4663d0_S.jpg" alt=""È stata la mano di Dio" di Paolo Sorrentino" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: center;"><span style="font-size: 14pt;"><strong><em>È stata la mano di Dio</em><br />di Paolo Sorrentino<br />Con Toni Servillo, Filippo Scotti, Teresa Saponangelo, Marlon Joubert, Luisa Ranieri <br />Italia 2021</strong></span></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Napoli piange e ride</strong></p> <p style="text-align: justify;">Anni ’80. Alla fermata dell’autobus ci sono molte persone in fila, tra queste la bella e prosperosa Patrizia (<strong>Ranieri</strong>); un’elegante macchina, guidata da un autista in divisa (<strong>Alfonso Perugini</strong>) le si ferma accanto e il proprietario (<strong>Enzo Decaro</strong>), dopo essersi presentato come San Gennaro le dice di conoscerla, di poterla aiutare nel suo desiderio di avere un figlio e si offre di accompagnarla. Prima però la porta nel suo diroccato palazzo, dove li attende un bambino nascosto da un lungo saio (il “monacielllo”); lui la invita a chinarsi e a baciare la testa del fratino e, dopo averle afferrato il sedere, le comunica che rimarrà incinta. Tornata a casa, il marito Franco (<strong>Massimiliano Gallo</strong>) la accusa di essere andata a fare le marchette e la picchia; giungono in suo soccorso i suoi parenti: Saverio Schisa (<strong>Servillo</strong>), la moglie Maria (<strong>Saponangelo</strong>) e il figlio sedicenne Fabio (<strong>Scotti</strong>), da sempre invaghito della zia Patrizia. La casa degli Schisa appare, per contrasto, un porto idilliaco: Saverio e Maria si salutano con un romantico fischio, mentre Fabio sta finendo gli studi classici – per cui cita spesso versi danteschi - e il fratello più grande, il pigro Marchino (<strong>Joubert</strong>) frequenta con comodo l’università e partecipa a qualche provino cinematografico senza troppa convinzione (c’è anche una sorella ma è sempre chiusa in bagno). La mattina successiva Maria riceve la consueta visita dell’inquilina del piano di sopra, la Baronessa Focale (<strong>Betty Pedrazzi</strong>), che dopo aver sparlato di tutti, si assicura che, come spesso, le faccia trovare il pranzo pronto sull’uscio. La famiglia Schisa partecipa ad un pranzo per conoscere il fidanzato – l’attempato e malconcio Aldo Cavallo (<strong>Alessandro Bressanello</strong>) – della grassa sorella (<strong>Carmen Pommella</strong>) del loro cugino (<strong>Roberto De Francesco</strong>), veterinario e intrallazzone con tanto di moglie (<strong>Monica Nappo</strong>) con pose da arricchita e madre (<strong>Dora Romano</strong>) ringhiosa e scurrile, che, pur essendo estate, non si separa dalla pelliccia regalatale dal figlio. Segue una gita in barca, durante la quale Patrizia imbarazza ed eccita gli uomini prendendo il sole nuda, mentre una motonave della guardia di finanza insegue invano un motoscafo di contrabbandieri. Il discorso cade sul ventilato arrivo di Maradona al Napoli: Fabio ci spera, Saverio non ci crede e il vecchio zio Alfredo (<strong>Renato Carpentieri</strong>), comunista in crisi, si dichiara pronto al suicidio se il Pibe de Oro non dovesse arrivare. Maria ama fare gli scherzi e un giorno telefona alla vicina attrice alto-atesina Graziella (Britte Berg), alla quale dice di essere la segretaria di Zeffirelli e che il Maestro l’avrebbe scelta quale protagonista del suo prossimo film sulla Callas. Una sera un’altra telefonata fa scoppiare una violenta scenata: è l’amante di Saverio che reclama i propri diritti di madre di una sua bambina. Maria lo caccia di casa ed ha una violenta crisi di pianto, che provoca in Fabio un violento tremore; la mattina seguente il tenero autistico Marriettiello (<strong>Lino Musella</strong>), vedendola triste, cercherà di consolarla. La burrasca passa e Saverio – tornato a casa – riceve una confidenziale telefonata: Maradona ha firmato con il Napoli. Fabio ne è felice e, accompagnando il fratello per un provino con Fellini e, di lì a poco, assistendo alle riprese di un film di Capuano, conosce l’attrice Yulia (<strong>Sofya Gershevich</strong>) e sente un’improvvisa forte attrazione per il cinema (e anche un po’ per la ragazza). Durante la partita Argentina-Inghilterra, Maradona segna il suo famosi gol di mano e, mentre Zio Alfredo esclama: “E’ una rivoluzione!”, nella casa del veterinario l’entusiasmo è raggelato dei carabinieri giunti per arrestarlo. Saverio e Maria hanno comprato una casetta a Roccaraso e una domenica vi si recano, Fabio dovrebbe partire con loro ma preferisce andare a vedere Napoli-Empoli; finita la partita va in un teatrino off a vedere Yulia ma all’uscita viene raggiunto da Marchino che con lui corre a Roccaraso: i genitori hanno avuto un’incidente. Quando arrivano all’ospedale apprendono che sono morti entrambi per le esalazione di monossido di una stufetta; Fabio ha una crisi violenta quando il personale medico rifiuta (per risparmiargli uno schok) di farglieli vedere. Improvvisamente solo, Fabio – che, intanto, è stato convinto dallo zio Alfredo di dovere la vita a Maradona e ha perso la verginità con l’anziana Baronessa - farà due incontri importanti: Armando (Biagio Manna), il pilota del motoscafo dei contrabbandieri e Antonio Capuano (<strong>Ciro Capano</strong>) che – in maniera diversissima – lo convincono a non abbondare il sogno di fare il regista.<br />Questo è il nono film di <strong>Sorrentino</strong> – più le due serie <em>The young pope</em> e <em>The new pope</em> e le due riprese televisive delle sue regie di <em>Sabato, domenica e lunedì</em> e <em>Le voci di dentro di Eduardo</em> – ed è (come gli altri otto) personalissimo e diverso dagli altri. E’ uno dei pregi migliori del regista: avere un tocco sempre fortemente riconoscibile e cambiare profondamente stile e contenuti ogni volta. Certo questo è il suo primo film dichiaratamente autobiografico ma è altresì vero che – come per tutti gli autori ma per lui forse ancor di più – in ogni suo film racconta di sé: è il doppio Antonio/Tony de <em>L’uomo in più</em> e il contabile di mafia de <em>Le conseguenze dell’amore</em>, tutti e tre segnati da un fato di fallimento e di riscatto; è il bieco e abbandonico usuraio (ma anche l’infantilmente sleale cowboy) de <em>L’amico di famiglia</em>; è il potente e solitario Andreotti de <em>Il divo</em> ma anche l’istrionico e shakespeariano Berlusconi di <em>Loro</em>; potremmo proseguire ma basti ricordare il caustico cinismo che copre una dolente umanità di Jep Gambardella ne <em>La grande bellezza</em> per completare il mosaico di un autore che in ogni sua opera offre – con sapienza ironica e enorme profondità di auto-analisi – una dolorosa parte di sé. E’ semmai vero che in <em>E’ stata la mano di Dio</em> <strong>Sorrentino</strong> ci racconta con grande apertura il proprio precorso creativo: in questa chiave l’essere tornato a girare a Napoli dopo il suo primo film - oltre ad essere indispensabile nel racconto della propria giovinezza - acquista un particolare valore di dichiarazione estetica: il sentito omaggio ad <strong>Antonio Capuano</strong> (che ha creduto in lui e gli ha fatto scrivere <em>Polvere di Napoli</em>) è contemporaneamente una presa di distanza dall’estetica “dell’altra Napoli” che ha caratterizzato i registi partenopei da Capuano in poi (e, in parte, il suo <em>L’uomo in più</em>). I personaggi, che nella prima parte del film sono anche macchiettistiche maschere, dopo la tragedia diventano umanissimi e consapevoli, le location, ben lungi dalla sulfurea Napoli dei Capuano, Martone e Incerti degli esordi è quasi cartolinesca ma, anche per questo vivissima e pulsante (il citato titolo <em>Napoli piange e ride</em> – dal canzonettistico film di <strong>Paolo Calzavara</strong> del ’54 – allude proprio a questa profonda rivoluzione-riappropriazione estetica della tradizione, rivista con la genialità di chi costantemente sperimenta). A <strong>Capuano</strong> inoltre viene dato il compito maieutico di dichiarare il proprio dolore per la perdita dei genitori vissuta come crudele abbandono. Si invera, nel film, ancora di più il proposito fellinianamente dichiarato di “Fare film perché la realtà è scadente”: qui la realtà/irrealtà è dolorosa ma bellissima. <em>E’ stata la mano di Dio</em> ha avuto il premio della giuria a Venezia ed è candidato agli Oscar dall’Italia, scelta necessitata ed ineccepibile.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Antonio Ferraro</strong></p></div>(CINEMA) - "Django & Django - Sergio Corbucci Unchained" di Luca Rea. Documentario. The hateful one2021-11-23T22:41:13+01:002021-11-23T22:41:13+01:00https://www.sipario.it/recensioni/rec-cinema/item/14051-cinema-django-django-sergio-corbucci-unchained-di-luca-rea-documentario-the-hateful-one.htmlAntonio Ferraro<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/f4e7b7cccfc0dba6268e935a30a25808_S.jpg" alt=""Django & Django - Sergio Corbucci Unchained" di Luca Rea" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: center;"><span style="font-size: 14pt;"><strong>Django & Django - Sergio Corbucci Unchained</strong></span><br /><span style="font-size: 14pt;"><strong> di Luca Rea. Documentario <br />Italia 2021</strong></span></p> <p style="text-align: justify;"><strong>The hateful one</strong><br />Il film è innanzitutto una lunga chiaccherata/intrevista di <strong>Quentin Tarantino</strong>. Lui è notoriamente appassionato dei western-spaghetti e di tutto il cinema di genere italiano di quegli anni; in particolare ha sempre amato <strong>Corbucci</strong> (racconta di essere stato tentato di scrivere un saggio su di lui, intitolandolo – in riferimento a <strong>Leone</strong> – <em>L’altro Sergio</em>) e dimostra di conoscerne perfettamente la filmografia. Si comincia con i disegni di <strong>Giordano Saviotti</strong> che raccontano tutto il non detto in <em>C’era una volta a … Hollywood</em> sull’esperienza in Italia di Rick Dalton (<strong>Leonardo Di Caprio</strong>): a pranzo con <strong>Corbucci</strong> e la moglie <strong>Nori</strong> (riconosciamo la “Taverna Flavia”, tempio della Hollywood sul Tevere degli anni ’60, ’70) lo confonde con Sergio Leone e, subito dopo, gli dice di aver visto in aereo un pessimo western italiano (è il suo <em>Navajo Joe</em>); il regista gli dice di essere poco propenso a prenderlo visto il suo atteggiamento ma Rick lo convince dicendogli: ”Io sono bravo nei western: è irrilevante se la storia o il regista mi piacciono o no” ma quando gira si rende insopportabile: è disgustato dal caos del set, tratta tutti male e recita quando gli pare. Così i suoi successivi film in Italia saranno con registi minori e <strong>Corbucci</strong> non lo chiama più. Poco dopo vediamo lo stesso <strong>Corbucci</strong> raccontare, in un’intervista, di come abbia aggirato le manie da Actor’s Studio di <strong>Tony Musante</strong>, che chiedeva di potersi isolare a riflettere per rigirare una scena con dei lievi cambiamenti, risolvendo con la controfigura. Guidati da <strong>Tarantino</strong> entriamo nel vivo della produzione western di Corbucci: lui ci ricorda la grande rivoluzione operata da Leone nel genere: prima di <em>Per un pugno di dollari</em> in Italia si producevano pellicole che erano sfocate copie degli originali americani; lo stesso <strong>Corbucci</strong> aveva diretto <em>Massacro al Grand Canyon</em>, con <strong>James Mitchum</strong>, il figlio di Robert, ma già con il successivo <em>Minnesota Clay</em> con <strong>Cameron Mitchell</strong> viene fuori la sua vena aspra e violenta (“da lui ho imparato la cattiveria: era proprio cattivo e sanguinario” dice di lui un, altro testimonial, il regista <strong>Ruggero Deodato</strong>, allora suo aiuto). Prima della decisiva svolta di <em>Django</em>, arrivano i meno riusciti <em>Navajo Joe</em>, con l’allora poco noto <strong>Burt</strong> <strong>Reynolds</strong> e <em>Johnny Oro</em>, interpretato dal cormaniano <strong>Mark Damon</strong>. E’ lo stesso <strong>Franco Nero</strong> ad introdurci sul set sporco e fangoso di <em>Django</em>, divenuto un cult già dall’uscita tanto che <strong>Corbucci</strong> lo volle protagonista di altri tre westren; <em>Il mercenario</em>, con <strong>Musante</strong>, <em>Gli specialisti</em> con <strong>Mario Adorf</strong> e <em>Vamos a matar companeros</em>, insieme, a <strong>Tomas Milian</strong>; lui conferma che <strong>Corbucci</strong> (lo dice lui stesso in un’altra intervista) voleva fare dei film di sinistra: con i cattivi assimilabili ai nazisti e con un eroe (non necessariamente un buono) che riscatta gli oppressi. Il regista era così convinto del carisma di <strong>Nero</strong>, da affidare a malincuore il ruolo di protagonista de <em>Il grande silenzio</em> a <strong>Jean-Louis Trintignant</strong> quando l’attore aveva scelto partire per Hollywood. Vediamo scene degli ultimi tre titoli: l’imperfetto<em> I crudeli</em> con <strong>Joseph Cotten</strong>, il quasi altmaniano <em>La banda di J. E S</em>, (rispettivamente <strong>Tomas Milian</strong> e <strong>Susan George</strong>) e, infine, il comico <em>Che c’entriamo noi con la rivoluzione?</em> con <strong>Paolo Villaggio</strong> e un palesemente riluttante <strong>Vittorio Gassman</strong>. La conclusione di <strong>Tarantino</strong> è che mentre è difficile – dando per scontato (ma lui non è esattamente d’accordo) che <strong>John Ford</strong> sia il numero 1 del western – stabilire chi sia il numero 2 (<strong>Raoul Walsh?, Delmer Daves?, Sam Peckinpah?</strong>), tra gli italiani, dopo <strong>Leone</strong> c’è sicuramente <strong>Corbucci</strong>. Nei titoli di coda, lui si diverte ad immaginare un’improbabile e godibilissima spiegazione dello scatenarsi della vendetta di <em>Django</em> in seguito alla visita alla tomba di una non specificata Mercedes.<br />Il western-spaghetti, secondo alcuni di noi ai tempi del suo successo, non era altro che una metafora del nostro cinema: un eroe male in arnese ma furbissimo (il produttore) imbroglia, tradisce e ammazza sino ad arrivare al malloppo o a raccogliere tante taglie sui fuorilegge che uccide (il finanziamento del film). L’idea ci divertiva e non era del tutto campata in aria (gli americani raccontavano l’epopea pioneristica, noi la nostra arte di arrangiarsi) ma non valeva per Corbucci: lui voleva caratterizzarsi come autore degli western più sanguinari (vedi Deodato) della storia. In realtà il genere era uno degli esempi di come il nostro cinema di quegli anni abbia fatto scuola nel mondo per la enorme capacità artigianale dei nostri autori, produttori e tecnici di creare, con budget risibili rispetto alle mega-produzion,i prodotti efficacissimi. E <strong>Tarantino</strong>, che per il suo primo film <em>Le iene</em> aveva dovuto fare miracoli con i pochi soldi a disposizione, lo ha capito benissimo e, sicuramente per merito della produttrice <strong>Nicoletta Ercoli</strong> e degli autori, qui si concede generosamente, ridando un clima che anche da noi è stato da un pezzo dimenticato. Il regista <strong>Luca Rea</strong> (autore del prezioso <em>Liberi tutti</em> che, in un’ora, racconta le mille sfaccettature delle tv private ai loro tempestosi esordi) e il co-autore <strong>Steve Della Casa</strong> sono perfetti per arricchire le parole di <strong>Tarantino</strong> con disegni, interviste e calibratissimi spezzoni di film che – come loro stessi dichiarano – fa amare il documentario anche da chi non sa neanche chi sia Django. <strong>Della Casa</strong>, in particolare, prosegue il suo geniale discorso di riscoperta del cinema italiano dei generi: da <em>Uomini forti</em> sul peplum, a <em>I tarantiniani</em>, carrellata di autori amati da <strong>Tarantino</strong> (con la mitica dichiarazione di <strong>Castellari</strong> sui titoli dei film;” se te fanno di’ “me cojoni!” incassano, se dici “e sti cazzi?” nun fanno ‘na lira”), al più serioso <em>Lorenza Mazzetti – Perché sono un genio</em>, bella riscoperta di una regista e scrittrice dimenticata, a <em>Nessuno ci può giudicare</em> sul musicarello “politico”, a <em>Bulli e pupe</em>, carrellata sui giovani degli anni ’50 visti dal nostro cinema, a <em>Boia, maschere e segreti – l’horror italiano degli anni Sessanta</em>, fino a <em>Siamo in film di Alberto Sordi?</em> Un percorso importante e da difendere gelosamente dagli artigli delle ignobili vestali del cancel culture; anche in questo senso, <em>Django e Django</em> è già una pietra miliare.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Antonio Ferraro</strong></p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/f4e7b7cccfc0dba6268e935a30a25808_S.jpg" alt=""Django & Django - Sergio Corbucci Unchained" di Luca Rea" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: center;"><span style="font-size: 14pt;"><strong>Django & Django - Sergio Corbucci Unchained</strong></span><br /><span style="font-size: 14pt;"><strong> di Luca Rea. Documentario <br />Italia 2021</strong></span></p> <p style="text-align: justify;"><strong>The hateful one</strong><br />Il film è innanzitutto una lunga chiaccherata/intrevista di <strong>Quentin Tarantino</strong>. Lui è notoriamente appassionato dei western-spaghetti e di tutto il cinema di genere italiano di quegli anni; in particolare ha sempre amato <strong>Corbucci</strong> (racconta di essere stato tentato di scrivere un saggio su di lui, intitolandolo – in riferimento a <strong>Leone</strong> – <em>L’altro Sergio</em>) e dimostra di conoscerne perfettamente la filmografia. Si comincia con i disegni di <strong>Giordano Saviotti</strong> che raccontano tutto il non detto in <em>C’era una volta a … Hollywood</em> sull’esperienza in Italia di Rick Dalton (<strong>Leonardo Di Caprio</strong>): a pranzo con <strong>Corbucci</strong> e la moglie <strong>Nori</strong> (riconosciamo la “Taverna Flavia”, tempio della Hollywood sul Tevere degli anni ’60, ’70) lo confonde con Sergio Leone e, subito dopo, gli dice di aver visto in aereo un pessimo western italiano (è il suo <em>Navajo Joe</em>); il regista gli dice di essere poco propenso a prenderlo visto il suo atteggiamento ma Rick lo convince dicendogli: ”Io sono bravo nei western: è irrilevante se la storia o il regista mi piacciono o no” ma quando gira si rende insopportabile: è disgustato dal caos del set, tratta tutti male e recita quando gli pare. Così i suoi successivi film in Italia saranno con registi minori e <strong>Corbucci</strong> non lo chiama più. Poco dopo vediamo lo stesso <strong>Corbucci</strong> raccontare, in un’intervista, di come abbia aggirato le manie da Actor’s Studio di <strong>Tony Musante</strong>, che chiedeva di potersi isolare a riflettere per rigirare una scena con dei lievi cambiamenti, risolvendo con la controfigura. Guidati da <strong>Tarantino</strong> entriamo nel vivo della produzione western di Corbucci: lui ci ricorda la grande rivoluzione operata da Leone nel genere: prima di <em>Per un pugno di dollari</em> in Italia si producevano pellicole che erano sfocate copie degli originali americani; lo stesso <strong>Corbucci</strong> aveva diretto <em>Massacro al Grand Canyon</em>, con <strong>James Mitchum</strong>, il figlio di Robert, ma già con il successivo <em>Minnesota Clay</em> con <strong>Cameron Mitchell</strong> viene fuori la sua vena aspra e violenta (“da lui ho imparato la cattiveria: era proprio cattivo e sanguinario” dice di lui un, altro testimonial, il regista <strong>Ruggero Deodato</strong>, allora suo aiuto). Prima della decisiva svolta di <em>Django</em>, arrivano i meno riusciti <em>Navajo Joe</em>, con l’allora poco noto <strong>Burt</strong> <strong>Reynolds</strong> e <em>Johnny Oro</em>, interpretato dal cormaniano <strong>Mark Damon</strong>. E’ lo stesso <strong>Franco Nero</strong> ad introdurci sul set sporco e fangoso di <em>Django</em>, divenuto un cult già dall’uscita tanto che <strong>Corbucci</strong> lo volle protagonista di altri tre westren; <em>Il mercenario</em>, con <strong>Musante</strong>, <em>Gli specialisti</em> con <strong>Mario Adorf</strong> e <em>Vamos a matar companeros</em>, insieme, a <strong>Tomas Milian</strong>; lui conferma che <strong>Corbucci</strong> (lo dice lui stesso in un’altra intervista) voleva fare dei film di sinistra: con i cattivi assimilabili ai nazisti e con un eroe (non necessariamente un buono) che riscatta gli oppressi. Il regista era così convinto del carisma di <strong>Nero</strong>, da affidare a malincuore il ruolo di protagonista de <em>Il grande silenzio</em> a <strong>Jean-Louis Trintignant</strong> quando l’attore aveva scelto partire per Hollywood. Vediamo scene degli ultimi tre titoli: l’imperfetto<em> I crudeli</em> con <strong>Joseph Cotten</strong>, il quasi altmaniano <em>La banda di J. E S</em>, (rispettivamente <strong>Tomas Milian</strong> e <strong>Susan George</strong>) e, infine, il comico <em>Che c’entriamo noi con la rivoluzione?</em> con <strong>Paolo Villaggio</strong> e un palesemente riluttante <strong>Vittorio Gassman</strong>. La conclusione di <strong>Tarantino</strong> è che mentre è difficile – dando per scontato (ma lui non è esattamente d’accordo) che <strong>John Ford</strong> sia il numero 1 del western – stabilire chi sia il numero 2 (<strong>Raoul Walsh?, Delmer Daves?, Sam Peckinpah?</strong>), tra gli italiani, dopo <strong>Leone</strong> c’è sicuramente <strong>Corbucci</strong>. Nei titoli di coda, lui si diverte ad immaginare un’improbabile e godibilissima spiegazione dello scatenarsi della vendetta di <em>Django</em> in seguito alla visita alla tomba di una non specificata Mercedes.<br />Il western-spaghetti, secondo alcuni di noi ai tempi del suo successo, non era altro che una metafora del nostro cinema: un eroe male in arnese ma furbissimo (il produttore) imbroglia, tradisce e ammazza sino ad arrivare al malloppo o a raccogliere tante taglie sui fuorilegge che uccide (il finanziamento del film). L’idea ci divertiva e non era del tutto campata in aria (gli americani raccontavano l’epopea pioneristica, noi la nostra arte di arrangiarsi) ma non valeva per Corbucci: lui voleva caratterizzarsi come autore degli western più sanguinari (vedi Deodato) della storia. In realtà il genere era uno degli esempi di come il nostro cinema di quegli anni abbia fatto scuola nel mondo per la enorme capacità artigianale dei nostri autori, produttori e tecnici di creare, con budget risibili rispetto alle mega-produzion,i prodotti efficacissimi. E <strong>Tarantino</strong>, che per il suo primo film <em>Le iene</em> aveva dovuto fare miracoli con i pochi soldi a disposizione, lo ha capito benissimo e, sicuramente per merito della produttrice <strong>Nicoletta Ercoli</strong> e degli autori, qui si concede generosamente, ridando un clima che anche da noi è stato da un pezzo dimenticato. Il regista <strong>Luca Rea</strong> (autore del prezioso <em>Liberi tutti</em> che, in un’ora, racconta le mille sfaccettature delle tv private ai loro tempestosi esordi) e il co-autore <strong>Steve Della Casa</strong> sono perfetti per arricchire le parole di <strong>Tarantino</strong> con disegni, interviste e calibratissimi spezzoni di film che – come loro stessi dichiarano – fa amare il documentario anche da chi non sa neanche chi sia Django. <strong>Della Casa</strong>, in particolare, prosegue il suo geniale discorso di riscoperta del cinema italiano dei generi: da <em>Uomini forti</em> sul peplum, a <em>I tarantiniani</em>, carrellata di autori amati da <strong>Tarantino</strong> (con la mitica dichiarazione di <strong>Castellari</strong> sui titoli dei film;” se te fanno di’ “me cojoni!” incassano, se dici “e sti cazzi?” nun fanno ‘na lira”), al più serioso <em>Lorenza Mazzetti – Perché sono un genio</em>, bella riscoperta di una regista e scrittrice dimenticata, a <em>Nessuno ci può giudicare</em> sul musicarello “politico”, a <em>Bulli e pupe</em>, carrellata sui giovani degli anni ’50 visti dal nostro cinema, a <em>Boia, maschere e segreti – l’horror italiano degli anni Sessanta</em>, fino a <em>Siamo in film di Alberto Sordi?</em> Un percorso importante e da difendere gelosamente dagli artigli delle ignobili vestali del cancel culture; anche in questo senso, <em>Django e Django</em> è già una pietra miliare.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Antonio Ferraro</strong></p></div>(CINEMA) - "Mira mi alma" Documentario di Gianlorenzo Attene. Echi di Wenders e Salgado in un giovane documentarista2021-11-21T13:23:13+01:002021-11-21T13:23:13+01:00https://www.sipario.it/recensioni/rec-cinema/item/14047-cinema-mira-mi-alma-documentario-di-gianlorenzo-attene-echi-di-wenders-e-salgado-in-un-giovane-documentarista.htmlAntonio Ferraro<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/df3dd3c09db57d8f9834003df735148b_S.jpg" alt=""Mira mi alma" Documentario di Gianlorenzo Attene" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: center;"><em><strong><span style="font-size: 14pt;">Mira mi alma</span></strong></em><br /><strong><span style="font-size: 14pt;">Documentario di Gianlorenzo Attene<br />Italia-Cuba 2020</span></strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Echi di Wenders e Salgado in un giovane documentarista</strong></p> <p style="text-align: justify;">Cuba. <strong>Marco Gonzales Ramirez</strong> è un anziano ex-detenuto. E’ povero e la sua vita ha un solo faro affettivo: la madre. Da giovane è finito in galera e lì ne ha passate di tutti colori: i primi tempi non dormiva e si copriva con una coperta, temendo le aggressioni di altri detenuti; poi ha imparato a farsi un machete con il telaio del letto e a tenerlo ben nascosto nel materasso, ha anche difeso – quando era già un veterano di quella vita – dei ragazzi alla prima condanna dagli assalti dei boss del carcere. Uscito di prigione, si è arrangiato con lavoretti, si è sposato, separato ed ha avuto una figlia. Quando la ragazza è diventata grande gli ha offerto di andare a vivere con lei. Lui ha venduto la casetta che con grandi sacrifici si era fatta, ha dato metà dei soldi alla mamma e alla sorella ed è andato dalla figlia ma, finiti i soldi, la ragazza lo ha buttato fuori. Ha vissuto come un vagabondo, finché non gli hanno offerto di fare il guardiano di uno stadio con uso di una stanzetta disadorna. Ora vive una saggia serenità, turbata fino alle lacrime dall’idea di perdere la madre.<br /><em>Mira mi alma</em> è un documentario-saggio che <strong>Gianlorenzo Attene</strong> ha ideato e diretto alla fine di un corso di documentaristica alla Scuola di Cinema di Cuba. Prima di questo aveva prodotto, diretto e montato altri due lavori: <em>L’urlo del Carnevale</em> e <em>La resurrezione della madre</em>, entrambi incentrati su celebrazioni del Carnevale in paesi sardi. Il primo, ambientato a Bosa, è una sorta di saggio/viaggio interiore sulla primitività di riti al limite dell’osceno e del blasfemo, mentre il secondo cerca in altre zone della Sardegna il significato profondo di gesti e prove di coraggio che rimandano ad un rapporto profondo e mitologico con la Madre Terra. Entrambi mi avevano evocato la grande tradizione etnico-sociologica che da noi ha avuto il suo studioso più significativo in <strong>Ernesto De Martino</strong>. <br /><em>Mira mi alma</em> è un grande passo in avanti nella produzione di Attene: non ci sono sovrastrutture, c’è il protagonista, le sue rughe, la sua dignitosa povertà e lo squallore dell’ambiente. Ma è proprio questo squallore ad essere illuminato da un sorriso, da una lacrima di tenerezza, dall’intonazione di un vecchio successo de Los Zafiros o di <em>Historia de un amor</em>, da segnali di una grande sensibilità, non coltivata ma sincera, che fa ad esempio dire a Marco quanto sia sbagliato mettere insieme in carcere giovani che hanno sbagliato e omicidi che non hanno nulla da perdere. Può essere un giudizio troppo affettuoso ma tra le pieghe (e le rughe) di <em>Mira mi alma</em>, ho visto qualche sprazzo di <strong>Wenders</strong> e di <strong>Salgado</strong> e del loro <em>Il sale della terra</em>.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Antonio Ferraro</strong></p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/df3dd3c09db57d8f9834003df735148b_S.jpg" alt=""Mira mi alma" Documentario di Gianlorenzo Attene" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: center;"><em><strong><span style="font-size: 14pt;">Mira mi alma</span></strong></em><br /><strong><span style="font-size: 14pt;">Documentario di Gianlorenzo Attene<br />Italia-Cuba 2020</span></strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Echi di Wenders e Salgado in un giovane documentarista</strong></p> <p style="text-align: justify;">Cuba. <strong>Marco Gonzales Ramirez</strong> è un anziano ex-detenuto. E’ povero e la sua vita ha un solo faro affettivo: la madre. Da giovane è finito in galera e lì ne ha passate di tutti colori: i primi tempi non dormiva e si copriva con una coperta, temendo le aggressioni di altri detenuti; poi ha imparato a farsi un machete con il telaio del letto e a tenerlo ben nascosto nel materasso, ha anche difeso – quando era già un veterano di quella vita – dei ragazzi alla prima condanna dagli assalti dei boss del carcere. Uscito di prigione, si è arrangiato con lavoretti, si è sposato, separato ed ha avuto una figlia. Quando la ragazza è diventata grande gli ha offerto di andare a vivere con lei. Lui ha venduto la casetta che con grandi sacrifici si era fatta, ha dato metà dei soldi alla mamma e alla sorella ed è andato dalla figlia ma, finiti i soldi, la ragazza lo ha buttato fuori. Ha vissuto come un vagabondo, finché non gli hanno offerto di fare il guardiano di uno stadio con uso di una stanzetta disadorna. Ora vive una saggia serenità, turbata fino alle lacrime dall’idea di perdere la madre.<br /><em>Mira mi alma</em> è un documentario-saggio che <strong>Gianlorenzo Attene</strong> ha ideato e diretto alla fine di un corso di documentaristica alla Scuola di Cinema di Cuba. Prima di questo aveva prodotto, diretto e montato altri due lavori: <em>L’urlo del Carnevale</em> e <em>La resurrezione della madre</em>, entrambi incentrati su celebrazioni del Carnevale in paesi sardi. Il primo, ambientato a Bosa, è una sorta di saggio/viaggio interiore sulla primitività di riti al limite dell’osceno e del blasfemo, mentre il secondo cerca in altre zone della Sardegna il significato profondo di gesti e prove di coraggio che rimandano ad un rapporto profondo e mitologico con la Madre Terra. Entrambi mi avevano evocato la grande tradizione etnico-sociologica che da noi ha avuto il suo studioso più significativo in <strong>Ernesto De Martino</strong>. <br /><em>Mira mi alma</em> è un grande passo in avanti nella produzione di Attene: non ci sono sovrastrutture, c’è il protagonista, le sue rughe, la sua dignitosa povertà e lo squallore dell’ambiente. Ma è proprio questo squallore ad essere illuminato da un sorriso, da una lacrima di tenerezza, dall’intonazione di un vecchio successo de Los Zafiros o di <em>Historia de un amor</em>, da segnali di una grande sensibilità, non coltivata ma sincera, che fa ad esempio dire a Marco quanto sia sbagliato mettere insieme in carcere giovani che hanno sbagliato e omicidi che non hanno nulla da perdere. Può essere un giudizio troppo affettuoso ma tra le pieghe (e le rughe) di <em>Mira mi alma</em>, ho visto qualche sprazzo di <strong>Wenders</strong> e di <strong>Salgado</strong> e del loro <em>Il sale della terra</em>.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Antonio Ferraro</strong></p></div>(CINEMA) - "Chi è senza peccato - The Dry" di Robert Connolly. Un bel thriller quasi femminista nel deserto2021-11-15T09:08:44+01:002021-11-15T09:08:44+01:00https://www.sipario.it/recensioni/rec-cinema/item/14043-cinema-chi-e-senza-peccato-the-dry-di-robert-connolly-un-bel-thriller-quasi-femminista-nel-deserto.htmlAntonio Ferraro<div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/4e3c95f7730fed71a476731632f54ed6_S.jpg" alt=""Chi è senza peccato - The Dry" di Robert Connolly" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: center;"><strong><span style="font-size: 14pt;"><em>Chi è senza peccato - The Dry</em></span></strong><br /><strong><span style="font-size: 14pt;">di Robert Connolly</span></strong><br /><strong><span style="font-size: 14pt;">Con Eric Bana, Genevieve O'Reilly, Keir O'Donnell, John Polson, Julia Blake </span></strong><br /><strong><span style="font-size: 14pt;">Usa- Australia 2021</span></strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Un bel thriller quasi femminista nel deserto</strong><br />Il famoso detective federale Aaron Falk (<strong>Bana</strong>) torna dopo vent’anni da Melbourne a Kiewarra per i funerali del suo amico Luke Hadler (<strong>Martin Dingle Wall</strong>), accusato di essersi suicidato dopo aver ucciso la moglie Karen (<strong>Rosanna Lockhart</strong>) e il figlio Billy (<strong>Jarvis Mitchell</strong>). I genitori di Luke, Gerry (<strong>Bruce Spence</strong>) e Barb (<strong>Blake</strong>), lo supplicano di restare per indagare su quelle morti, che il paese ha liquidato nell’ipotesi omicidi-suicidio. Aaron – che, a sua volta, era stato da ragazzo (<strong>Joe Klocek</strong>), costretto ad abbandonare il paese, insieme al padre (<strong>Jeremy Lindsay Taylor</strong>), perché a sospettato di aver ucciso la sua amica Ellie (<strong>BeBe Bettencourt</strong>) - accetta e va a dormire nell’unico bar-albergo del paese, gestito da McMurdo (<strong>Eddie Baroo</strong>); la sera viene aggredito verbalmente e minacciato da Mal Deacon (<strong>William Zappa</strong>), padre di Ellie. Il giorno dopo incontra il sergente Greg Raco (<strong>O’Donnell</strong>), che è ancora sotto shock per aver visto i cadaveri ed è ben felice che Aaron lo aiuti nelle indagini. Il primo indizio su quale si muovono sono i bossoli trovati vicino ai corpi, diversi da quelli usate da Luke. Interrogano Jamie (<strong>James Frecheville</strong>), vicino degli Hadler, che sostiene di aver passato parte del pomeriggio con Luke a sparare ai conigli ma di essere tornato dalla nonna (<strong>Dawn KIingberg</strong>) all’ora degli omicidi; un sobbalzo di quest’ultima fa capire ad Aaron che sta mentendo. Nella scuola dove lavorava Karen, il preside Scott Whitlam (<strong>Polson</strong>) li accoglie e mostra loro la scrivania alla quale la defunta lavorava per l’ottenimento di un prestito per l’istituto e qui Falk incontra Gretchen (<strong>O’Reilly</strong>), la sua ex-fidanzatina. Durante l’indagine, i ricordi di affollano nella mente di Aaron: rammenta i tanti pomeriggi passati con Luke (<strong>Sam Corlett</strong>), Ellie e Gretchen (<strong>Claude Scott-Mitchell</strong>), le piccole brutalità di Luke su Ellie, le fragilità di lei – spaventata dal padre – e la volta in cui si erano dati appuntamento di nascosto (Ellie filava con Luke) ma lei non era mai arrivata e, quando era stata trovata morta nel fiume, lui era stato sospettato e Luke gli aveva fornito un alibi, dichiarando di essere andato con lui a sparare ai conigli (questo lo aveva formalmente scagionato ma i compaesani, convinti della sua colpevolezza, lo avevano costretto a partire). Il dottore del paese Leigh (<strong>Daniel Frederiksen</strong>) gli conferma le circostanze delle morti e lo mette in guardia dai pregiudizi dei paesani. La seconda sera lui invita a cena Gretchen e quando salgono in camera sua, il farmer e meccanico Grant (<strong>Matt Nable</strong>) – che, sapendolo interessato alla fattoria di Luke, Falk e Raco avevano interrogato – li insulta pesantemente. La mattina successiva Aaron trova il cadavere di un cane sopra la propria macchina e i muri tappezzati di manifestini che lo indicano come assassino. Sta per reagire ma il preside Scott lo calma e lo porta a casa sua dove la moglie Sandra (<strong>Renee Lim</strong>) lo invita a desistere dalle indagini: lei era grande amica di Karen ed è sicura che il violento Luke sia il vero colpevole. Anche la moglie di Raco, Rita (<strong>Miranda Tapsell</strong>), gli chiede di non appesantire il marito con un compito così psicologicamente arduo e pericoloso. Intanto nelle carte personali di Karen, Bab trova un biglietto con la scritta “Grant!?” e il farmer, messo alle strette, fornisce un alibi chiaramente falso, mentre Jamie confessa che il pomeriggio fatidico era a letto con il dr. Leigh e che aveva mentito per timore delle reazioni omofobiche dei suoi amici. In hotel incontra Sandra agitata che cerca il marito e, poco dopo, McMurdo gli racconta della ludopatia della quale il preside è affetto. <br />Come era abitudine di <strong>Ellery Queen</strong> alla fine dei suoi gialli: avete tutti gli elementi, a voi la (doppia) soluzione.<br />Il poliziesco d’oltreoceano (qui siamo in Australia) ha molteplici sfaccettature ma, volendo semplificare, quando il racconto è incentrato su di un uomo solo contro tutti possiamo azzardare due macrogeneri: il cittadino, con l’eroe (non necessariamente positivo e non necessariamente vincente) che deve vedersela con le ramificazioni della malavita che governano i bassifondi della città (film archetipo <em>I trafficanti della notte</em> di <strong>Jules Dassin</strong> del 1950) e il campagnolo, dove un eroe venuto da fuori combatte l’omertà di un paese sperduto e corrotto (film archetipo <em>Giorno maledetto</em> di <strong>John Sturges</strong>). Il primo romanzo – subito best-seller - dell’australiana <strong>Jane Harper</strong>, <em>Chi è senza peccato</em> (da cui è tratto il film) appartiene a pieno titolo al secondo genere (filiazione, in fondo, del vecchio western). <strong>Robert Connoly</strong> è un interessante regista, sceneggiatore e produttore australiano; la sua prima regia, <em>The bank</em> (storia di un genio matematico che aiuta un losco banchiere per poi distruggerlo,) nel 2001 ebbe buon riscontro internazionale e molti premi (e preconizzò il crollo finanziario degli anni successivi) ma già nel 1998 con <em>The boys</em>, da lui scritto e prodotto, aveva vinto a Berlino come sceneggiatore. <em>The dry</em> giustamente non si discosta troppo dal romanzo della <strong>Harper</strong>, arricchendolo con panorami aridissimi (nell’immaginaria cittadina di Kiewarra non piove da tempo e anche il fiume è diventato un pezzo di deserto), che ben rendono l’animo dei protagonisti (arido, dry). La fotografia talora volutamente sfocata di <strong>Stefan Duscio</strong> immerge le vicende nella giusta atmosfera soffocante; il cast è ottimo e lo stesso Bana (sicuramente scelto perché australiano e noto internazionalmente) sembra ogni tanto aggrapparsi allo spaesamento del Bruce Banner, alter ego di Hulk che lui aveva interpretato, ma, proprio per questo, rende benissimo il ruolo di investigatore che, come una cartina di tornasole, fa emergere le miserie dei cittadini di quella specie di villaggio fantasma. La <strong>Harper</strong> – e <strong>Connoly</strong> la segue fedelmente - è erede della grande scuola <em>hard-boliled</em> ma con un tocco efficacemente femminista: quasi solo le donne, in quel mondo disseccato dai sentimenti, mantengono un tratto umano.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Antonio Ferraro</strong></p></div><div class="K2FeedImage"><img src="https://www.sipario.it/media/k2/items/cache/4e3c95f7730fed71a476731632f54ed6_S.jpg" alt=""Chi è senza peccato - The Dry" di Robert Connolly" /></div><div class="K2FeedIntroText"></div><div class="K2FeedFullText"> <p style="text-align: center;"><strong><span style="font-size: 14pt;"><em>Chi è senza peccato - The Dry</em></span></strong><br /><strong><span style="font-size: 14pt;">di Robert Connolly</span></strong><br /><strong><span style="font-size: 14pt;">Con Eric Bana, Genevieve O'Reilly, Keir O'Donnell, John Polson, Julia Blake </span></strong><br /><strong><span style="font-size: 14pt;">Usa- Australia 2021</span></strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Un bel thriller quasi femminista nel deserto</strong><br />Il famoso detective federale Aaron Falk (<strong>Bana</strong>) torna dopo vent’anni da Melbourne a Kiewarra per i funerali del suo amico Luke Hadler (<strong>Martin Dingle Wall</strong>), accusato di essersi suicidato dopo aver ucciso la moglie Karen (<strong>Rosanna Lockhart</strong>) e il figlio Billy (<strong>Jarvis Mitchell</strong>). I genitori di Luke, Gerry (<strong>Bruce Spence</strong>) e Barb (<strong>Blake</strong>), lo supplicano di restare per indagare su quelle morti, che il paese ha liquidato nell’ipotesi omicidi-suicidio. Aaron – che, a sua volta, era stato da ragazzo (<strong>Joe Klocek</strong>), costretto ad abbandonare il paese, insieme al padre (<strong>Jeremy Lindsay Taylor</strong>), perché a sospettato di aver ucciso la sua amica Ellie (<strong>BeBe Bettencourt</strong>) - accetta e va a dormire nell’unico bar-albergo del paese, gestito da McMurdo (<strong>Eddie Baroo</strong>); la sera viene aggredito verbalmente e minacciato da Mal Deacon (<strong>William Zappa</strong>), padre di Ellie. Il giorno dopo incontra il sergente Greg Raco (<strong>O’Donnell</strong>), che è ancora sotto shock per aver visto i cadaveri ed è ben felice che Aaron lo aiuti nelle indagini. Il primo indizio su quale si muovono sono i bossoli trovati vicino ai corpi, diversi da quelli usate da Luke. Interrogano Jamie (<strong>James Frecheville</strong>), vicino degli Hadler, che sostiene di aver passato parte del pomeriggio con Luke a sparare ai conigli ma di essere tornato dalla nonna (<strong>Dawn KIingberg</strong>) all’ora degli omicidi; un sobbalzo di quest’ultima fa capire ad Aaron che sta mentendo. Nella scuola dove lavorava Karen, il preside Scott Whitlam (<strong>Polson</strong>) li accoglie e mostra loro la scrivania alla quale la defunta lavorava per l’ottenimento di un prestito per l’istituto e qui Falk incontra Gretchen (<strong>O’Reilly</strong>), la sua ex-fidanzatina. Durante l’indagine, i ricordi di affollano nella mente di Aaron: rammenta i tanti pomeriggi passati con Luke (<strong>Sam Corlett</strong>), Ellie e Gretchen (<strong>Claude Scott-Mitchell</strong>), le piccole brutalità di Luke su Ellie, le fragilità di lei – spaventata dal padre – e la volta in cui si erano dati appuntamento di nascosto (Ellie filava con Luke) ma lei non era mai arrivata e, quando era stata trovata morta nel fiume, lui era stato sospettato e Luke gli aveva fornito un alibi, dichiarando di essere andato con lui a sparare ai conigli (questo lo aveva formalmente scagionato ma i compaesani, convinti della sua colpevolezza, lo avevano costretto a partire). Il dottore del paese Leigh (<strong>Daniel Frederiksen</strong>) gli conferma le circostanze delle morti e lo mette in guardia dai pregiudizi dei paesani. La seconda sera lui invita a cena Gretchen e quando salgono in camera sua, il farmer e meccanico Grant (<strong>Matt Nable</strong>) – che, sapendolo interessato alla fattoria di Luke, Falk e Raco avevano interrogato – li insulta pesantemente. La mattina successiva Aaron trova il cadavere di un cane sopra la propria macchina e i muri tappezzati di manifestini che lo indicano come assassino. Sta per reagire ma il preside Scott lo calma e lo porta a casa sua dove la moglie Sandra (<strong>Renee Lim</strong>) lo invita a desistere dalle indagini: lei era grande amica di Karen ed è sicura che il violento Luke sia il vero colpevole. Anche la moglie di Raco, Rita (<strong>Miranda Tapsell</strong>), gli chiede di non appesantire il marito con un compito così psicologicamente arduo e pericoloso. Intanto nelle carte personali di Karen, Bab trova un biglietto con la scritta “Grant!?” e il farmer, messo alle strette, fornisce un alibi chiaramente falso, mentre Jamie confessa che il pomeriggio fatidico era a letto con il dr. Leigh e che aveva mentito per timore delle reazioni omofobiche dei suoi amici. In hotel incontra Sandra agitata che cerca il marito e, poco dopo, McMurdo gli racconta della ludopatia della quale il preside è affetto. <br />Come era abitudine di <strong>Ellery Queen</strong> alla fine dei suoi gialli: avete tutti gli elementi, a voi la (doppia) soluzione.<br />Il poliziesco d’oltreoceano (qui siamo in Australia) ha molteplici sfaccettature ma, volendo semplificare, quando il racconto è incentrato su di un uomo solo contro tutti possiamo azzardare due macrogeneri: il cittadino, con l’eroe (non necessariamente positivo e non necessariamente vincente) che deve vedersela con le ramificazioni della malavita che governano i bassifondi della città (film archetipo <em>I trafficanti della notte</em> di <strong>Jules Dassin</strong> del 1950) e il campagnolo, dove un eroe venuto da fuori combatte l’omertà di un paese sperduto e corrotto (film archetipo <em>Giorno maledetto</em> di <strong>John Sturges</strong>). Il primo romanzo – subito best-seller - dell’australiana <strong>Jane Harper</strong>, <em>Chi è senza peccato</em> (da cui è tratto il film) appartiene a pieno titolo al secondo genere (filiazione, in fondo, del vecchio western). <strong>Robert Connoly</strong> è un interessante regista, sceneggiatore e produttore australiano; la sua prima regia, <em>The bank</em> (storia di un genio matematico che aiuta un losco banchiere per poi distruggerlo,) nel 2001 ebbe buon riscontro internazionale e molti premi (e preconizzò il crollo finanziario degli anni successivi) ma già nel 1998 con <em>The boys</em>, da lui scritto e prodotto, aveva vinto a Berlino come sceneggiatore. <em>The dry</em> giustamente non si discosta troppo dal romanzo della <strong>Harper</strong>, arricchendolo con panorami aridissimi (nell’immaginaria cittadina di Kiewarra non piove da tempo e anche il fiume è diventato un pezzo di deserto), che ben rendono l’animo dei protagonisti (arido, dry). La fotografia talora volutamente sfocata di <strong>Stefan Duscio</strong> immerge le vicende nella giusta atmosfera soffocante; il cast è ottimo e lo stesso Bana (sicuramente scelto perché australiano e noto internazionalmente) sembra ogni tanto aggrapparsi allo spaesamento del Bruce Banner, alter ego di Hulk che lui aveva interpretato, ma, proprio per questo, rende benissimo il ruolo di investigatore che, come una cartina di tornasole, fa emergere le miserie dei cittadini di quella specie di villaggio fantasma. La <strong>Harper</strong> – e <strong>Connoly</strong> la segue fedelmente - è erede della grande scuola <em>hard-boliled</em> ma con un tocco efficacemente femminista: quasi solo le donne, in quel mondo disseccato dai sentimenti, mantengono un tratto umano.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Antonio Ferraro</strong></p></div>