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STRESA FESTIVAL, 57 esima edizione - "Matita e fumo... di volta in volta una canzone". -di Franco Acquaviva

Pascal Merighi in "WAK.NTR Rehab". Pascal Merighi in "WAK.NTR Rehab".

STRESA FESTIVAL, 57 esima edizione

Matita e fumo... di volta in volta una canzone
De temps en temps sinon jamais; WAK.NTR; Songs of childhood
Uno spettacolo di teatrodanza con alcuni protagonisti del Wuppertal Tanztheater di Pina Bausch e della Compagnia di Sasha Waltz & Guests

a cura di Lucrezia Zazzera

Commissione Stresa Festival
con
Dominique Mercy e Thusnelda Mercy

Clémentine Deluy e Juan Kruz Diaz de Garaio Esnaola

Pascal Merighi
Visto al Teatro Maggiore di Verbania, il 27 luglio 2018, nell'ambito di Stresa Festival

Tre coreografie separate da due brevi intervalli per le quali vengono in mente parole quali archeologia, sala prove, spoliazione, fantasmi. Tre pezzi non facili per un pubblico medio, che lo Stresa Festival ha voluto commissionare con coraggio, affiancandone la proposta ad altre di maggiore immediatezza, almeno per quanto riguarda la parte di programmazione teatrale che abbiamo potuto seguire. Così, a poca distanza dal concerto di Ute Lemper, una sophisticated lady che può sedurre varie generazioni di spettatori, ha collocato questo omaggio a Pina Bausch da parte di alcuni danzatori della storica e celeberrima compagnia di Wuppertal. Uno spettacolo crepuscolare, in certo senso ermetico, uncinato di poesia strappapelle – e per qualcuno che se n'è andato nel secondo intervallo forse anche strappapazienza.
Ma dicevamo delle parole chiave che questo lavoro ci ha suscitato. Una su tutte: archeologia. Nel primo pezzo (WAK.NTR Rehab) siamo alla rievocazione per frammenti di alcuni assoli che il danzatore Pascal Merighi aveva realizzato per alcune produzioni della Bausch tra il 2000 e il 2005. Il risultato è estremamente rigoroso, algido, quasi ostico nel suo articolarsi scenico. Ad apertura di sipario vediamo subito degli specchi mobili e un tavolino collocato in fondo a sinistra. A chi si ricordi del meraviglioso "Pina" di Wim Wenders non può non tornare in mente il tavolino dietro il quale la Bausch, avvolta nel fumo dell'onnipresente sigaretta, prendeva posto per la visione quotidiana dei materiali che i danzatori a uno a uno le mostravano. E a quel tavolo prende posto la drammaturga Thusnelda Mercy (che vedremo poi impegnata anche come danzatrice), la quale presenta i pezzi o traduce dal francese i brevi interventi verbali del danzatore. Merighi ripete alcuni frammenti, senza ausilio di musica, come fosse un allenamento per sé, che riguardi solo in parte il pubblico. Un'igiene personale, un fare memoria dei propri materiali, accettando di stare a sudare sotto il sole dell'immaginifico ricordo, e in ciò richiamando certi memorabili work demonstration dell'Odin Teatret. Archeologia, perché, com'è successo per altri grandi del teatro della seconda metà del XX secolo, la ripresa integrale di spettacoli-capolavoro rischia sempre di costituirsi come paradossale lascito di una forma d'arte che è per sua natura impermanente, e dovrebbe perciò evaporare una volta per sempre con il sudore degli attori, prendere silenzio dall'eco dei passi sul palco e dal lontano esagitare di voci ispirate che si spengono. Tuttavia qui il rischio viene intelligentemente evitato: è volutamente il frammento il nucleo espressivo di base, come si fosse consapevoli che solo esso, nel suo articolarsi discontinuo, è l'atteggiamento giusto nei confronti del passato. Che è come dire: per non cadere nella retorica della memoria è meglio vedere al lavoro l'artigiano-danzatore che ricostruisce parzialmente, per sprazzi, l'opera, rinunciando alla prosopopea dell'autentico interamente ricostruito, che diverrebbe immediatamente un falso. E se questo atteggiamento rende magari meno immediatamente appetibile al grande pubblico il risultato che seguiamo sul palco, poco importa: tale è la potenza dormiente degli spettacoli e della storia della compagnia in agguato dietro ogni gesto. Il secondo pezzo, fin da subito, per chi ha amato "Cafè Muller" (e chi non lo ha amato?) è un'emozionante promessa. Sono vari i segni visivi, presi direttamente da quel capolavoro, che ne annunciano l'evocazione: la vestaglia bianca che indossa la danzatrice, un certo uso scenico della capigliatura, che diventa elemento di grande forza, veicolo di ferina femminilità e di seduzione erotica; la figura maschile che riceve/respinge; le sedie nere dislocate per un breve tratto di palco. Ma anche qui, intelligentemente, il coreografo ha avuto l'istinto di non ripetere nulla di quel memorabile spettacolo. Sono segni che giocano con l'aspettativa del pubblico, la eludono, la rincorrono, la confermano per poi negarla subito dopo. Sono segni tracciati e subito trascesi in altro, come il tavolino della Bausch all'inizio. Ma vivo rimane il centro di forza di tutto questo articolarsi: che è quello di un processo di introspezione lirica condotto attraverso la danza, dove a danzare è anche l'immobilità, il fremere sottopelle di un pensiero-azione, il cifrarsi in alfabeto interiore, profondo, delle mani, delle dita, delle posture.
Il terzo pezzo è eseguito da un danzatore che ha percorso tutta la storia della compagnia: Dominique Mercy. Con la figlia Thusnelda, danza in un incontro di solitudini dove ciascuno riprende le sequenze dell'altro, ma cercando la distanza, a volte siderale, nelle più lontane latitudini del palco, solo a volte recependo l'incontro. Anche qui la chiave del fascino di questa danza sembra stia nella capacità di portare a cifra coreografica la gestualità quotidiana con un lavoro d'integrazione che ne fa riverberare le più nascoste pieghe, ponendo un'interrogazione sul senso profondo del nostro esserci. E' un lavoro pervaso di malinconia, in cui a un certo punto sentiamo la celebre poesia "Elogio dell'infanzia" di Peter Handke (Quando il bambino era bambino...), in un cortocircuito wendersiano dove alla tensione generata dal viluppo energetico dei segni coreografici seguono le distensioni del corpo quotidiano, e questa dialettica tra quotidiano e raffinata techne riempie di senso l'uno e l'altro.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Venerdì, 31 Agosto 2018 13:19

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