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STRESA FESTIVAL, 57 esima edizione - "Ute Lemper - Last Tango in Berlin". -di Franco Acquaviva

Ute Lemper. Foto Lucas Allen Ute Lemper. Foto Lucas Allen

STRESA FESTIVAL, 57 esima edizione

Ute Lemper
Last Tango in Berlin
Dalla Berlino di Brecht ai bar di Buenos Aires

Ute Lemper, voce
Vana Gierig, pianoforte
Victor Hugo Villena, bandoneon
Romain Lecuyer, basso
Verbania, Teatro il Maggiore, il 21 luglio 2018

Ute Lemper è una di quelle interpreti che appena entra in scena ti viene voglia di regalarle qualcosa e alla fine del concerto ti sembra di conoscere da sempre: così forte è il magnetismo scenico di questa artista tedesca ormai proiettata nell'orizzonte iconico di certe star senza tempo. Accompagnata da un trio composto da Vana Gierig al pianoforte, Victor Hugo Villena al bandoneon e Romain Lecuyer al contrabbasso, la Lemper, intubata in un lungo vestito nero tempestato di strass argentee, bronzea chioma lussureggiante, tratti finissimi, occhi mobili ed espressivi, viso a metà tra Greta Garbo e Marlene Dietrich, figura esile dalla magrezza per nulla emaciata ma anzi vigorosa, campeggia sul palcoscenico del Teatro Maggiore di Verbania per la serata dello Stresa Festival (alla 57 esima edizione) a lei dedicata. Una nota di colore che può preludere a una piccola riflessione: nel saluto che rivolge alla sala la Lemper fa riferimento a Stresa come al luogo dove sta cominciando il concerto; evidentemente l'artista non può essere al corrente della relativa distanza che invece separa quest'ultima dalla città in cui sorge il teatro. E di qui lo spunto, che spero non appaia un dato meramente locale: è probabilmente vero che da un punto di vista esterno la frammentazione tipica di questa regione, composta di tanti piccoli centri ognuno con una sua precisa identità, storia e vocazione economica, tende a sfuggire facendo emergere talvolta soltanto il dato macroscopico di un lago Maggiore, e della sua località più nota a livello internazionale – appunto Stresa – che tende a inglobare e a fondere in sé tutte le identità. Focalizzando poi il discorso sulle conseguenze che ciò comporta dal punto di vista artistico-organizzativo, è altrettanto vero un altro fatto: che cioè nella regione di cui sopra sono poche le strutture atte ad accogliere, per dotazione tecnica e capienza, stagioni teatrali e musicali di livello. Ma proprio perché sappiamo Stresa essere dotata di una sala – teoricamente – adatta, apparirebbe poco comprensibile il motivo dello spostamento di alcuni appuntamenti del festival diretto da Gianandrea Noseda a Verbania, a meno di non pensare che si volesse far fronte all'esigenza, certo sacrosanta, di valorizzare al massimo la presenza del Teatro Maggiore – costato così tanto alla collettività in termini economici, oggetto di un dibattito a volte anche aspro sulla sua costruzione, e in seguito sul suo utilizzo.
Di fatto questo teatro non solo si candida, ma forse è tenuto, anche suo malgrado, malgrado cioè alcune problematiche tecniche che lo affliggono, a diventare un centro attrattore, e non solo per le ragioni sopra addotte, ma per l'attitudine architettonica stessa con la quale si colloca nel paesaggio: progettato dall'archistar spagnola Arroyo e dal suo studio, il Maggiore è innanzitutto una colossale scultura formata da quattro padiglioni color ghisa a forma di ciottolo di fiume, che si affaccia su una larga riva dalla quale lo sguardo corre da nord a sud incontrando monti lontani, colline e, a est, la vicinissima sponda lombarda. Ma torniamo allo spettacolo. In gran parte è un omaggio a un repertorio che configura la colonna sonora degli ultimi 90 anni di musica popolare internazionale: sentiamo anche brani di Bob Dylan (Blowing in the wind) e Pete Seeger, oltre a Edith Piaf, Jacques Brel, Marlene Dietrich. Repertorio oggetto di una sorta di bulimia interpretativa da parte dell'artista tedesca, che spesso si serve dell'impulso dello swing per amalgamare in uno stile coerente l'estrema varietà dei brani proposti. E' con lo scat che la Lemper sembra avere un'affezione particolare, nelle cui volute improvvisative spesso si lancia a metà o nel finale di un song. Ma se nel repertorio mainstream non ci sembra che, anche scenicamente, la Lemper fuoriesca dai limiti beneducati della star che soddisfa le aspettative del pubblico, nella purtroppo brevissima incursione weill-brechtiana ecco che vediamo accendersi la Lemper performer. Lo vediamo immediatamente nel corpo della cantante, finora un po' costretto dal vestito che le consentiva al massimo qualche espressivo ondeggiare delle lunghe braccia nude, il quale pare accendersi da capo a piedi di un rinnovato vigore. Pur solo accennando dinamicamente figurazioni in stile cabaret berlinese degli anni di Weimar, che richiamano soprattutto la memoria cinematografica del classico di Bob Fosse "Cabaret" o altre fonti "indirette" (anche perché ci pare non esistano documenti filmici di quella forma teatrale colta "al vivo"), avvertiamo essere questo il vero "demone" ispirativo dell'artista. Di colpo infatti tutte le figure del canto e del movimento si modellano intorno a questa ispirazione, con un risultato di forte organicità che dà modo alla Lemper di applicare il giusto grado di energia in ogni momento della sua performance. I brevi e ripetuti intermezzi parlati rivelano dello spettacolo una precisa drammaturgia (un viaggio sentimentale e autobiografico che parte dall'arte rivoluzionaria del periodo weimariano) che però, disdetta, non viene svelata a chi non intenda pienamente la lingua inglese. Forse qui la consuetudine, che spesso vediamo applicata a molti spettacoli stranieri in lingua originale, di proiettare su schermo la traduzione italiana dei testi, avrebbe contribuito a dare un maggior senso di completezza alla serata. Ad ogni modo: sala piena, pubblico quasi in delirio, ripetuti bis e, per quanto ci riguarda, il lampo di un pensiero che avrà attraversato molti, donne e uomini: - adesso salgo sul palco e le regalo un fiore.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Domenica, 29 Luglio 2018 11:51

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