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BIENNALE TEATRO 2018: i Leoni, l'”Orestea” di Anagoor e il cinismo poetico di Antonio Rezza. - di Nicola Arrigoni

Leone d'Oro a Rezza/Mastralla Leone d'Oro a Rezza/Mastralla

BIENNALE TEATRO 2018

di Nicola Arrigoni

Dire dei primi giorni della Biennale Teatro 2018 è voler raccontare – fra cronaca e pensiero – lo spirito di un luogo e un tempo: il teatro che per sua stessa necessità e caratteristiche semantiche è immerso nel contemporaneo. Ecco allora che riferire dell'apertura tutta italiana della Biennale Teatro 2018 di Antonio Latella: Atto secondo: Attore Performance è immergersi in questa dimensione del dire e dell'essere, proiettati in una condivisione di interrogativi e di stare nel mondo.

Se i Leoni alla carriera guardano al futuro
È una Biennale che guarda ai giovani, in cui la necessità di un passaggio di consegne e di un atto di fiducia nel futuro hanno il vociare chiassoso di una platea variopinta protagonista e non solo spettatrice dell'inaugurazione della kermesse veneziana. Il presidente Paolo Baratta ha messo in evidenza la centralità della sezione College che vede artisti under 30 impegnati a misurarsi sul tema del bacio, atto performativo per eccellenza, ha detto Latella. I giovani artisti sono chiamati – sotto la guida di maestri registi quali Roberto Latini, Silvia Calderoni, Gisèle Vienne, Guido Mencari, Jacop Ahlbom, Vincent Thommaset, Francesco Manetti e Alessio Maria Romano, Antonio Rezza e Flavia Mastrella – a lavorare su quel gesto, respiro di umida passione del cuore che è il bacio, per proporne a fine kermesse uno studio. Il migliore dei lavori diverrà una produzione in cartellone alla Biennale del 2019. Attore/performance: su questo si concentra la seconda tappa del progetto latelliano per la Biennale. Il festival vive di una sua allegra, ma non per questo meno seria informalità, in grado di incarnare l'idea e la pratica di un teatro che è casa aperta all'incontro, al cimento di sé. In questa prospettiva di spazio corale, palestra di creatività l'avvio della kermesse veneziana ha dimostrato di aver voglia di scommettere su un teatro contemporaneo, ma ancorato nella tradizione con il Leone d'argento assegnato ad Anagoor di Simone Derai e Marco Menegoni che hanno presentato la loro Orestea, kolossal di quattro ore. Derai ha citato il leone marciano come simbolo di robusta possenza, ma con le ali che puntano al cielo, simbolo di apertura e non di chiusura e barriere. Ed è scoppiato l'applauso complice della platea. E sempre il regista di Castelfranco Veneto ha citato il giovane Canova che da garzone scolpisce un leone in un panetto di burro, destinato sciogliersi e per Derai simbolo della natura effimera del teatro che chiama a rapporto le arti e si compie nell'effimero del qui ed ora. Non meno forte e spiazzante il Leone d'oro alla carriera per Antonio Rezza e Flavia Mastrella, un binomio artistico in cui teatro, installazione e performance sono un tutt'uno, sono la capacità di oltrepassare generi e stili e, come ha detto Latella nella motivazione al premio: «grazie ad Antonio Rezza le distinzioni di attore e performance si annullano, creando una modalità dello stare in scena unica per estro e, a tratti, per pura, folle e lucida genialità». Ed in questo sta la sintesi di un festival che ha preso il via con gli spettacoli dei due Leoni e che fino al 5 agosto andrà cercando l'essenza e la responsabilità dello stare in scena come atto estetico ed etico. Un impegno non da poco condiviso da ragazzi poco più che trentenni, da teatranti e critici: esponenti minoritari di una comunità che non vuole cedere alla barbarie.

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Orestea e l'Occidente, terra al tramonto
In questo stare sul limite che dà sull'abisso, nella consapevolezza che dal palco la platea è un buco nero che fagocita si presenta con luminosa e icastica ritualità l'Orestea di Anagoor, un azzardo drammaturgico, un magmatico materiale pensante agito in scena. Simone Derai e Marco Menegoni con la loro compagnia orchestrano il racconto eschileo di Agamennone, Schiavi, Conversio infarcendo la vicenda del mito degli Atridi con pensieri, parole, testi altri, con la prosa delfinca di Emanuele Severino, con filmati che costruiscono altrovi possibili, suggeriscono metafore, sembrano aprire vie di uscita o semplicemente confermano la consapevolezza della fine e del divenire. In quel rettangolo sgombro si palesano non solo gli attori/officianti del rito, ma gli oggetti: un capro, sacrificio di Ifigenia, scandalo della violenza del sacro, la lana di un vello non d'oro ma intriso di sangue e violenza: la guerra di Troia, la vestizione di Clitemnestra a sua volta sacerdotessa che ricorda la Medea pasoliniana o certi mosaici ravennati, i messaggi radiofonici di una guerra lontana e del ritorno degli eroi che nella composizione dei corpi degli attori sembra recuperare certa poesia figurativa degli anni Trenta e del ritorno all'ordine. Simone Derai – orchestratore e mago di situazione – e Marco Menegoni coreuta e narratore interno, ma al tempo stesso coro e voce fuori campo di un accadere che è pensiero con Orestea sembrano portare a sintesi l'estetica maturata in questi anni e nel lungo spettacolo vi si colgono le precedenti tappe del loro lavoro: da Lingua Imperi a Virgilio Brucia e a Socrate il sopravvissuto. Questo non solo perché l'aparato scenico e simbolico è spesso il medesimo, ma perché in questo frequentare il mito si avverte la necessità dei giovani, ma già affermati artisti veneti di interrogare la tradizione, le origini della cultura occidentale che ha nei greci e nella tragedia il proprio atto fondativo, ma anche profetico. "I Greci hanno inventato l'idea che l'essere finisca nel niente, sprofondando per lsempre l'Occidente nel dolore", scrivono Derai e Menegoni nel bel catalogo di Biennale Teatro 2018. E fin qui nulla di nuovo, ma ciò che interessa di questa Orestea è il suo tradimento, il suo oltrepassamento che si compie nel prologo sulla morte, sulle bare accostate l'una all'altra, sulla cattiva abitudine dei cristiani di rinchiudere i morti in casse e non lasciarli al ritorno marciscente e metamorfico nella terra. La morte, l'uccisione dei bambini – Ifigenia in primis, ma vengono in mente i bambini dei Karamazov e l'inquietante interrogativo sul dolore e infanzia dostoevskijano – fanno da filo conduttore a una narrazione che procede per accostamenti, che nel racconto del mito, nella riproposizione del rito tragico ha un suo semplice orizzonte di riferimento, ma non è il cuore dell'operazione che ha l'ambizione di interrogare il senso di giustizia, l'imponderabile verità del dolore, l'insostenibile peso dell'assenza e la nostalgia dell'essere attraverso testi di Sebald, Leopardi, Ernaux, Severino, Givone e l'amato Virgilio. Dove Derai e Menegoni si trovano ad agire con più astratta libertà danno il meglio. Così paradossalmente quando la vicenda del mito è compiuta, raccontata, è allora che il pensiero sull'essere e il non essere, sul divenire e sul pianto rituale, sulla necessità di dare presenza ai morti come occasione per mantenere viva l'immagine effimera di una vita che continua hanno il loro compimento, la loro più piena realizzazione e rappresentazione. E' nella seconda parte di Oreseta – quando il mito cede il passo al simbolo – che si avverte una sorta di azzardo calligrafico sul pensare un possibile divenire in cui la morte è fine ma non finita, è rimettere in circolo, è sciarada di anime, è l'immagine che evapora e svapora di generazione, in generazione eppure persiste. E allora in questa ostinazione a essere c'è il grido carico di fiducia e fede di questa Orestea di Anagoor e forse dei questo debutto di Biennale.

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Esistere e resistere con Rezza/Mastrella
7-14-21-28 ed ecco che Antonio Rezza, ingabbiato, esaltato dalle scene/costumi di Flavia Mastrella mostra con potenza e irriverenza la forza dell'attore/performer, la forza della sconfitta, l'inganno del religioso, la potenza della bestemmia – c'è anche questo -, l'irriverenza cinica eppure poetica di un non senso, di un giocare a spiazzare lo spettatore e magari anche se stesso. La decisione di dare il Leone d'Oro a Rezza/Mastrella - decisione tradiva per ammissione ironica e ripetuta ad ogni pemio dallo stesso attore performer – trova nell'esordio della Biennale la proposizione di tre lavori dell'attore. Nella giornata inaugurale è stato riproposto 7-14-21-28 una sorta di danza macabra che parte con una confessione in altalena di star meglio, di aver superato il trauma, a colpi di Ziguli, ovvero la violenza pepetrata dal prete di turno sul bambino all'oratorio. Rezza è feroce e ci butta in faccia la 'mala educaciòn', ci fa prendere familiarità con essa, e quando tutto sembra essere compreso, cambia registro, si attacca a un trespolo e racconta di una partecipazione alla democrazia di rappresentanza al limite del non-senso e del ridicolo. Ma al di là di ciò che Rezza dice è ciò che fa, come lo fa che ipnotizza, che rapisce lo spettatore in un continuo susseguirsi di fuochi d'artificio attoriali, in una tensione del fisico e della parola che non lasciano spazio a nulla e riempiono lo spazio, che divertono e un po' inquietano. Antonio Rezza è figura dis-umana, è fumetto, è saltimbanco, è segno antropomorfico di un disegnare lo spazio, ha la stessa consistenza delle tele, degli elastici, dei praticabili con cui Mastrella lo ingabbia e lo imprigiona, ma al tempo stesso gli offre appigli per essere altro sa sé, per essere quella puttanella numero 52, per essere Gigino che si inchiappetta Gigetto, per essere quel padre che bestemmia sull'ennesima richiesta del piccolo, quella cioccolata che non si può o non vuole permettersi. E se questo è il primo tassello della trilogia che si completerà con la proposta e ri-proposta di Fratto X e Anelante, una cosa è certa: in miglior modo non si poteva dare corpo e visione al sottile rapporto fra attore e performer, se non proponendo l'indefinibile e inafferrabile Antonio Rezza che nel cuore della notte veneziana si conquista un lungo e prolungato applauso da parte della platea di una giornata da Leoni.

Ultima modifica il Domenica, 22 Luglio 2018 10:34

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