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Festival del teatro a Dublino - di Patrizia Monaco

The hanging gardens di Frank McGuinness The hanging gardens di Frank McGuinness Foto Ros Kavanagh

Festival del teatro a Dublino
Andante con poco brio

Dal 26 settembre al 13 ottobre: la durata del festival di Dublino è la solita, ma quest'anno l'edizione è stata alquanto sottotono. Che la crisi si faccia sentire anche qui? Intendo sulla scena teatrale perché sul piano economico ha già da anni toccato questo Paese, che è, come noi, fra quelli definiti "maiali", Pigs, come graziosamente ci definiscono i ricchi d'Europa.
Non che la quantità o le scene rutilanti influiscano sulla qualità, sempre alta di questo festival, ma l'edizione attuale ha registrato poche produzioni locali ed è stata veramente internazionale – gli altri anni gli spettacoli ospiti erano pochi anche se sontuosi e l'interesse verteva essenzialmente, per una curiosa cronista come me, su decine di spettacoli a matrice irlandese. Una scena viva, variegata, merito di una drammaturgia effervescente, giovane e meno giovane, con idee e soluzioni registiche innovative. Non vi sono state le produzioni "site spec" , create in luogo specifico, quali la lavanderia in cui le ragazze madri scontavano i loro presunti peccati lavando i panni sotto le frustate delle monache, o la pensioncina squallida dove a quattro alla volta si assisteva ad un fallito incontro omosessuale, o le orrende condizioni degli orfanotrofi, dove bimbi affamati da preti pedofili mangiavano i grani del rosario. Oppure sempre noi spettatori a due alla volta gettati nelle strade di un ghetto, e salvati, si fa per dire, da poliziotti brutali. Esperienze forti, che accrescevano la loro valenza perché il pubblico si trovava sul luogo stesso in cui erano avvenuti i fatti narrati.
Niente di tutto questo, lo scorso ottobre a Dublino. Unica stravaganza, la produzione dell'opera quasi dimenticata di Richard Brinsley Sheridan, The Critic, che si svolge prima in una sala per dibattiti trasformata in salotto settecentesco e poi attraversando una brulicante strada pedonale, nel teatrino multi funzionale The Arc. The Critic, per la regia di Louise Parker, della prestigiosa compagnia Rough Magic che due anni fa propose una strepitosa Fedra, alla fine delude. Spesso sopra le righe, verboso e zeppo di discussioni lambiccate sulla funzione della critica teatrale, sulla resa registica di un'opera mediocre, sulle idiosincrasie degli autori drammatici. Temi universali, ancora validi e tristemente attuali, ma presentati in maniera straripante e confusa. Bravissimi gli interpreti.
Nell'ambito della tradizione più rigorosa, nell'unico teatro sovvenzionato pubblico, l'Abbey il debutto dell'ultimo testo del rinomato autore, traduttore e adattatore Frank McGuinness:The Hanging Gardens. Qualcuno lo ha definito cecoviano, altri l'ennesimo dramma su una disgregata famiglia irlandese dominata da un padre padrone in ambito rurale. Propendo per l'ultima ipotesi, per quanto abbia assaporato una scenografia che riproduce realisticamente un giardino che se non è pensile è comunque lussureggiante in cui il passaggio delle ore dell'unica giornata è scandito da un abile gioco di luci, movimenti di meridiana, canto di uccelli e dalla vera pioggia che all'alba scende sul capofamiglia in pigiama, un anziano scrittore cui ormai mancano le parole, afflitto da Alzehimer. Dall'alba alla sera, quando, con poca plausibilità, tutta la famiglia, moglie e tre figli, deciderà di tornare a stare assieme, evitando il ricovero dell'anziano ma non, si presume, un gioco al massacro.
Il dialogo è brillante e sostenuto, la recitazione è impeccabile, l'atmosfera è perfetta, ma lo spettacolo non decolla. Manca la zampata che affonda nelle carni.
Lo stesso teatro nazionale, nella sua sala più piccola, il Peacock, ha presentato due altri spettacoli. Uno ospite, The Events e l'altro un monologo scritto e diretto da uno dei massimi attori irlandesi Eamon Morrissey Maeve's House.
The Events, dello scozzese David Grieg s'ispira alla strage compiuta nell' estate 2011, dal neo nazista norvegese Anders Breivik che uccise 77 giovani.
Un autentico coro, professionale o semi, diverso ogni sera, è incastonato negli "eventi" rievocati da due soli attori, Neve McIntosh e Rudi Dharmalingam, che interpretano più parti. L'uomo giovane è l'assassino, il padre, un giornalista, lo psichiatra del carcere, e la donna sacerdote è sé stessa e la sua compagna.
Il dibattito etico e morale che dilania la donna prete, sopravvissuta alla strage è avvincente. "L'assassino è pazzo o malvagio? Perché lo ha fatto ? Perché non riesco a perdonarlo?"
Domande che resteranno senza risposta, mentre la presenza del coro vuole sottolineare la comunità offesa. Pur non senza sbavature, lo spettacolo del gruppo inglese Actors Touring Company è un efficace esempio di teatro civile, secondo la politica della compagnia, che commissiona temi di rilevanza sociale a drammaturghi di ogni Paese.
L'altro spettacolo al Peacock, Maeve's House, di Eamon Morissey si svolge fra Dublino e New York prendendo spunto dal fatto curioso che l'attore è cresciuto nella stessa casa di Maeve Brennan, la scrittrice irlandese che divenne famosa a New York negli anni 50 e 60, brillante cronista del New Yorker e figlia del primo ambasciatore della Repubblica d'Irlanda negli Stati Uniti. Da un esilio volontario in una città che adorava ma che alla fine la divorò, scrisse quasi esclusivamente storie dublinesi ambientate in quella casa, non necessariamente tutte autobiografiche, al contrario. Storie di ordinaria infelicità che la bravura e la simpatia dell'interprete sanno porgere con arguzia e intelligenza assieme a gustosi aneddoti di quando Eamon Morissey era giovane attore a New York.
I termini "monologo" e "assistere" sono riduttivi per definire l'esperienza di Riverrun, "il corso o meglio, la corsa del fiume" poiché ci si immerge totalmente per 70 minuti in un fluire di gesti e di suoni. Affabula e sorride e nuota persino, con mimica non realistica, Olwen Fouéré autrice, regista e interprete del pezzo, tratto dall'ultima parte dell'impervio testo di Joyce, Finnegans Wake. Dieci anni di lavoro stanno dietro a questa realizzazione che non è un adattamento bensì, nelle parole dell'attrice: "è quel che il fiume mi ha rivelato". All'inizio, in severo abito maschile, è il fiume alla sorgente: il (la) Liffey e che Joyce ribattezza Anna Livia Plurabella, quando attraversa Dublino, che nasce impetuoso per poi scorrere placido e sinuoso verso la sua foce, quando l'attrice, levandosi la giacca resta in un corpetto femminile, svelando la doppia personalità del fiume, metafora della storia con la S maiuscola e della nostra storia individuale. Nascere cadere e risorgere, mentre terra e l'acqua esprimono, il dualismo maschio femmina. Anche. Forse.
Non è necessario comprendere, ma si apprende, poiché alla fine, dopo essere stati trascinati dalla corrente, travolti dal flusso delle parole, delle assonanze, dei puri suoni, si ripensa con meraviglia alla tecnica e al coraggio dell'interprete: non era mero virtuosismo bensì condivisione di pura teatralità.
Taramandal di Neel Chaudhuri, è la satira delle aspirazioni di coloro che vanno a Bollywood nella speranza di sfondare nel mondo del cinema. Divertenti scenette dal retrogusto amaro, interpretate con bravura dagli attori della Tadpole Repertory di New Delhi, molto colore e molte risate.
Neutral Hero dell'americano Richard Maxwell è tutt'altra faccenda.
La scena, spoglia e sotto fioche luci fisse, si apre su dodici attori non professionisti, impalati, le mani lungo i fianchi, i quali, usando un tono piatto e monocorde, volutamente sciatti nei costumi, descrivono minuziosamente una cittadina americana con il suo drugstore, ufficio postale, pompa di benzina, drive-in e casette a schiera. Per fortuna dopo il primo allucinante quarto d'ora, si entra nell'azione. E' la ricerca del padre da parte del giovane protagonista, l'eroe. Mai cambiamenti di tono o espressività facciale. Dal dibattito che ne scaturisce, dopo, con il regista, si evince che il suo scopo era di presentare un'epica della quotidianità. L'eroe quotidiano, e siamo tutti d'accordo, siamo noi, che non combattiamo nei deserti asiatici bensì con tasse, bollette e spesa al supermercato, ma... il grigiore dipinto col grigio senza sfumature è.. noia mortale. Uno studente, fra il pubblico, ha detto a Richard Maxwell che non ha provato alcuna sensazione, il regista ne era felice, poiché era quella la reazione che lui voleva suscitare. Troppo mi ha ricordato tanto teatro di casa nostra, che preferisco stendere un velo sui New York City Players.

Fra gli spettacoli ospiti a mio parere la palma va al giapponese Ground and Floor, scritto e diretto da Toshiki Okada, con cinque attori del collettivo chelfitsch (iniziale minuscola), reduce da successi in molti festival internazionali, fra cui quello d'Autumne, a Parigi.
Scena scarna ma evocativa, come le musiche, originali, che per la loro incidenza fanno definire lo spettacolo, teatro musicale. La chiave interpretativa oscilla con armonia fra la recitazione occidentale e quella derivata dalla tradizione del No giapponese, pochi dialoghi, gesti stilizzati o comunque perfettamente calibrati, una resa scenica di grande bellezza e freschezza grazie al suo nitore. La storia si dipana in una atmosfera fra sonno e veglia e il primo sovra titolo – per chi non conosce il giapponese – scandisce: il palcoscenico è il luogo dove si possono vedere i fantasmi.
Il fantasma è quello della madre di due giovani, di cui il maggiore è sposato e in attesa di un figlio e il minore, disoccupato, è in costante dialogo con lei, attraverso un oblò luminoso incastonato nel pavimento. I movimenti del più piccolo, a braccia penzoloni e chinato verso la terra che ha ingoiato anzi tempo la madre, sono pertinenti al suo stato d'angoscia. Così l'ostilità della nuora, che rifiuta il diritto alla donna morta di essere ricordata e vorrà, una volta madre a sua volta, fuggire dal paese, con o senza il marito.
In 6 brevi atti o stazioni, il malessere della piccola famiglia si rivela essere quello del Giappone di oggi, dove, dopo il terremoto e tsunami del 2011, la tragedia nucleare di Fukushima e la crisi economica, tutte le certezze sono crollate, persino quella di poter conservare la propria lingua, vale a dire la propria identità, soppiantata dall' onnipresente inglese. Un personaggio femminile, divertente e dall'eloquio velocissimo, riflette sul dominio linguistico intavolando una polemica con i sovra titoli. Le musiche che spesso riecheggiano un terremoto e questi momenti di ironia che sollevano dalla tensione danno la misura di uno spettacolo costruito come un meccanismo di precisione ma restituito sulla scena con leggerezza poetica,
per merito anche degli splendidi intepreti Taichi Yamagata, Makoto Yazawa, Yukiko Sasaki Mari Ando, Izumi Aoyagi.
Autentica festa e non solo per bambini, A Feast of Bones di Louis Lovett con la compagnia del Teatro Lovett, "dark" quel tanto che piace ai più piccoli e profondo per quel che suggerisce agli adulti.
Senso di colpa e istinto di sopravvivenza, vegetarianismo e stress postraumatico in un adattamento scenico della favola della volpe e della gallina nella riedizione di Walter de la Mare dai fratelli Grimm.
Strepitose invenzioni e sorprese a getto continuo: i ragazzi o ridevano a squarciagola o restavano a bocca aperta. O tremavano di paura. Questa è la lezione di Aristotele, signori miei!

Patrizia Monaco

Ultima modifica il Sabato, 09 Novembre 2013 14:53

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