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96° ARENA DI VERONA OPERA FESTIVAL - “Carmen”, regia Hugo De Ana. - di Federica Fanizza

“Carmen", con Ugo De Ana. Foto ENNEVI “Carmen", con Ugo De Ana. Foto ENNEVI

Opéra-comique in quattro atti Libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy
dalla novella omonima di Prosper Mérimée
Musica di Georges Bizet
NUOVO ALLESTIMENTO

Direttore Francesco Ivan Ciampa
Regia, Scene e Costumi Hugo de Ana
Coreografia Leda Lojodice
Lighting design Paolo Mazzon
Projection design Sergio Metalli

Personaggi e interpreti

Carmen Anna Goryachova
Micaela Mariangela Sicilia
Frasquita Ruth Iniesta
Mercédès Arina Alexeeva
Don José Brian Jagde
Escamillo Alexander Vinogradov
Dancairo Davide Fersini
Remendado Enrico Casari
Zuniga Luca Dall'Amico
Moralès Biagio Pizzuti

ORCHESTRA, CORO, BALLO E TECNICI DELL'ARENA DI VERONA
Coro di Voci bianche A.LI.VE. diretto da Paolo Facincani
Maestro del Coro Vito Lombardi
Coordinatore del Ballo Gaetano Petrosino
Direttore Allestimenti scenici Michele Olcese

Verona, Arena 22 giugno 2018

Erano tante le aspettative per il nuovo allestimento della Carmen di Georg Bizet progettato da Hugo de Ana scelto per l'inaugurazione della 96a stagione dell'Arena, messa in scena che andrà a sostituire quella storico e carica d' anni di Franco Zeffirelli.
Nelle sue note di regia Hugo de Ana ritiene che la donna "Carmen" sia la donna che lotta per affermare una libertà, un'uguaglianza, un diritto, in una Spagna arcaica sospesa nei suoi rituali, come ce la descrive Prosper Mérimé nella sua omonima novella (1845). Per scelta ideologica il regista ritiene che esiste un altro periodo storico, migliore, per raccontare la vicenda della zingara: quello della Spagna repubblicana durante gli anni Trenta, in un periodo politico che ha visto, nella lotta delle donne, un vero e proprio evento sociale. La Spagna repubblica vive le sue utopie rivoluzionarie tra violenze politiche e sociali, e sarà travolta dalla guerra civile che dal 1936 al 1939 la devaserà con l'affermazione della dittatura franchista.

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Hugo de Ana pone al centro la figura di Carmen, la zingara libera nella vita e negli affetti ma gli sfugge che il personaggio della protagonista si erge su una contraddizione di fondo: ha un lavoro e anche di riguardo, sigaraia in una Manifattura Tabacchi, lavoro duro esclusivamente femminile, svolto sotto l'occhio vigile di militari che presidiavano gli stabilimenti per smascherare contrabbandi di merce. Ma avere quel lavoro significava anche appartenere ad una classe operaia privilegiata, che fa essere Carmen donna libera e indipendente economicamente, di litigare anche in fabbrica, capace di scegliere con chi stare, con i contrabbandieri come con i toreri, piuttosto che con un sottoufficiale ingenuo che pensa alla carriera e alla madre a casa, una donna che alla fine si permette di giocare con le vite altrui.
Ci si aspettava forse una Spagna, desunta dai romanzi di Ernest Hemingway, polverosa e assolata, meno iconografica e più sostanzialmente umana. Ma il regista argentino ci ha invece presentato una Carmen fondamentalmente tradizionale, con l'idea sottesa che ha funzionato sostanzialmente bene nel primo quadro dove tutte le situazioni riuscivano ad essere inserite in quel contesto cronologico che il regista si era costruito secondo i suoi dettami, ma colmando di situazioni gli ampi spazi del palco in un vago "horror vacui" per diventare, al fine, debitore della tradizione teatrale del tanto deprecato Franco Zeffirelli per i suoi eccessi scenici, ma al quale alla fine di deve far riferimento per chi si vuole cimentare in regie liriche negli spazi areniani che sia ricche di effetti e popolari.
La visione della Spagna messa in cantiere si dissolve nel corso degli atti, non bastano i camion in scena o le grate che segnano un ipotetico confine eluso dai contrabbandieri per creare qualcosa di nuovo. I costumi (escluse le divise militari) ci inducono in un inganno temporale segnato dalla tradizione, che porta ancora in scena le gonne lunghe "alla zingara" e tutta l'iconografia della più tradizionale delle Carmen possibili. Innovative sono invece le installazioni di "Video mapping" (projection design Sergio Metalli) proiettate sulle le gradinate di retropalco che restituiscono un'altra scenografia, questa virtuale, che nel terzo atto proietta lo spettatore lungo una frontiera della Spagna o che trasformano lo spazio veronese in spalti dell'Arena di Siviglia. Ne risulta alla fine una regia insoluta con ricadute sulla resa musicale. Certo il clima metereologico del serata (l'anfiteatro è stato spazzato da sferzate di vento gelido), non ha contribuito riscaldare il pubblico areniano e non vi è riuscita neppure la musica. Debuttava sia nel titolo di Bizet sia sull'ambito podio dell'anfiteatro veronese il direttore Francesco Ivan Ciampa ma la sua gestione dell'opera non è stata memorabile. E' encomiabile la sua idea di recuperare tra le righe della composizione di Bizet tutti quegli elementi di intimità musicale della tradizione francese, che in ordine sparso ha fatto trapelare, evitando di cadere nel facile effetto folkloristico, ma certamente una tale interpretazione era inadatta a confrontarsi negli dispersivi spazi areniani dove occorre produrre suono. Ne ha risentito di conseguenza anche il canto proprio comprimendo la figura vocale della protagonista, affidata al mezzosoprano russo Anna Goryachova, al suo debutto in Arena: le sue arie del primo quadro sono state rese con tempi lunghi e con alcuni sfasamenti con l'orchestra che distoglievano dall'idea di una Carmen irruente e libertaria che era quella che si voleva, invece, dimostrare.

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Interessante invece il Don José impulsivo di Brian Jagde che, dotato di buoni mezzi vocali, ha saputo padroneggiare bene la parte: possiamo perdonargli una resa in falsetto della romanza del "Fleur".
Interlocutorio è stato il baritono Alexander Vinogradov, Escamillo, che ha mostranto difficoltà nelle conclusioni delle frasi musicali.
E' risultata invece pienamente nel ruolo di Micaela, il soprano Mariangela Sicilia, con una ottima linea di canto spiegando la voce in modo da farsi ascoltare negli ampi spazi, con un colore più da soprano drammatico che da lirico delineando anche un personaggio aderente anche al testo che i librettisti le hanno ritagliano (ha paura ma se ne va da sola per le montagne, rifugio di banditi).
Buoni i comprimari Davide Fersini nei panni del Dancairo e Enrico Casari di Remendado, degnamente affiancati dalla Frasquita di Ruth Iniesta e dalla Mercédès di Arina Alexeeva, così come il Zuniga di Luca Dall'Amico, il buon Moralès di Biagio Pizzuti e Coro di Voci Bianche A.LI.VE diretto da Paolo Facincani.
Da non tralasciare il saluto iniziale del Sovrintendente Cecilia Gasdia, che come donna, ha reso un dovuto omaggio al "posto vuoto" una poltrona di platea lasciata vuota a testimonianza delle innumerevoli donne uccise per femminicidio, saluto che è proseguito con un suo particolare ringraziamento e riconoscenza nei confronti del lavoro svolto con professionalità e competenza da tutte le maestranze e operatori della Fondazione che si adoperano per far sì che l'Arena sia il più grande palcoscenico del mondo; un lungo cerimoniale inaugurale che è proseguito con la lettura del messaggio del Presidente della Repubblica e la successiva esecuzione dell'Inno nazionale ad opera del coro dell'Arena.
Il pubblico internazionale ha decretato il successo a questa produzione senza entusiasmarsi più di tanto: sarà da vedere come si evolverà lo spettacolo nel corso delle repliche.

Federica Fanizza

Ultima modifica il Martedì, 26 Giugno 2018 12:46

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