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CROSS FESTIVAL VII edizione 2018 - “Lifeguard”, coreografia e performer Benoît Lachambre.- di Franco Acquaviva

“Lifeguard”, coreografia e performer Benoît Lachambre “Lifeguard”, coreografia e performer Benoît Lachambre

Lifeguard
Coreografia e performer: Benoît Lachambre
Artistic advisors: Anouk Thériault, Georges Stamos, Valérie Lanciaux
Direttore tecnico: Samuel Thériault
Fotografie: Veronique Mystique
Produzione: Par B.L.eux
Partners: CDC Atelier de Paris – Carolyn Carlson, Centre National de la Danse de Pantin, Ménagerie de Verre.
Con il supporto del Conseil des Arts du Canada, Conseil des Arts et des lettres du Québec, Conseil des Arts de Montréal.
Si ringrazia Alexandra Bertaut per l'aiuto con i costumi.

Nell'ambito di Cross Festival VII edizione, organizzato da Lis Lab Performing Arts.
Visto al Teatro Maggiore, Verbania, il 13 giugno 2018

Il festival Cross di Verbania è un coraggioso tentativo, giunto al settimo anno, e coronato dal successo, di portare le più recenti creazioni della performance contemporanea in questo angolo di provincia piemontese. Siamo al Teatro Maggiore, in una piccola sala. Prima di entrare, una raccomandazione: togliersi le scarpe. Dentro c'è già gente seduta per terra, mentre il performer danza da solo con delle cuffie alle orecchie. Si presenta, parla in inglese, tradotto dal vivo. Accenna un passo di samba. Poi chiede al pubblico di leggere un elenco di nomi da un foglio, mentre lui va a prendere una di quelle scope a frange con manico snodabile, e la fa scivolare tra il pubblico: risatine, spostamenti, commenti divertiti o perplessi. L'atteggiamento da fool-folletto-satiro è la chiave perché ci si senta di concedere credito al comportamento scenico di Benoît Lachambre, al suo divagare aleatorio, apparentemente privo di costrutto. Dopo un po' sembra crescere nel pubblico qualcosa che, se non è rifiuto, ancora non è accettazione. Nell'indecidibilità della nostra posizione di spettatori (anche fisica) sta forse il senso di questo ondivago errare del performer? Come uno spiazzamento necessario a introdurre qualcosa d'altro? Qualcosa che però tarda ad arrivare. Protagonista per ora è ancora la scopa a frange, con la quale il danzatore fa come per designare, a turno, gli spettatori che gli sembrano più disponibili. Intanto è partita una musica disco che fuoriesce dalle casse poste in fondo alla sala. L'invito è alla danza, la maggioranza guarda, qualcuno si fa snidare e segue Lachambre: animazione da festa? Ma è una festa tra sconosciuti. Sul volto del canadese un sorrisetto tra ironico e giocoso. Sembra ora che tutti realizzino: - ah, forse è questo che vuoi da noi. Il drappello dei danzatori aumenta e si sposta per la sala, gli altri fanno cerchio intorno, chi parlotta col vicino, chi si guarda intorno (la sala è illuminata a giorno). Così prendiamo la decisione di muoverci nello spazio, ci sembra che lo spostamento del punto di vista possa giovare. Da un lato sembra che si "giochi" al coinvolgimento, che lo si voglia mettere tra virgolette, distanziarlo ironicamente. Dall'altro però la gente lo prende sul serio e si fa coinvolgere. La sottigliezza del discorso, se c'è, è imprendibile, prevale la letteralità, e tutto di colpo appare un po' falso. Qualcosa che non decolla. Si tratta di "condividere un'intimità interpersonale" con gli spettatori, riporta il programma di sala; ma l'intimità sarà semmai un risultato, più che un metodo o una premessa. Viene da riflettere su questo benedetto concetto di "coinvolgimento del pubblico". Che qui sembra risolversi più nel suscitamento di riflessi condizionati. Sul tum-tum sparato dalle casse infatti l'ondeggiamento del corpo è riflesso pavloviano. Non certo trance. Trance? Che si parli di questo? Cioè della sua impossibilità? Il fatto che si cominci a ballare non appena il quattro quarti esplode dalle casse allude forse a un'impossibilità, più che a una liberazione? Ballare in questo modo in fondo è un'altra maschera sociale. La trance invece spezza ogni maschera sociale. Accetta solo quella del dio – come abbiamo visto assistendo a Cuba alla Santeria e al Candomblé in Brasile: rituali che duravano una notte intera (e non certo roba per turisti). La trance è uno strappo improvviso. A un certo punto uno si stacca dal sottofondo dei corpi in movimento e perde (o sembra perdere) il controllo, è dominato da movimenti convulsivi, la testa rilasciata, la bava alla bocca, gli occhi arrovesciati – il corpo fonde. La domanda sembra trovare, negli indizi che via via si sommano, risposte che vanno in quella direzione. Sembra proprio che tutta questa "cosa" sia un "discorso" sulla possibile funzione sciamanica di un danzatore immerso nello scetticismo occidentale contemporaneo; dove se crei una comunità temporanea ma intenzionale, com'è quella di chi per un'ora si riunisce per uno spettacolo, non puoi partire dal rito ma dalla distruzione, probabilmente, di ogni ritualità – o meglio, dal suo allontanamento ironico. Si può allora dire che quella lunga premessa sia una preparazione? Per che cosa? L'ultima parte del lavoro sembra fornire una risposta. Dopo essere passati per una modalità di lavoro simile a certi esercizi tipici dei seminari di teatro (una serie di proposte vocali del performer cui segue l'imitazione a responsorio dei presenti), nella quale notiamo la particolare tecnica vocale di Lachambre, che ricorda i famosi risuonatori degli attori di Grotowski, ecco che di colpo cambia la musica: ora è un quartetto d'archi, e l'immagine dell'uccello, che è stata evocata varie volte nel corso del pezzo, si invera nel corpo del danzatore: una minutissima tessitura di impulsi nel torso, così frequenti da virare nel tremito continuo. Poco prima egli ha chiesto a qualcuno del pubblico di toccarlo mentre cerca di far nascere (o morire) l'uccello in sé. Anche nel modo in cui gli spettatori si approcciano al "toccare" il corpo del performer vediamo all'opera una serie di condizionamenti. Dove toccare implicherebbe una pressione a favore o a contrasto del movimento, vediamo un gesticolare generico, un "pettinare l'aura del corpo", che evita il contatto, tranne in alcuni casi, dove si capisce di essere in presenza di collaboratori del danzatore (o di spettatori da lui preparati nell'incontro che ha preceduto lo spettacolo). Il pezzo finale, tutto reso da seduto su un alto sgabello, intensifica magistralmente il concerto degli impulsi. Una sorta di puntinismo dell'energia dove a poco a poco scorgiamo qualcosa che assomiglia davvero a (o è) un corpo posseduto.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Sabato, 23 Giugno 2018 11:24

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